Da Colle Melosa a Molini

Topini! Ma io mai più pensavo che una passeggiata nella mia Valle mi portasse tutte queste nuove amicizie. Vi è piaciuta proprio! Commenti e mail. Bellissimo! Grazie a tutti. Ora che lo so, saranno cavoli vostri! Vi annoierò… andremo a conoscere ancora meglio la splendida valle in cui vivo continuando dall’articolo precedente a questo intitolato: “Da Triora a Sansone”.

Questa volta, da Sansone, scenderemo giù, passando dall’ormai famoso Colle Melosa per poi giungere a Molini un paesino di poche anime, che fa comune con Triora e merita anch’esso un post. Lo farò. Io lo chiamo il paese delle lumache. Tutti gli anni, a settembre, organizzano la sagra della lumaca, nelle botteghe vendono un liquore chiamato “latte di lumaca” e insomma che tutto gira intorno a questi animaletti con i cornini ma… torniamo a noi.

Come vi dicevo, eravamo rimasti a circa 1700 metri. Non ci crederete ma saliamo ancora prima di scendere. Saliamo e ci inoltriamo, senza poterla evitare, nella foresta del Gerbonte. Un luogo spettacolare.

Ricco di una flora e una fauna da invidia!

Il verde vivo, i fiori e gli alberi ritrovati a Sansone ci accompagnano fin qui e, di tutto ciò, i più felici, sono gli animali che brucano in ogni dove, in particolar modo le pecore di un pastore che ci fanno vivere un’avventura davvero carina.

Dal sottobosco, assetate, si dirigono tutte verso una fontana che in tempo di guerra abbeverava cavalli e soldati e, guardate un pò come ci siamo ritrovati.

 

Nel bel mezzo di un gregge! Ma posso assicurarvi che sono animali molto innocui. Non c’era verso di farle spostare, abbiamo dovuto per forza aspettare il pastore che arrivasse e, solo a quel punto, ci hanno liberato la strada, obbedienti ai comandi.

Mi sono stupita nel vedere tanta agilità in questi animali, si arrampicavano ovunque e devo ammettere che erano anche ben tenute. Nonostante tutto, avevano un mantello molto curato.

Salutate le simpatiche pecorelle, usciamo dalla foresta, a tratti, adorna di muretti di pietra, probabili postazioni di un tempo e, salendo ulteriormente, possiamo ammirare un panorama che ci lascia senza respiro.

Siamo sulla Alta via dei Monti Liguri; dopo la vedremo meglio perchè si riuscirà a fotografare ma prima dobbiamo scendere.

Ora ci siamo proprio sopra, ed è da li, che riusciamo a vedere una delle nostre mete. In lontananza infatti scorgiamo la Diga di Tenarda, proprio nel centro della vallata, che spicca tra i monti. Avvicinandoci, scopriremo poi che è circondata da un ricco bosco verde scuro nel quale nascono spontanei, buonissimi mirtilli.

E  allora, cosa aspettiamo? Eccola più vicino a noi. Da questa via, costeggiata da prati come quelli che avevamo incontrato salendo, si vede davvero tutto, addirittura, con l’obbiettivo, possiamo fotografare il rifugio ben organizzato di Colle Melosa, chiamato rifugio Allavena.

Una trattoria nella quale si mangia benissimo, gestita da persone cordiali e posso affermare, molto pazienti, dato che, prendendomi un caffè, nel cercare di aprire la bustina, che sbattacchiandola si è divelta, ho sparpagliato granelli di zucchero in tutto il locale (è per queste mie carinerie che mi conoscono ovunque). Molto bene, dopo avervi raccontato una delle mie solite figure proseguiamo e siamo così liberi da poter vedere bene quanta strada dobbiamo ancora fare e quanta invece ne abbiamo già percorso ed è proprio quest’ultima ad essere denominata appunto Alta Via.

Siamo altissimi. Calcolate che questo tour dura leggermente meno dell’altro (ma tutto sta anche nella permanenza delle pecore in mezzo alla strada), ci vogliono circa 2 orette e quasi 70 km. C’è un pò di nebbia che fortunatamente ci abbandona quasi subito ma devo ammettere che spesso non riuscivamo a vedere cosa poteva esserci dall’altra parte della strada, in questa foto potete rendervene conto. Cosa ci sarà dopo questa curva?

