Bussana e le cialde del gelato

Bene, topi, oggi sono pronta a stupirvi con effetti speciali, per cui mettetevi comodi.

Come se già non bastassero tutti gli innumerevoli vanti della mia zona, ce n’è uno davvero poco conosciuto che so già farà leccare i baffi a molti di voi.

Eccomi dunque a raccontarvi una storia gustosa, una di quelle che vi piacciono tanto.

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Pare che nel 1887, in seguito al terremoto che rase al suolo la cittadina di Bussana, un certo Giovanni Torre, soprannominato Merlo, sia andato a cercare fortuna a Bruxelles. Qui commerciava il gelato, la cui ricetta era stata tramandata alla sua famiglia una decina di anni prima da un cameriere di origine belga che si trovava in quel periodo a Marsiglia. Questo è quanto tramanda lo studioso Nilo Calvini. In seguito, almeno così sembra, commerciò tale squisitezza anche a Genova, seguito a ruota dai due fratelli Pasquale e Santino. A furia di vendere e produrre gelati, a Giovanni venne in mente una ricetta per renderli più densi e cremosi, ma non si limitò a questo: riuscì a sperimentare e a creare il primo cono gelato. La cialda inventata dal Merlo incanta i nostri palati nelle giornate estive permettendoci di concludere con gusto le dolci merende che ci concediamo per rinfrescare il nostro corpo. E quella stessa cialda sembra essere stata inventata e prodotta alle porte della Valle Argentina, topi! Ci pensate?

cono gelato invenzione

Dopo aver attuato questa meravigliosa invenzione, Giovanni Merlo decise di aprire un forno nella sua cittadina di origine in cui produrre cialde e wafers, pare sia stato il primo in tutto il mondo. Roba da non credere, vero? Eh, ma ve lo dico sempre che qui, nella Liguria di Ponente, succedono cose speciali!

Nel 1910 i coni per il gelato raggiunsero una mostra espositiva di Torino, poi ricevettero premi e plausi nelle capitali inglese, francese e italiana, per sbarcare anche nel Nuovo Continente.

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Fino a poco tempo fa, a testimoniare le mie parole c’era un piccolo museo a Bussana, interamente dedicato alla storia del gelato e alla sua produzione. Era uno scrigno di ricordi situato all’interno della gelateria Gildo, ma oggi ha chiuso i battenti. Tutto resta impresso nella memoria e negli occhi degli anziani di Bussana.

Eppure c’è chi sostiene che l’invenzione del cono sia da attribuire in realtà a un certo Italo Marchioni, che lo brevettò nel 1903. Chi sostiene questa versione, attribuisce a Giovanni Merlo l’idea delle ostie di wafer che divennero famose nei caffé di Milano, dove venivano usate per le cosiddette parigine, nelle quali il gelato era racchiuso tra le due cialde ideate dal Merlo.

cono gelato

Insomma, topi, io la verità non la conosco, ma so che, in ogni caso, qualsiasi cosa sia fatta da un ligure… potete esser certi che sia fatta col cuore!

Un topo-saluto croccante a tutti voi.

La lunga storia dell’Oratorio di San Giuseppe di Stornina

L’antico Oratorio di San Giuseppe di Stornina sarebbe la chiesa di Perallo, dedicata alla Madonna di Laghet e venerata anche ad Arzene, altro borgo della mia Valle (frazione di Carpasio) e persino a Nizza la domenica della Santissima Trinità. Si chiama così perché Perallo sorge alle appendici del monte Stornina e San Giuseppe proteggeva tutto il circondario, comprese le frazioni vicine.

Davanti al suo portone si presenta un panorama speciale che mostra i borghi di Andagna, di Molini e soprattutto di Triora, quest’ultimo in alto a sinistra, arroccato sulle rocce.

Un tempo, intorno al 1686, il vero Oratorio di San Giuseppe era un’altra chiesa, più vecchia ancora, poi abbattuta e conosciuta anche come chiesa della Beata Vergine della Misericordia. La dedica nei confronti di San Giuseppe passò poi a questa chiesa, oggi ancora eretta, e il nome Beata Vergine della Misericordia finì in disuso. Vive solo nel ricordo dei pochi abitanti rimasti.

Questo edificio religioso, bellissimo al suo interno, gode di una lunga storia che vede protagonisti Vescovi, Notai, Pittori e Devoti. Ma andiamo con ordine.

L’edificio venne benedetto nel 1762 dal Prevosto di Triora, Giò Francesco Panizzi, per ordine del Vescovo di Albenga Costantino Serra, come si può leggere negli opuscoli di Augusto Mirto scritti grazie alle informazioni fornite da Gianluca Ozenda per non dimenticare la storia che ci ha preceduto.

Alla chiesa vennero donate Lire 500 per diversi restauri e, più avanti, nel 1798 il nuovo Vescovo di Albenga, Paolo Maggiolo, volle la costruzione della predella, la fasciatura alla Pietra Sacra dell’unico altare e vari restauri alla Sacrestia. L’ultimo ampliamento di questo edificio religioso avvenne nel 1901 con tanto di cappelle laterali.

Anche il campanile a base triangolare è stato rifatto; infatti, mentre un tempo terminava a cupola, adesso finisce con un’appuntita piramide contenente due campane della prima metà del ‘900.

È una chiesa molto bella, illuminata e piena di statue e quadri. Naturalmente non mancano la statua di San Giuseppe, acquistata nel 1890, e quella della Madonna di Laghet che tiene in braccio il Bambin Gesù in un gesto particolarmente affettuoso.

Ogni anno, a Perallo, verso fine maggio, la cerimonia per onorare questa Madonna prevede una passeggiata fino al camposanto e il ritorno in chiesa dove la statua viene portata a braccia e venerata con fiori, canti e preghiere.

C’è anche la statua rappresentante la Madonna di Lourdes.