Bè, nemmeno la nebbia però ci ha impedito di rimirare una nuova vallata che si è aperta sotto i nostri occhi. Valli dopo valli, una più bella dell’altra. Ed è proprio qui che sorgono caserme ormai ridotte in ruderi, vecchi bunker, al di sopra di quelle postazioni che abbiamo incontrato prima.

Parecchi costruiti su precipizi, proprio a dominare. Il paesaggio è magnifico ma pensare che degli uomini hanno passato in quei luoghi, parte della loro vita, mette i brividi. Provate ad immaginare gli stessi posti in inverno, completamente ricoperti di neve, freddo e buio.

Iniziamo a scendere e la temperatura sale, di solo un grado ma sale, siamo a settembre, un settembre caldo con 30 gradi sulla costa ma, qui, ce ne sono solo 11. Eccoci arrivati alla diga. Ora possiamo vederla in tutto il suo splendore e potete notare tutt’intorno gli alberi che la circondano. Questo lago artificiale è stato costruito all’inizio degli anni ’60 ed è vietatissimo avvicinarsi, o meglio, bisogna passare solo dal sentiero e farsi riconoscere e chiedere il permesso. Tutto è recintato da filo spinato e un guardiano, un uomo alto e distinto, controlla che non accada nulla.

E’ subito dopo la diga che volendo, girando a destra, possiamo arrivare a Ventimiglia, entrando nella Val di Nervia, ma noi preferiamo continuare per la nostra strada e giungere a San Giovanni dei Prati.

Un grandissimo prato ai piedi di un bosco dove regna solitaria una chiesetta in parte protetta dal sole da un gigantesco ciliegio. Siamo a circa 1240 metri d’altezza. Viene aperta per la messa e la festa, solo il 24 giugno. I nostri vecchi dicono che prima del 24 giugno non si può fare il bagno al mare perchè San Giovanni non lo ha ancora benedetto e quindi è pericoloso.

Ovviamente, ai giorni nostri, nessuno crede a questa diceria ma è simpatico ricordare i detti dei nostri nonni. Poco lontana dalla chiesa c’è una struttura nella quale d’estate i ragazzi vanno in colonia con i preti, penso siano boys scouts e fanno ricerche sulla natura e avventure, vivendo come si viveva un tempo. Non è proprio un corso di sopravvivenza ma poco ci manca. Ci soffermiamo un pò in questo prato, rimiriamo la chiesetta in ogni suo piccolo particolare e devo dire che è davvero graziosa.

Il sole è tornato a farci compagnia e, alzando gli occhi al cielo possiamo notare i monti e i sentieri che abbiamo appena attraversato.

Vi mostro anche delle loro foto, scattate proprio da San Giovanni, ad aprile, così li potete vedere anche ricoperti di neve, una neve che ormai, con il calore, si era sciolta scendendo a valle.

In una foto, si vede il sentiero che quasi taglia in due la catena di monti, nell’altra, la ex caserma, il rifugio abbandonato del Monte Grai, uno dei monti più alti della zona, 2012 metri, insieme al Toraggio e al Pietravecchia.

Ebbene si, poco prima, eravamo proprio sopra i duemila metri cari topini! Abbandoniamo l’ex cenobio e ce ne torniamo quasi a casa. Molini di Triora. Ad accoglierci un simpatico e timido asinello.

Come vedete, animali selvatici, quel giorno, neanche uno. Lasciamo anche Molini e continuiamo a scendere. Dalla sua posizione, austera come sempre, fin dai tempi dei Saraceni, la Rocca o, se preferite, la Torre di Andagna, paesino poco più sotto, ci saluta con il suo, per me, perpetuo, arrivederci.

Spero che anche questa passeggiata vi sia piaciuta perchè non sarà l’ultima. Uno scodinzolio di coda a tutti. Pigmy.

M.

Questo non è un blog hot!

Gente! Anzi… uominiiii!!!! Qua, urge chiarire.

Allora, mi vedete? Mi vedete bene? Si, sono questa qui. Questa che vedete in foto.

Ora, io capisco che in questa immagine sono rimasta particolarmente bene, come vedete, pettinato così, all’indietro, il pelo mi sta decisamente in modo meraviglioso. Capisco anche che, i miei dolcissimi occhioni, non vi lasciano indifferenti, capisco che la mia coda possa avere su di voi un fascino particolare e il mio musetto faccia parte dei vostri sogni proibiti, capisco tutto. Tutto. Ma… NON SONO CIO’ CHE CERCATE.

Ammetto di essermi scelta un nome che la dice lunga e sono consapevole del fatto che il termine “Topina“, possa farvi fantasticare su quello che probabilmente vedete di rado ma è giunto il momento ch’io vi tolga l’illusione.

La Topina, in questo particolare frangente, è semplicemente la femmina del topo. E’, ancor più semplicemente, un animaletto simpatico, indaffaratissimo, saggio, tenero, dolce, gioioso, instancabile, curioso, coraggioso, altruista, intelligente, affascinante, allegro, astuto, docile, umile, onesto e soprattutto molto molto, modesto!

Ecco perchè l’ho scelto. Inoltre, è proprio un animaletto dei boschi e delle campagne, di legnaie, fattorie, prati, monti… tutto quello che comprende la mia Valle! E’ proprio adatto capite?

Poi, voglio dire, un bimbo, ad esempio, non lo chiamate topino? Un fidanzato, non avete mai sentito chiamarlo topo dalla propria compagna? E allora! Topino si, Topina no. E perchè mai? Nella mia famiglia sono termini usati giornalmente.

Siate sinceri, potevo chiamarmi forse “la civetta della valle argentina”? O “la rana della….” o “la mucca della…”. No.

In fondo, voglio dire, ciò che intendete voi, ha già mille nomi, non potete mica appropriarvi di tutti i nomini e i vezzeggiativi presenti?!

Quindi volevo chiarire e mi sembra che sia abbastanza palese e semplice.

Inoltre, mi spiace molto di comparire nelle vostre ricerche intitolate: sederone in Argentina – la topina della cinese – il seno della topa, etc, etc… (Guardate che le vedo eh? Mattacchioni!) ma potete leggermi ugualmente…. conoscete la Serendipity? Praticamente accade quando state cercando una cosa e ne trovate un’altra migliore.

Bene, quella sono io!

Sicuramente, saprò farvi passare il tempo in modo più costruttivo. Buon proseguimento!

M.

La mia grolla

L’ho chiamata “la mia Grolla” perchè è la Grolla che prepara topomamma, nelle sere invernali, quando siamo tutti insieme per festeggiare occasioni particolari.

Mi spiega che di ricette ce ne sono diverse per realizzarla, io conosco solo la sua, ma vi posso assicurare che è deliziosa e ve lo dice una che non ama molto l’alcool. Si, perchè la Grolla dell’Amicizia, questo è il suo nome, è una bevanda calda, leggermente alcolica.

La ricetta è davvero semplice ma vi farà fare un figurone. Tra poco arriverà il freddo e questo consiglio vi permetterà di creare qualcosa di davvero originale che scalda cuori e morale.

Bisogna ovviamente procurarsi la cosa fondamentale: il contenitore. Fate un saltino in Valle d’Aosta e acquistate questa spettacolare specie di tazzona di legno lavorata a mano. Potete anche trovarla nei mercatini dell’usato, ma sono quelle cose ch’io preferisco acquistare nuove. Quella che abbiamo noi risale a tanti anni fa, quando mia madre aveva fatto una vacanza proprio vicino ad Aosta. Questa tazza può avere 4 o 6 o più beccucci, dai quali, seduti in cerchio, ci si dà una sorsata ognuno e si passa all’amico di fianco.

Pian piano, i più astemi, si auto-elimineranno e dovranno via via, fare una penitenza. Nel mentre, il giro continua, e vince chi rimane da solo a scolarsi ciò che rimane.

La ricetta che sto per scrivervi è adatta a sei persone.

Allora, dovete mettere dentro alla Grolla, un pò di buccia di limone tagliata fine, cercando di evitare la parte bianca sottostante perchè è molto amara, la buccia di arancia, tagliata allo stesso modo, 6 chodi di garofano (meglio se legati con un filo), un pezzetto di cannella (se vi piace), una noce di burro, 12 cucchiaini di zucchero e 6 bicchierini di grappa fatta in casa, in quanto deve (dovrebbe), raggiungere i 90 gradi (praticamente, non solo vi fa guarire le carie, vi fa proprio cadere i denti… stò scherzando!). Deve essere di alta gradazione alcolica perchè deve prendere fuoco, non preoccupatevi, tra poco vi spiego.