Lo sguardo viene attratto dal soffitto a volte, pitturato in modo meraviglioso e con tinte accese. Degli affreschi lo abbelliscono, uno dei quali rappresenta la Sacra Famiglia ed è stato dipinto da Francesco Maiano nel 1923, mentre gli altri da un noto pittore perallese detto Bernà u Pitù (Bernardo il Pittore).

All’entrata, alla mia destra, una scala troncata oggi dalla parete, portava un tempo al secondo piano, che non esiste più, ed era la postazione dell’organo.

Sotto di essa, c’è una bellissima fonte battesimale protetta e custodita all’interno di una rientranza nel muro. Un muro in pietra, molto spesso. A sinistra, invece, troviamo un antico confessionale piccolo e consunto.

Le panche in legno riempiono la parte principale osservando l’altare ricco e luminoso. A proposito di luci, qualche anno fa vennero trafugati due eleganti lampadari a goccia che illuminavano l’altare e il quadro rappresentante la morte di San Giuseppe appeso dietro l’altare maggiore. La signora Anna, moglie di Augusto, la quale tiene questa chiesa come una bomboniera, ne fece rifare un altro collocandolo nella postazione del Coro, ma il dispiacere fu grande, perché questi oggetti rappresentavano le ricchezze di Perallo e parte del suo passato.

Per i pochi abitanti di Perallo e per gli affezionati di questo borgo, questa chiesa non è solo un punto di ritrovo, ma anche un sentito passatempo da curare con passione. La puliscono, la abbelliscono, la rinnovano… cosicché possa sempre mostrare il suo splendore acceso a qualsiasi viandante voglia lasciare un saluto alla Madonna. Basta chiedere le chiavi al signor Augusto, che sarà lieto di mostrare quello che definisce il suo gioiello.

Mi sono state recitate preghiere inventate appositamente per la Vergine Maria festeggiata in questa cattedrale in miniatura, mi sono state raccontate storie e aneddoti di persone che per lei lasciavano tutto, anche il lavoro nei campi, quando giungeva il momento di renderle grazia. Tutto si svolgeva attorno a lei, l’intera vita di un piccolo villaggio.

E ora, topi, usciamo: ci aspettano altri magnifici luoghi della mia Valle. Lasciamo i fedeli raccolti nel loro silenzio a evocare ciò in cui più credono.

Un caro saluto a tutti.

La Via Lattea nella Valle Argentina

Topi, la mia Valle è sempre bella e regala spettacoli che non lasciano certo indifferenti. Non vi ho mai mostrato la bellezza del suo cielo notturno e credo sia proprio arrivato il tempo di farlo.

La notte, in alcuni angoli della Valle, si tinge di fascino e magia, coi suoi cieli che si accendono di stelle. Sulla costa le luci sono offerte dai lampioni, dai fari delle auto che scorrono veloci sull’asfalto e dalle case. Ma qui, immersi nel silenzio del bosco e della macchia, in cima alle colline e alle vette che inaspriscono il territorio in cui vivo, il firmamento brilla in tutto il suo fulgido splendore.

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Una scia di stelle bianca e nebbiosa attraversa il cielo nelle notti più limpide: la Via Lattea. La si vede ancora, là dove l’inquinamento luminoso non arriva prepotente. Si può scorgere persino da alcuni carruggi dei borghi che costellano la Valle, se si fa un po’ di attenzione. E quando le sere d’estate ci si concede del tempo fuori tana, cercando l’ebbrezza di un’esperienza meno mondana di una sagra, un gelato in riva al mare o una cena in compagnia… si torna a godere di quella bellezza semplice e disarmante che solo Madre Natura sa offrire.

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La Via Lattea è la nostra Casa, topi, la Galassia nella quale si trova il nostro Sistema Solare. Guardandola ci si sente piccolissimi, ma al contempo parte di un qualcosa di infinitamente più grande di noi. Restare col naso all’insù a rimirare il suo candore dipinge un sorriso sui nostri musi e gli occhi si spalancano di meraviglia per riuscire a cogliere tanta magnificenza. In tempi antichi, ovviamente, sono nate le storie più disparate riguardo questo fenomeno celeste. Per i Greci era il latte della dea Era, schizzato dal suo seno mentre il piccolo Ercole tentava di berlo. Gli Egizi la consideravano la copia celeste del loro fiume più sacro, il Nilo. Anche in Cina, Giappone e Corea è stata rassomigliata a un corso d’acqua ed è chiamata Fiume d’Argento. Questo mi fa sorridere, se si pensa che il torrente da cui prende il nome la Valle è l’Argentina e io la sto osservando da qui.

Chissà cosa ispirava nei topi di un tempo, questa scia luminosa notturna!

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Vi sembrerà bella, vista in foto, ma vi assicuro che dal vivo rende molto, molto di più. Le mie immagini, infatti, non possono farvi desiderare un golfino sulle spalle per il freddo notturno che si sente anche nella bella stagione sulle mie montagne. Non potete udire il profumo che sprigionano le piante, tutto intorno a voi, né i versi degli animali che sono molto attivi nelle ore notturne. Si guarda la Via Lattea stando sdraiati sul plaid, attorniati dal cri-cri dei Grilli, mentre un Gufo canta in lontananza. Le Volpi giocano le loro danze d’amore e di caccia, ce ne sono tante e si fanno sentire con le loro urla buffe. E poi ci sono i Caprioli con il loro abbaio roco e i Cinghiali che grufolano nel buio. Anche nelle ore notturne persino i campanacci del bestiame tintinnano ancora.

Non c’è silenzio: intorno è un brulicare costante di vita, di andirivieni, di faccende del bosco… non siamo soli. Riuscite a sentire tutto questo, topi? No?! Bene, allora non vi resta che fare una gita fuori porta in notturna per assaporare quello che il cielo e la Valle, uniti in un abbraccio ammantato di blu e di stelle, potranno offrirvi.

Mentre me ne stavo lì a osservare quell’arazzo mutevole e luminoso, ho udito un tramestio poco distante da me. Incuriosita, ho dato un’occhiata e ho riconosciuto il mio amico rebattabuse (lo Scarabeo Stercorario, noi liguri lo chiamiamo letteralmente… “ribalta cacche”!). Saprete tutti che fa rotolare pallottole di escrementi nelle quali nasconde il cibo e si nutre degli stessi.

«Oh-issa! Oh-issa!… Uff! Pant… pant…»

«Toulì! Buonasera Metuccuecuje!» l’ho salutato. Ehm… il suo nome significa “Mi Tocco le Balle” perché è un po’… come dire… pessimista, ecco! Ma per gli amici si chiama Metuccu.

«Oh! Uff… Speriamo sia buona, topina! Speriamo! Non si sa mai! Me nona a me dixeva sempre… (mia nonna mi diceva sempre…)»

«Sì, ehm… Metuccu, lo so, lo so cosa ti diceva, tua nonna: se nu ti stai mà o ti sei mortu o ti sei in tu l’al di là! (se non stai male o sei morto o sei nell’aldilà)». Nel bosco, l'”ottimismo” di Nonna Disdetta Stercoiella era famoso.

«Cosa ci fai fuori dalla tana in una notte buia come questa? Lo sai che è pericolosissimo?»

«Mi godo la vista!» gli ho risposto, come fosse la cosa più evidente del mondo, soprattutto per me che non ho certo paura della natura che mi circonda!

«Quale vista? U l’è tütu negru! (E’ tutto nero!)».

Ecco appunto… ve l’ho detto io!

«Proprio tu che ti orienti con le stelle non vedi che su quel nero c’è la Via Lattea?  Guarda! Stasera, poi, si vede benissimo!»

«Ah, scì… a Via Lattea… Sì, be’… ghe credu ca’a veggu, a nu sun orbu… a gh’è sempre… stà lì… a nu veggu cose ghe secce de stranu… U l’è cuscì, u sè, de nœtte. Negru! Uff… (Ah, sì… la Via Lattea… certo che la vedo, non sono cieco. Non capisco cosa ci sia di strano, ma c’è sempre, è lì, è così il cielo di notte. Scuro!).» Sospira.

Sospira sempre, in continuazione. Sembra una fatica per lui parlare. Sembra una fatica per lui vivere! Ha una tristezza tangibile che mi fa venire l’ansia… Provo a farlo sentire importante. Santa Topa! Mi sta già opprimendo!

«Metuccu… tu che sai molte cose sulle stelle, che mi dici a proposito di questa scia luminosa?» gli ho domandato per distrarlo dai suoi cupi pensieri.

«Be’, io la uso per orientarmi. Almeno so dove andare, con il mio balun de busa (la mia palla di sterco).»

“Balun”, pensai… al massimo “baletta”… chissà cosa si credeva. Sì che era più grossa di lui, però… mi svegliò dalle mie valutazioni continuando il discorso: «Sai… Uff… in Spagna la chiamano Camino de Santiago

«Ah, sì? E ha a che vedere con il famoso pellegrinaggio?»

«Me pà œvviu (Mi sembra ovvio). Infatti nei Secoli Bui, nome azzeccatissimo, si diceva che fossero proprio i pellegrini a creare la Via Lattea, con la polvere sollevata dai loro piedi. E poi Compostela si dice derivi dal latino campus stellae

«Sai sempre tante cose interessanti, Metuccu. Questa non la sapevo neanche io!»

«Bah… sono cose così… di poco conto. In fondo che importa? Io sono solo un rebattabuse e queste cose non interessano a nessuno.»

«Ehm… senti un po’… stavo cercando di contare tutte le stelle della Via Lattea. Secondo te ce la faccio?»

«Risparmiati la fatica, topina. Ne conta duecento miliardi. Comunque non potresti mai vederle e contarle tutte insieme. Con ogni probabilità, arriveresti solo a duemilacinquecento.» Sospira e conclude: «Uff… Moriresti prima.»

Ehm… me tuccu infatti… Sospiro anch’io. Lui respira così pesantemente che emette un sibilo, come se quel numero stellare fosse il numero di pietre sul petto. Per tutte le code di topo! Ogni tanto mi fa davvero venire i baffi dritti dal nervoso anche se racconta cose molto curiose. Soprassiedo: «Belin! Così tante? Notevole, davvero.»

«Se lo dici tu… Capirai che interesse… son cose ovvie, banali, insignificanti… Ora, però, devo salutarti, ho la tana da riempire di busa, prima che sorga il sole. Potrebbe piovere, sai…»

«Ma non c’è una nuvola!»

«Eeeh… non si può mai sapere! Bastano poche gocce e mi si allaga la tana!»

«Ma l’hai costruita in discesa!»

«Ma metti che crollano i sassi da sopra?»

«Ratta Santissima! Ma hai solo radici come tetto!»

«Potrebbero staccarsi. Non ci sono più le piante di una volta… Me nona a me dixeva sempre…»

E’ davvero impossibile!

«Va bene, va bene, Metuccu! Corri, corri! Non si sa mai. Grazie di tutto, allora! E buon lavoro.»

«Eh! A sun sempre ca travaju ti nu-u vei? Uff… (Eh! Sono sempre che lavoro non lo vedi?)»

Già… una povera e meschina vita, secondo lui. Però è tanto buono, bisogna solo saperlo prendere.

E con questo, topi, vi saluto anche io, ma rimango a rimirare codesta bellezza, alla faccia di quel disfattista del mio amico Metuccu!

Un bacio galattico a tutti!

Trombette, zucche e polpettoni

Topi, quello di oggi è un post da leccarsi i baffi. La sentite l’acquolina che già vi riempie la bocca?

Nella mia Valle, ma anche in altre della Liguria, cresce una zucchina speciale, alla quale tutti noi liguri siamo affezionati e che coltiviamo con un certo orgoglio. Ve l’ho già presentata altre volte, è la zucchina trombetta! La sua forma particolare la rende davvero artistica e noi la usiamo in mille modi, perché è un alimento versatile e buonissimo. La preferiamo alle zucchine scure che vendono nei supermercati, anche perché ha un sapore che non è paragonabile con altre specie di cucurbitacee.