Versate ora, dentro alla Grolla, il caffè bollente, appena salito da una caffettiera per sei persone, mi raccomando che sia bello caldo. Ora sporcate di zucchero il bordo della Grolla e bagnatelo con la grappa. Mettete ancora un cucchiaio pieno di questa grappa appoggiato sull’apertura della Grolla e con un accendino date fuoco alla grappa.

Delicatamente, senza far spegnere il fuoco azzurro, immergete il cucchiaio nell’intruglio e mescolte, mescolate e rimescolate piano piano fino a che, il fuoco, non si spegnerà da solo e tutto l’alcool sarà evaporato (ci vuole qualche minuto).

Infine, chiudete con il coperchio di legno che s’incollerà vista la presenza dello zucchero e vi permetterà di bere senza fare danni. Noi, nel mulino, ne andiamo matti! Non mi rimane altro che augurarvi buona bevuta. Pigmy.

M.

Da Triora a Sansone

Oggi vi farò fare un bel viaggetto tra i miei monti. È giusto ch’io vi faccia conoscere i miei luoghi perché sono posti stupendi e meritano di essere messi in mostra.

Questa volta – ma preparatevi perchè non sarà l’unica – andiamo nel bel mezzo della valle Argentina e percorriamo il tour del Passo della Guardia. Purtroppo le foto sono state scattate in una giornata un po’ nuvolosa, quindi vi prego di immaginare gli stessi ambienti incorniciati da un azzurro che toglie il fiato quando il cielo è sereno.

Partiremo da Triora, il paese delle streghe e,  facendo un giro a forma di ferro di cavallo, arriveremo fino a Sansone, dove potremo godere di tutta la pace che desideriamo. Incontreremo tantissimi e diversi tipi di territorio: dai boschi più verdi e fitti di conifere e noccioli a quelli più aspri, dove regnano rocce taglienti e la vegetazione scarseggia. Si possono trovare solo fili d’erba e qualche piccolo e selvatico garofano tra le pietre grigie. L’ardesia è la pietra più comune, con le sue sfumature più chiare o più scure, se ne trova ovunque.

Iniziamo allora. Come vi dicevo, partiamo da Triora che vi mostro qui sotto, ripresa dall’alto. Potete notare anche il suo cimitero arroccato nel punto più elevato. Quanta strada bisogna fare a piedi per raggiungerlo!

Qui è ancora tutto come un tempo e ogni cosa è ricca di fascino. Appena passato questo paese che, come ho detto prima, la storia vuole sia stato abitato dalle streghe tantissimi anni fa (ma dedicherò più avanti un post solo a questo argomento, perché ne vale la pena), ci troviamo davanti a una grande ex caserma abbandonata, al campo sportivo del paese e a dei recinti con bellissimi cavalli.

Il sentiero è ancora asfaltato, per il momento, e davanti a noi inizia ad aprirsi un mondo fantastico.

Guardando la strada che abbiamo innanzi, desideriamo continuare e vedere dove ci porta.

Allora ci giriamo per vedere cos’abbiamo dietro e rimaniamo estasiati dalla vallata che rimane sotto di noi.

Più su avremo panorami ancora più belli, quindi via: si parte!

Ecco la strada. Bella vero? La flora è già imponente e di un verde vivo. Notiamo che la natura ci offre subito alcuni dei suoi frutti selvatici, dolcissimi quelli da mangiare, mentre altri, non commestibili, sono belli ugualmente da fotografare. Ci sono anche le bacche e le more, che qui maturano a settembre a causa del clima. Ovviamente ce ne facciamo una scorpacciata mentre, estasiati, ammiriamo le valli che ci circondano.

Mentre l’aria si è già fatta più fresca e una poiana svolazza sulle nostre teste per poi sparire all’improvviso, osserviamo dall’alto i paesini appoggiati sui monti: Andagna, Glori, Corte.

Da qui possiamo vedere anche la strada che abbiamo percorso, che per ora è ancora poca. Quello che faremo è un tour di circa 2-3 ore, ovviamente soffermandoci ogni tanto, e di quasi 100km. Se preferite partire al mattino e tornare alla sera, fatelo tranquillamente: troverete ovunque posti per fermarsi a mangiare, con panchine e tavoli di pietra, prati dove stendere coperte o casette diroccate dove riposare.