Comunque, fatto sta che nel mio orticello le trombette vengono su che è una meraviglia. Si attorcigliano su se stesse, alle canne di bamboo che fanno loro da sostegno e alle staccionate, ecco perché ho deciso di creare con questo ingrediente protagonista una ricetta un po’ diversa dal solito. Topini e topi anziani si son leccati tutti i baffi, per cui ve la propongo. Badate: è una di quelle ricette da realizzare in grandi quantità per fare scorta durante i mesi invernali, si presta proprio bene a essere congelata. Tra l’altro è anche semplice e veloce! Bene, cominciamo.

Raccogliete o procuratevi circa 600 grammi di zucchine trombette e mezza cipolla e tritatele finemente in un mixer. Devono essere quasi una purea. Se volete, potete ripassare poi questo composto verdino in una casseruola con un filo d’olio per cinque minuti, facendolo appassire, ma non è obbligatorio, solitamente salto questo passaggio. Aggiungete alla purea di zucchine le spezie che preferite, io uso il pepe, l’aglio in polvere e la noce moscata, ma potete mettere anche del timo o della maggiorana, se li gradite. A questo punto mettete tutto in una ciotola ampia insieme a 250 grammi della ricotta che preferite e 200 grammi di pan grattato, aggiustate bene di sale e mescolate il tutto.

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Il composto rimane compatto, quasi difficile da impastare col cucchiaio. Aggiungete un cucchiaio circa di olio extravergine di oliva e date un’ultima rimestata. Ecco, ora l’impasto del nostro polpettone è pronto.

“Ma come, topina? Niente uova?” starete già dicendo. Vi sento! No, per questa ricetta non sono previste né uova né carne, il polpettone si tiene insieme da sé, provare per credere.

Sapete, ero un po’ scettica anche io la prima volta, ma il risultato ha sorpreso me e tutti i miei commensali. Credetemi se vi dico che è diventato il piatto forte di molte feste e ricorrenze!

Torniamo a noi, quindi. Prendete uno stampo per plum-cake e cospargetelo di olio, poi versatevi dentro il composto e livellatelo bene. Non vi resta che infornarlo a 200°C, lo cuocerete per una mezz’oretta.

Mentre il polpettone se ne sta tranquillo nel forno, voi non statevene con le mani in mano, mi raccomando! Preparate un buon sugo di pomodoro, perché servirà ad arricchire questo piatto già squisito di per sé. Qualche volta, anziché fare un sugo semplice, aggiungo dei funghi e vi assicuro che ci stanno proprio benissimo.

Una volta pronto, fatelo raffreddare un po’ prima di girarlo su un piatto da portata. Guardate che figurone che fa!

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Tagliatelo a fette larghe e servitelo su un letto di salsa di pomodoro, oppure lasciate che siano i vostri ospiti ad attingere al sugo a proprio piacimento. Si sposano proprio bene insieme! L’ho provato anche con un sugo ai funghi ed era molto buono anche così. Con questa ricetta potete davvero sbizzarrirvi e dare spazio alla fantasia. Abbinatelo con i gusti che più vi piacciono, credo possiate addirittura utilizzare la ricotta di pecora, anziché quella di mucca, darebbe a questo piatto un sapore più deciso.

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Prima di concludere, voglio regalarvi un’ultima chicca. Se lascerete maturare le trombette nell’orto fino all’autunno, quando diventeranno panciute e di un giallo-arancio bellissimo, potrete usare quelle zucche per sfornare decine di polpettoni come quello che vi ho insegnato a fare. E con le zucche gialle della mia Liguria vengono davvero squisiti!

In questo caso, ricordatevi di aggiungere qualche spezia in più per contrastare il gusto dolce della zucca. A me piace usare l’erba cipollina insieme al pepe e all’aglio e, qualche volta, aggiungo un po’ di parmigiano e sostituisco la cipolla con il porro.

Buon divertimento, topi! Che bontà!

 

La forza dell’acqua

Un giorno di questi, me ne stavo tranquillamente con le zampe a mollo sulle rive del torrente. Mi succede spesso nella stagione estiva, perché mi piace vedere l’acqua che scorre e fa scivolare via con sé tutti i pensieri.

bosco torrente Molini di Triora

Anche se sono una bestiolina, qualche volta capita anche a me di intristirmi un po’ o di avere qualche preoccupazione per la testa e quel giorno il mio stato d’animo non mi faceva sorridere con la stessa enfasi di sempre. Allora sono andata lì, sull’Argentina, che sempre mi accoglie con il suo fresco e sinuoso abbraccio.

Mi sono seduta su un masso e ho lasciato le zampe a penzolare giù, nell’acqua.

torrente Argentina Badalucco1

In quel momento mi è venuto da pensare che niente aveva più importanza davanti alla bellezza della Natura che mi circondava. Tutto era perfetto intorno a me, non poteva essere altrimenti.

Il vento tra le foglie degli ontani, le fronde dei noci, le tenere nocciole non ancora mature sugli alberi, una timida rana nascosta nell’ombra… tutto parlava, tutto aveva una voce…

«La Vita scorre in ogni cosa, topina.» ha detto una voce che si trovava al contempo dentro e fuori di me. La riconoscerei tra mille.

«Spirito della Valle, sono contenta di averti qui con me, oggi.»

«Io sono sempre con te, dovresti saperlo, ormai. Come mai non percepisco i tuoi occhi brillare? Cos’hai, piccola creatura?»

«Non ti sfugge niente, eh? Nulla, a dire il vero. Solo qualche pensiero.»

«Lascialo andare, allora. Non trattenerlo. E ascolta il battito che ti circonda, sentilo dentro di te e intorno al tuo corpicino. Pervade tutto: puoi percepirlo?»

torrente acqua

Non ho risposto subito alla sua domanda. Seduta lì, sulle rive del torrente freddo come il ghiaccio, mi sono messa in ascolto. Lo scroscio dell’acqua era un balsamo per l’anima, e il verde… oh, già solo quello bastava a ritrovare la serenità che si era incrinata in me. Non c’erano più le preoccupazioni, il muso mi si è disteso in un sorriso autentico, vero. Respiravo a pieni polmoni e riuscivo a sentire scorrere intorno a me la Vita, come già mi era successo altre volte. Gli occhi e il cuore si sono riempiti di tanta bellezza, avrei voluto affogarvi.

«Sì, Spirito della Valle. Lo percepisco!» e, detto questo, mi sono bagnata anche le zampe anteriori, rinfrescandole con l’acqua limpida e cristallina del fiume. Si sono intorpidite all’istante, come quando si tocca la neve in inverno.

«Ah, l’acqua! Che elemento potente e meraviglioso… Racconta storie interessanti, sai?»

acqua torrente

In quello stesso istante, è accaduto qualcosa di incredibile. Vedevo scorrere immagini in trasparenza sul pelo dell’acqua, veloci e sfuggenti. Potevo vedere l’intero ciclo di quelle gocce, finite in mare, poi evaporate nel cielo e infine precipitate sulla terra sottoforma di pioggia. Scorgevo anche i luoghi che quell’acqua aveva attraversato, traendone in sé le caratteristiche fisiche, chimiche ed energetiche. Ma c’era di più. Vedevo riflesse nel torrente immagini dei topi di un tempo che amavano recarsi alle sorgenti, considerate luoghi sacri poiché in essi sgorgava acqua limpida e pura, fonte primaria di vita. Sono rimasta sbalordita da ciò che stavo osservando.

«Spirito della Valle… le cose che vedo sono accadute davvero?»

«Sì, molto tempo fa. Lascia scorrere insieme all’acqua tutto quello che non ti appartiene: lei sa sempre guarire le ferite dell’anima. Dona forza, vigore…»

«E’ potente, sì, lo sento! Porta con sé gioia di vivere. Per questo vengo spesso qui.»

«E fai bene, topina. Fai bene. Non ti serve nient’altro: qui hai tutto quello di cui hai bisogno. Chiedi agli alberi, ai fili d’erba, all’acqua e alle montagne ciò che vuoi, loro ti ascolteranno e ti guideranno.»

torrente nel bosco

Detto questo, una folata di vento si è portata via la voce dello Spirito della Valle, lasciandomi sola.

Le foglie sui rami degli alberi che avevo intorno cadevano al suolo a formare un manto morbido e fertile. Alcune precipitavano in acqua, trasportate dalla corrente. Il terreno era nero, succulento, preparato da quelle stesse foglie che fino a poco tempo prima erano sui rami più alti e che ora erano mangiate da insetti, trasformate da microrganismi e avrebbero portato nuova vita. Su quegli stessi alberi, che affondavano le radici non nella terra, ma nell’acqua, esistevano città brulicanti di insetti operosi. E poi, più su, il cielo sfiorato da dita nodose colore del legno che sembravano voler afferrare scampoli di azzurro e fiocchi di nuvole per portarli un po’ qui, sulla Terra.

Ancora una volta lo Spirito della Valle si dimostrava essere in ogni cosa. Potevo sentirlo nei cicli dell’acqua e della vita degli alberi intorno a me. Non ne udivo la voce, ma lo percepivo nel profondo, permeava ogni mia cellula. E averlo in me, in nessun luogo, eppure dappertutto, mi rendeva gioiosa e profondamente grata.

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Topi, la gioia, quando la trovate, indossatela come un vestito sempre nuovo. Tiratela fuori dal cassetto nella quale l’avete relegata, riempitevi gli occhi dei suoi colori e mettetevela addosso, ricordandovela, cucendovela sulla pelle per non toglierla mai più. Credetemi, ne vale la pena!

Squit!

U Boscu Negru

Topi, oggi vi porto in un luogo segreto, uno di quelli che solo i topi esperti conoscono.

Imboccando la strada che da Badalucco conduce a Vignai, esiste un posto noto a pochi definito come Boscu Negru. Ecco, vedete… la Germania vanta la Foresta Nera, e noi, qui, in Valle Argentina, abbiamo il Bosco Nero, per l’appunto. Non cercatelo sulle mappe, sui cartelli della sentieristica o altrove: non è segnato. Io, però, so dove si trova e oggi ve lo voglio mostrare in tutta la sua cupa particolarità.

Boscu Negru 1

Consiste di pochi metri di bosco, eppure in quel punto la vegetazione si fa più fitta, scura, diviene quasi impenetrabile. Non è uno di quei luoghi che invita a farvi una passeggiata nel mezzo, insomma, tant’è che somiglia quasi più a una giungla che non a un bosco. Gli alberi sembrano soffocare nell’abbraccio dei rampicanti infestanti e il sottobosco è un groviglio di felci e rovi dalle spine particolarmente acuminate. La luce del sole penetra fino in basso, ma arriva più debole che nel resto del bosco attraversato dalla strada.

BOscu Negru 4

Il silenzio è surreale, appare come una nota stonata. Non un uccello si ode cantare in quel tratto, salvo i rapaci in lontananza, che talvolta con il loro volo disegnano cerchi sulle chiome degli alberi. Il loro grido spezza l’assenza di suoni. Sarà un caso (o forse no?), ma nel momento in cui ho iniziato a scattare le foto che vedete ha cominciato quasi subito a tuonare. In brevissimo tempo, topi, si è scatenato un bel temporale con tanto di fulmini e grandine e mi sono vista costretta a tornare alla tana, anche se ormai ero bella infradiciata. Forse il Boscu Negru non ama essere fotografato, o forse è solo suggestione, la mia… ma si raccontano storie molto particolari su di esso.

Boscu Negru 3

Innanzi tutto dovete sapere che qui molto tempo fa venne combattuta una cruenta battaglia. Non chiedetemi tra chi, questo devo ancora scoprirlo, ma si dice che il bosco si tinse di rosso, come a voler sottolineare attraverso un’altra tinta l’oscurità che esso mostra.