Finito di arricchire i nostri occhi, ci inoltriamo piano piano nel bosco. Qui inizia lo sterrato e la montagna comincia a offrire il meglio di sè. Nei boschi che stiamo per percorrere troveremo Pino nero, Pino silvestre e Larici,  alti, altissimi e tutti attaccati uno all’altro.

Il sentiero è stato creato dall’uomo per la sua sopravvivenza, penso in tempo di guerra. Più su troveremo bunker e ripari, la cosiddetta Via degli Alpini.

Ecco l’inizio del bosco, mancano solo fate e qualche folletti, per il resto c’è tutto, soprattutto una pace incredibile. L’aria è più umida e si sente odore di funghi. Al posto delle magiche creature incontriamo invece parecchi motociclisti, con il quad o con la moto, e ognuno di loro ci saluta come vige la legge della montagna: si saluta sempre chi si incontra. È un pò come dire: «Se siamo qui, è perchè la stessa passione per i medesimi luoghi ci accomuna, quindi siamo amici!». È bellissimo: chi alza la mano, chi mostra solo le due dita in segno di vittoria, chi solleva il mento sorridendo. Ognuno a suo modo, ma nessuno passa indifferente.

Gli alberi sono così tanti da creare una penombra scura e, intorno a loro, una foschia biancastra li rende la scenografia ideale per qualche film fantastico. Interi boschi ricoprono i monti circostanti e il sole fatica a penetrare e scaldare il terreno.

Siamo nel bel mezzo del Passo della Guardia, tra poco si staglieranno davanti a noi altissime montagne e i boschi spariranno per lasciare spazio ai prati, luogo ideale per le marmotte. Oggi non abbiamo avuto molta fortuna con gli animali, non abbiamo visto granchè, ma questi luoghi sono popolati da rapaci, come aquile e gufi, da camosci dorati, senza considerare le capre e le pecore che pascolano su questi monti ogni giorno e offrono il latte e i formaggi che si possono acquistare nelle botteghe dei paesi della valle.

Il territorio cambia all’improvviso e anche il clima. Fa ancora più freddo, bisogna mettersi una maglia più pesante. Il naso inizia a essere freddo e umido come quello dei gatti.

Saliamo ancora lungo le strade militari. Vogliamo raggiungere Collardente per poi ridiscendere, volendo, a Colle Melosa, ma questa volta ci fermeremo prima. Delle montagne, guardandole dal basso, non se ne vede la cima. Sono altissime e sembra che le nuvole le stringano in un abbraccio. Ormai, la roccia è la padrona incontrastata e offre anche lei una bellezza particolare. Ricordatevi di sgonfiare leggermente le gomme dell’auto prima di buttarvi in questa avventura: ci sono tratti in cui le pietre sono davvero taglienti. Veri e propri spunzoni di roccia potrebbero rovinarvi la passeggiata montana forando una ruota troppo gonfia.

Saliamo ancora più su, raggiungeremo Sansone che sfiora i 1700 metri, quindi non stiamo fermia poltrire.

Rimettiamo in moto i nostri veicoli. Ormai il verde di prima è sparito, il colore che dipinge gli arbusti è un pallido giallo paglierino e anche l’erba è molto più chiara delle foglie incontrate poco prima. Sono così leggeri e sottili, che basta un lieve venticello per farli ondeggiare. I loro ciuffi si muovono tutti nella stessa direzione. Le rupi che ci circondano ci regalano l’eco ed è inutile dire che è quasi obbligatorio scendere ancora una volta dalla macchina e farsi due risate nell’udire la nostra stessa voce, più volte, rimbombare tra i monti.

Qualche ciclista estremo passa affaticato vicino a noi, sicuramente ci ha sentito, quindi, pieni di vergogna, ci nascondiamo in auto e ripartiamo.

Il rumore inconfondibile di un ruscello ci fa alzare gli occhi e con vediamo scendere l’acqua dalla montagna, si fa strada tra i ciuffi d’erba. È cristallina e freddissima. Scende da lassù, non vediamo nemmeno da dove, fino ad arrivare ai nostri piedi. Ha lo stesso odore della neve.

Dopo qualche curva, ecco davanti a noi il tunnel di Collardente, una galleria lunga 450 metri. La cosa buffa è che non è illuminata per niente. Quando si è dentro di essa, spegnendo i fanali, ci si ritrova nel buio più pesto e, credetemi, mette i brividi.