Boscu Negru 9

Questa sua oscurità, però, devo dire che risulta molto utile ai miei amici gnomi. Be’… insomma, conoscerete tutti gli gnomi di Monte Ceppo! Ebbene, è vero che in cima al Monte fanno festa e vanno a zonzo, ma non ci sono luoghi abbastanza riparati per loro per poterci vivere. Le loro dimore, infatti, sono state costruite proprio all’interno du Boscu Negru, al riparo da chiunque. Penso sia per questo motivo che quando si arriva qui si percepisce un’atmosfera che definirei irlandese o celtica proprio per via delle tante leggende che riguardano questa terra del Nord. Sembra di vedere fate spuntare da un momento all’altro o druidi o ancora folletti. Tutto è nella penombra e nella quiete e molto spesso una leggera foschia ovatta la strada di mezzo.

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U Boscu Negru si sviluppa in discesa e quando si guarda all’insù, scrutando i suoi alti meandri, mette quasi timore. C’è persino chi dice di aver visto dei Lupi in questa zona, ma non si sa se sia realtà o suggestione. Vero è che qui vivono tantissime volpi. Oh! Le ho proprio viste con le mie pupille! E Quanto sono belle! Astute e veloci, subito pronte a scappare e a nascondersi. Spesso hanno il pelo tutto bagnato a causa dell’umidità che persiste in questa zona. Anche l’ombra la fa da padrona. Siamo intorno agli 800 mt s.l.m. e qui fa sempre abbastanza freschetto.

Boscu Negru 5

Gli alberi, per lo più Betulle, sono retti e tutti vicini tra loro come schiere di soldatini pronti a difendere quel meraviglioso ambiente dal nemico. Nessuno può passare, a meno che il Bosco non decida di dare il suo permesso. E’ proprio il tronco di questi alberi altissimi e stupendi a donare l’unico chiarore che si percepisce in tutto quel verde cupo. Quel legno quasi bianco che abbraccia l’emblema della rinascita e dell’elevazione. E le chiome là in alto, ad ombreggiare.

Boscu Negru 8A proposito di nemici e gente che passa, vi prometto che mi informerò sul famoso scontro. Interessa anche me!

Per ora vi saluto, restate boscosintonizzati, mi raccomando!

Un Santuario, una Pastorella e le Uova

Tempo fa vi ho portato a visitare il Santuario di Corte, meglio conosciuto come  Madonna del Ciastreo, una Chiesa molto conosciuta nella mia Valle eretta in seguito a un miracolo. Cliccando qui potrete leggere la storia della pastorella che riacquistò l’uso della parola, ma non vi ho mai raccontato con precisione come andarono le cose quel giorno.

La bimbetta aveva portato al pascolo le sue mucche e, alla sera, tornando a casa, era stata colta da un violento e improvviso temporale. Certe tempeste, si sa, in montagna possono essere spaventose.

Dove oggi sorge il Santuario, un tempo c’era un passaggio attraversato da un piccolo rio che, quel giorno, a causa della pioggia incessante, si era trasformato in un torrente impetuoso che impediva alla pastorella e alla sua mandria di attraversare il canale e far ritorno a casa.

La pastorella, sorda e muta dalla nascita, non poteva nemmeno gridare per chiamare aiuto ed era rimasta ferma davanti a quell’acqua che scendeva a valle. Non riusciva neanche a muoversi, completamente frenata dallo spavento. Anche le mucche iniziavano ad agitarsi e lei piangeva.

In quel momento che la Madonna le è apparsa davanti e con voce dolce le ha detto: Passa pure, non ti accadrà nulla, le acque non ti faranno niente. La giovane, assai stupita e in preda al terrore, ha obbedito ed è riuscita a passare dall’altra parte senza complicazioni: non appena ha messo un piede nell’acqua, il torrente è ritornato a essere il piccolo rigagnolo di sempre. La pastorella si è voltata per ringraziare la Vergine Maria, la quale le ha detto ancora: Ora torna al paese e racconta a tutti quello che è successo, affinché qui possa essere eretto un Santuario in mio onore e che tutti possano venire a pregare per ricevere delle grazie da me.

La pastorella, emozionata, è corsa a casa e proprio mentre si chiedeva come fare a raccontare quello che era le successo, si è resa conto di poter parlare. La sua voce era uscita limpida e chiara, proprio come l’acqua che poco prima le era stata amica.

Il Santuario è stato costruito in onore della Madonna e, ancora oggi, è visitato e frequentato da molta gente. Alcuni sono pronti ad affermare che la storia della pastorella non sia una fiaba inventata, ma pura realtà. Che fascino la mia Valle!

Sono diverse le cerimonie e le feste che vedono questa costruzione religiosa protagonista, ma ce n’è una davvero curiosa e inusuale. Si tratta del giorno in cui si celebra: la benedizione delle uova.

Tra la seconda e la terza domenica seguente alla Pasqua, i molinesi si recano al Santuario per la celebrazione religiosa e, al termine della funzione, vengono offerte a tutti i presenti uova sode da mangiare in compagnia nel cortile adiacente alla Chiesa. Queste uova, prima di essere spartite e divorate allegramente in compagnia accompagnandole con del buon vino, vengono benedette dal Parroco. Non si conosce l’origine di questa tradizione, poiché i documenti che potrebbero svelarla sono andati persi con i bombardamenti del secondo conflitto mondiale, ma è risaputa la simbologia di rinascita legata alle uova e, con esse, al periodo primaverile.

E’ una circostanza davvero simpatica per vivere tutti assieme e felici la Pasqua e l’amicizia, noi della Valle siamo sempre molto cordiali e amiamo vivere eventi significativi tutti insieme condividendo emozioni.

Se dovesse capitare anche a voi di passare da quelle parti in quei santi giorni, preparatevi e state pur certi che non mangerete in solitudine!

Pancia mia fatti capanna!

Squit!

Originali e profumate foglie di Salvia fritta

Le avete mai mangiate, le profumatissime foglie di Salvia fritte in pastella, topi?

Oh! Vi assicuro che sono una vera delizia e semplicissime da preparare. Inoltre, anche se fritte, sono sicuramente più sane di molte merendine confezionate e quindi, ogni tanto, si possono dare ai piccoli topini come merenda.

Possono essere un buon contorno o un ottimo antipasto e si possono anche intingere nell’uovo e nel pan grattato ma sembra che in pastella piacciano di più.

Croccanti, gustose e anche belle da vedere!

Dobbiamo scegliere le foglie grosse, la ricetta viene meglio e danno più soddisfazioni. Daremo loro una sciacquata e le asciugheremo bene tamponandole con un canovaccio pulito.

La pastella io la preparo in questo modo: farina, birra fredda, acqua fredda, un pizzico di sale e una punta di bicarbonato grazie alle indicazioni che mi ha dato la mia cara amica Romina. Con la frusta, per non creare grumi, mescolo il tutto fino ad ottenere una sostanza che non sia né troppo liquida, né troppo solida dal color avorio.

Ci immergo dentro le foglie facendo sì che si sporchino per bene di pastella da una parte e dall’altra, senza lasciare zone pulite. Se la pastella rimane un goccio densa e ne rimane troppa attaccata alla foglia, se ne toglierà un poco accarezzandola e lisciandola con le dita, altrimenti farà troppe bolle d’aria durante la cottura.

In una padella si metterà dell’olio e, quando questo sarà bello caldo, si faranno cadere dentro le foglie zuppe di pastella, ben divise tra loro. Ci vorrà un attimo affinché siano pronte. Basterà aspettare la loro doratura e poi si toglieranno con delle pinze per adagiarle in un piatto sopra un foglio di scottex che assorbirà l’olio in eccesso.

Una volta cotte tutte le foglie, si saleranno e si potranno utilizzare come accompagnamento di qualche altra delizia.

Io, ad esempio, questa volta le ho affiancate al gorgonzola e l’abbinamento ha avuto un risultato fantastico.

E’ un piatto veloce e facile, ma avrà un grande successo e sarà molto originale, pronto per essere presentato ai vostri ospiti.

Correte a prepararlo e poi ditemi come vi è rimasto!

 

Ius Primae Noctis tra Badalucco e Montalto

Topi, quella di cui vi rendo testimoni oggi è una storia pazzesca, per cui preparatevi.

Dovete sapere che noi bestioline della Valle Argentina abbiamo il privilegio di avere una Nonna molto particolare, comune a tutte le creaturine zampettanti, striscianti e volteggianti. Non vi ho mai parlato di lei, ma ora è giunto il momento di farlo. E’ Nonna Desia, antica quasi quanto lo Spirito della Valle, una cantastorie provetta e infallibile. Lei  sa sempre cosa dire agli animaletti che, come me, vogliono trascorrere qualche momento spensierato e magico in sua compagnia.

Se ne sta al centro di un bosco, in una radura dall’atmosfera surreale, conficcata nel terreno chissà quando e chissà da chi. Gli umani non possono vederla e non conoscono la sua esistenza. L’ardesia che la compone è scura, grezza a tal punto da disegnare rughe antiche sulla sua superficie. Le nonne degli esseri umani raccontato storie ai propri nipoti e così fa lei con tutti noi animaletti.

Ebbene, un giorno mi trovavo nei pressi del bosco in cui abita e decisi di farle visita.

«Topina cara! Che bello vedere il tuo musino, dopo tanto tempo. Siediti qui con me, prendi quelle bacche. Mi sembri deperita… Mangia, bela me fia, ti me stai ma’! (Mangia, bella la mia bambina, mi stai male)».

Eh sì, proprio come le nonne umane, anche Nonna Desia sembrava non vedere che in realtà mi nutro benissimo, proprio io che mai mi priverei di un boccone. Però l’accontentai e mi sedetti alla sua base, mangiucchiando qualche mora.

«Avanti, Nonna: raccontami una storia delle tue. Ne ho proprio bisogno, oggi!» le dissi.

montalto

«Ne conosco proprio una che può fare al caso tuo. C’era una volta un conte cattivo e spietato, alcuni dicono che vivesse a Baaücu (Badalucco), altri vogliono che sia nato a Ventimiglia. Il suo nome era Oberto. Egli era odiato e temuto da tutti, un uomo avido di potere e di ricchezze; non c’era essere umano che non conoscesse la sua prepotenza. La sua cupidigia si rifletteva nel suo aspetto fisico, per nulla armonioso e privo di qualsiasi forma di bellezza. U l’ea in rantegusu… (era un rantego cioè brutto, storto, rugoso, zozzo…). Inoltre, era risaputo che amasse la compagnia delle dame, non importava se fossero di nobili origini o appartenenti al volgo: le desiderava tutte per sé. Accadde, dunque, che proprio a Badalucco una giovane era stata chiesta in sposa da in zuenu (un giovanotto) sinceramente innamorato di lei. Tuttavia, né la donzella né il promesso sposo volevano sottostare alla legge dell’epoca, quella dello Ius Primae Noctis, che prevedeva che a spusinna (la novella sposa) dovesse obbligatoriamente trascorrere la prima notte di nozze non con il suo consorte, bensì con il capo della comunità, del feudo o della cittadina.»

«Gli esseri umani hanno leggi davvero bizzarre!» commentai, la bocca macchiata del blu delle more.

Badalucco e Montalto

«Sì, piccola topina, è così. Be’, i due innamorati decisero di fuggire per scampare a quella regola insopportabile, e trovarono rifugio tra i monti, nelle zone limitrofe. Non furono soli, poiché si portarono al seguito i loro familiari, pronti anch’essi a ribellarsi al volere del Conte Oberto. Si stabilirono nel luogo che oggi è diventato Montalto Ligure, furono loro a fondarla. Ecco perché oggi è considerato il paese degli innamorati, tanto che ospita la bellissima Loggia degli Sposi. La conosci?»

 «Sì, certo! Ne ho parlato anche in un articolo. Cosa accadde, poi?»