L’unico rumore è quello di alcune gocce d’acqua che cadono sul pavimento, infatti la galleria è molto umida. Una volta usciti, sembra di tornare a respirare e, davanti a noi, si affaccia nuovamente la vallata. Ancora una volta possiamo, girandoci indietro a guardare quanta strada abbiamo percorso e cosa c’era al di fuori del tunnel, com’era la montagna sopra le nostre teste.

Siamo quasi arrivati a destinazione. Continuando per questa via, potremmo anche andare a Cima Marta o a Col Bertrand ma la nostra meta è Sansone, un luogo ricco di prati e dove il verde torna a fiorire. E’ qui, infatti, che incontriamo un rifugio che produce formaggi ricavati dal latte delle sue pecore. È qui che possiamo raccogliere qualche fiore.

Ora non ci resta che decidere: andando dritti scenderemo poi da Colle Melosa e arriveremo a Molini, se giriamo a destra, alla prima, andremo a La Brigue, mentre proseguendoo e girando poco dopo l’incrocio che porta in Francia, andremo dove ho detto prima, e cioè ai Balconi di Marta e alla sua Cima, dove ancora oggi esistono postazioni della vecchia guerra.

Ma questi sono altri tour. Per ora ci fermiamo qua, a 1694 metri, nella tranquillità più assoluta.

Spero che questo viaggio vi sia piaciuto e mi seguirete anche negli altri.

Un bacio a tutti,

Pigmy.

M.

C’era una volta

Piccun, dagghe cianin… sun tuti coerpi deiti in sciù u me coe….” (Piccone, fai piano… son tutti colpi dati sul mio cuore).

Così recitava una vecchia canzone genovese. Vi è mai capitato di assistere all’abbattimento di una casa o di un edificio significativo del vostro paese? Oppure di svegliarvi un mattino, passare da una strada che da parecchio non percorrete e accorgervi che non c’è più quella struttura che regnava sovrana da che eravate bambini?

A me è successo. Ho assistito all’eliminazione del Cinema del mio paese. Una piccola palazzina come se fosse di tre piani. Era il Cinema in cui mio padre, quando ero piccola, mi portava a vedere le favole di Walt Disney: “Red e Toby”, “Cenerentola”, “Il Libro della Giungla”…

Era come un monumento, era un punto di riferimento.

– Ok, dal cinema alle quattro! -, dicevamo da ragazzini nei pomeriggi caldi in cui incontravamo gli amici.

Quando lo hanno abbattuto, ho assistito pensando che quel luogo non l’avrei mai più rivisto. Ho osservato commossa. Vederlo sventrato mi ha colpita. “Ecco cosa c’era sotto di me quando mi sedevo su quelle poltrone di velluto rosso”, “Ah pensa, di bagni ce n’erano tre, io ne avevo sempre visto uno solo!”, “Il gabbiotto del bigliettaio…”, ecco iniziare a sentire il cuore in gola.

Era proprio lì che mio papà, oltre al biglietto, mi acquistava anche, immancabilmente, il sacchettino di pesciolini di liquirizia per 100 lire. Era lì che non arrivavo nemmeno al bancone e, il bigliettaio, si sporgeva per guardare se potevo entrare con il ridotto o no. Era lì che, issandomi con le braccia e in punta di zampe, scrutavo quell’uomo con pochi capelli, controllavo che i biglietti ce li desse veramente, poi mi giravo e dovevo subito consegnarli all’uomo vecchio vecchio, che stava davanti ai tendoni più pesanti di me e dicevo nella mia testa “Ma come? Lo ha visto che li abbiamo pagati, perchè deve controllare?” ma era il suo lavoro, l’unico che gli rimaneva, e lo faceva con una disciplina incredibile.

Ecco cosa c’era dietro a quel gigantesco schermo bianco e sotto a quel palco, ma sinceramente, avrei preferito non vederlo. Io e la mia amica, ormai donne, stavamo lì come inebetite a guardare senza poter far nulla. Così avevano deciso e, nessuno, probabilmente se ne è lamentato.

Ora, al suo posto, sorgono due palazzine rosa di tre piani dove regnano sovrani studi di avvocati, commercialisti, medici, notai e, un bellissimo e curato giardino, fa da contorno a quelli che sono tra gli edifici più belli del mio paese, con le colonnine bianche, con il nome scolpito su una targa dorata, con il videocitofono… ma quel Cinema, il mio Cinema, che quando è stato abbattuto non era nemmeno un rudere, aveva molto più fascino.