Nonna Desia si schiarì la voce: «E in mumento, ratin! Dund’à l’è ca lu messu a raixe de Brügu? A ghe l’ajevu chi-eciapilà in pocu ca me fa umbra… (E un attimo, topino! Dov’è che ho messo la radice di Brugo? Ce l’avevo qui… prendila un po’, che mi fa ombra…) Successe che gli abitanti di Badalucco, preso coraggio dall’azione dei due sposini, si ribellarono al perfido Conte, costringendolo ad abbandonare le loro terre. E allora, finalmente, vissero tutti felici e contenti.»

«Ma pensa… che bella storia! E, dimmi un po’: è vera?»

«Che vuoi che ti dica, gioia? Eeeeh… a nu me regordu (non mi ricordo)! Non lo so più! Sono tanto vecchia, ormai… mia’ ‘a go ina teista (ho una testa) che tendo a confondere quello che è vero da ciò che non lo è. Forse è esistito davvero il Conte Oberto, o forse la sua è una figura plasmata dalla nebbia del tempo. Però resta una bella storia da condividere in un pomeriggio come questo, per farsi compagnia. Non credi anche tu?»

Sono d’accordo con Nonna Desia, tuttavia io so che il conte è esistito davvero, anche se non posso sapere se la storia che mi ha raccontato sia vera. Credo che certe leggende siano belle proprio per l’alone di mistero che le avvolge.  E allora è bene godersele e prenderle per quello che sono: delle storie piacevoli da raccontare intorno al fuoco o la sera, prima di spegnere la lucciola da comodino e andare a dormire.

Un fiabesco saluto.

San Giuseppe sul mare di Arma

È come un simbolo, per il paese di Arma. Il suo campanile permetteva di vedere l’orario quando, ancora topini, facevamo il bagno al mare: a una certa ora dovevamo pur tornare in tana!

La sua copertura tondeggiante svetta tra i bar e le gelaterie, e i colori rosa e avorio delle sue pareti la rendono unica, sebbene siano le tipiche tinte dei borghi costieri della Liguria.

La piccola chiesetta di San Giuseppe è molto amata dagli abitanti di Arma e, quando la si trova aperta, non si perde occasione per entrarci e far visita alla piccola nicchia. Sì, è davvero minuta. Nonostante il poco spazio, tuttavia, sono diverse le statue di santi che l’arredano.

Ci sono San Giuseppe, ovviamente, riconoscibile dal Giglio che tiene in mano, e Sant’Erasmo, che i fedeli festeggiano in estate con tanto di processione e fuochi d’artificio.

Sant’Agnese ha in mano un agnello, emblema di castità, e poi dietro al candido altare c’è Gesù, il quale indica il suo sacro cuore con la mano sinistra.

Molte statue, proprio come quella di San Giuseppe, un tempo venivano scolpite nel legno di fico, che veniva poi colorato. Il Giglio è da sempre il fiore religioso per eccellenza, mostrando purezza e maestosità. Una leggenda, infatti, racconta che la Vergine Maria scelse proprio Giuseppe come suo sposo perché lo vide camminare con un bastone ricoperto di Gigli.

Quadri bellissimi rappresentano Sant’Antonio con in mano il Bambin Gesù e ancora Sant’Erasmo, protettore della gente di mare, che sembra benedire le acque con un gesto della mano. Sant’Erasmo viene persino portato in mare durante la sua celebrazione, posto sopra un gussu (gozzo), tipica imbarcazione di questi luoghi.

L’edificio è riuscito a superare molti periodi difficili, rimanendo miracolosamente quasi del tutto integro. Le due Guerre Mondiali e il terremoto del 1887 sono stati i suoi momenti più terribili, ma lei ha resistito e tuttora è lì, a osservare ogni giorno le onde e a essere punto di riferimento per i pescatori che la osservano dal mare. Un tempo la chiesa di San Giuseppe doveva vedersela quotidianamente con onde e tempeste, affacciandosi direttamente sulla distesa blu del Mar Ligure. Oggi tra l’edificio religioso e l’acqua ci sono la spiaggia, i locali, la passeggiata mare e la strada, ma un tempo non era così.

È più antica del grande Duomo, eretto in seguito. Fu eretta nel 1817, o meglio, in quell’anno iniziarono i lavori per costruirla in seguito alla risposta positiva del  Consiglio degli Anziani alla richiesta di edificare una chiesa ad Arma.  Solo a Taggia, borgo più antico di Arma, c’erano edifici religiosi nei quali pregare, ma nessuna chiesa poteva accogliere chi decise di trasferirsi sulla costa. Per questo coloro che divennero gli “armaschi”, vollero il loro santuario.

Al suo interno il pavimento nero e lucido come l’ossidiana fa risaltare le candide pareti e il soffitto affresco da un grande dipinto circolare realizzato da Don Angelo Nanni, Curato di Arma, nel 1940. Si riconoscono in questa raffigurazione: Giuseppe che svolge la sua professione di falegname, un giovane Gesù che parla con il padre e Maria che, seduta, ricama. C’è tutta la quotidianità della Sacra Famiglia.

I toni sgargianti lo rendono vivido e attirano lo sguardo. Tutta la volta viene valorizzata, spingendo a osservare anche la postazione sopraelevata che probabilmente serviva per l’organo.

Le poche e piccole panche in legno sono ordinatamente sistemate davanti all’altare e dietro di esse, a sinistra dell’entrata, c’è la piccola acquasantiera in marmo bianco.

L’atmosfera è intima e raccolta, silenziosa, nonostante a pochi passi bimbi e ragazzini schiamazzino divertiti sulle spiagge, e i gabbiani, in coro, offrano le loro migliori prodezze canore.

Fuori ci sono il viavai della gente, i dehors pieni di persone e musica, ma dentro si  respirare la quiete.

Ehi, dobbiamo uscire adesso. Lo so che si sta bene grazie al silenzio e alla frescura concessa dalle spesse pareti, ma ci aspettano tanti altri luoghi da visitare.

Forza, andiamo!

Un bacio e alla prossima.