Ogni week-end, da topini, andavamo a vedere attaccato al pioppo dinanzi, quale film proponevano e, solitamente, una favola fantastica, per noi, c’era sempre. Quello era il Cinema dei topini. Un altro, stava più verso il mare e proponeva qualsiasi novità. Parlo al passato perchè ora hanno chiuso anche lui. Forse, oltre alle caramelle, con qualche pop-corn, qualche bibita, qualche gadgets, gli occhiali 3D e un bel rinnovo, avrebbe potuto sopravvivere e invece siamo rimasti senza nemmeno un Cinema nel mio boschetto. Siamo rimasti senza casette, che hanno lasciato il posto ad alti palazzi e, ogni giorno, col passare del tempo ne sparisce una. Siamo rimasti senza la vecchia officina, la vecchia centrale, la vecchia fabbrica dove lavoravano il rame, senza cortili o spiazzi di terriccio, tutti posti in cui si andava a giocare, ci costruivamo le nostre “basi” e quelle dei nemici, si andava ad aiutare, o semplicemente ad ammirare, gli artigiani al lavoro, si andava a correre con il pallone perchè non c’erano auto che potevano impedircelo. Ora ci sono i palazzoni, i grattacieli, quelli con la luce rossa sul tetto per essere notati anche di notte dagli elicotteri. Enormi forme di cemento dalla strana architettura e il bizzarro design.Palazzi completamente vuoti, con il mega cartello “VENDESI” sempre attaccato lì, da anni.

Non un fiore a ravvivare quei balconi, non una tapparella tirata su a mostrar la vita, non un lume acceso attraverso i vetri, ma soltanto loculi su loculi, tutti uguali. Ma così è e nessuno può farci niente.  A noi, non rimane che il dispiacere.

M.

Il mio senso della vita

Dedico questo manoscritto del 1692, trovato a Baltimora, nell’antica chiesa di San Paolo, a tutti quelli che lo leggeranno.

Procedi con calma tra il frastuono e la fretta e ricorda quale pace possa esservi nel silenzio. Per quanto puoi, senza cedimenti, mantieniti in buoni rapporti con tutti. Esponi la tua opinione con tranquilla chiarezza e ascolta gli altri: pur se noiosi e incolti, hanno anch’essi una loro storia. Evita le persone volgari e prepotenti: costituiscono un tormento per lo spirito. Se insisti nel confrontarti con gli altri rischi di diventare borioso e amaro, perchè sempre esisteranno individui migliori e peggiori di te. Godi dei tuoi successi e anche dei tuoi progetti. Mantieni interesse per la tua professione, per quanto umile: essa costituisce un vero patrimonio nella mutevole fortuna del tempo. Usa prudenza nei tuoi affari, perchè il mondo è pieno d’inganno. Ma questo non ti renda cieco a quanto vi è di virtù: molti sono coloro che perseguono alti ideali ed ovunque la vita è colma di eroismo. Sii te stesso. Soprattutto non fingere negli affetti. Non ostentare cinismo verso l’amore, perchè, pur di fronte a qualsiasi delusione, e aridità, esso non resta perenne come il sempreverde. Accetta docile la saggezza dell’età, lasciando con serenità le cose della giovinezza. Coltiva la forza d’animo, per difenderti nelle calamità improvvise. Ma non tormentarti con delle fantasie: molte paure nascono da stanchezza e solitudine. Al di là d’una sana disciplina, sii tollerante con te stesso. Tu sei figlio dell’universo non meno degli alberi e delle stelle, ed hai pieno diritto d’esistere. E, convinto o non convinto che tu ne sia, non v’è dubbio che l’universo si stia evolvendo a dovere. Perciò stai in pace con Dio, qualunque sia il concetto che hai di lui. E quali che siano i tuoi affanni e aspirazioni, nella chiassosa confusione dell’esistenza, mantieniti in pace con il tuo spirito. Nonostante i suoi inganni, travagli e sogni infranti, questo è pur sempre un mondo meraviglioso. Sii prudente. Sforzati dess’essere felice”.

Ecco, questo è per me il senso della vita, qualcuno più bravo di me, con la penna, ha saputo descriverlo.

Un abbraccio a tutti Pigmy.

M.