Il Corvo Imperiale – sentinella intelligente

Un giorno mi trovavo in zone impervie della Valle Argentina. Passeggiavo quasi in mezzo alla nebbia che di tanto in tanto lasciava spazio a un sole tiepido che carezzava col suol calore il mio pelo. Me ne stavo lì a rimirare lo spettacolo di Madre Natura quando all’improvviso vidi un gran numero di Corvi Imperiali attraversare il cielo sopra la mia testa.

Di Corvi ne ho visti, nella mia vita di topina, ma così tanti e tutti assieme, per giunta, era una gran novità! Assieme a loro c’erano persino diversi Gracchi Alpini!

Mentre quei corvi gracchiavano dall’alto, io producevo una raffica di clic con la mia macchina fotografica per immortalare il momento imperdibile, quando da lontano mi giunse una voce a me conosciuta: «Plotoneeee aaaaalt!»

Odoben Malcisento urlava come un ossesso, il suo ululato riecheggiava da un monte all’altro e io attesi che il suo muso comparisse da dietro la collina sulla quale ero appostata, poi lo salutai: «Odoben! Odoben!» lo chiamai, sbracciandomi.

«Maiben? Maiben, dici?! Con tutto il fracasso che stanno facendo, non resterà manco un camoscio da mettere sotto i denti!» mi rispose irritato, fraintendendo le mie parole (“maiben” dalle mie parti ha un significato simile a “che bellezza”, “quanto bene!”).

«Ma no! Stavo solo chiamando il suo nome, Odoben. Ha visto quanti?»

Avvicinatosi a me, aveva finalmente compreso di aver udito male, ma non si scompose a chiedere scusa: Odoben è un generale, e come tale esige sempre rispetto. Non tardò a ricordarmelo: «Dimentichiamo sempre le buone maniere, vedo!» mi redarguì con sguardo tagliente.

Mi tirai una zampata in fronte, urlando: «Mi perdoni, Generale!».

«Così va meglio» disse, poi si rivolse al branco di giovani lupi suoi sottoposti: «Che fate lì con la lingua penzolante? Non siete mica dei cani! Voglio fierezza nel portamento, razza di smidollati! E non statevene lì a bocca asciutta, andate a cercare quei cornuti scala-rocce, non vorrete mica tornare alla tana coi crampi allo stomaco, dico bene? Non perdete tempo! Serrate i ranghi! Tornate vittoriosi, altrimenti ve la vedrete col vostro Generale!» ringhiò.

«Signorsìssignore!» risposero in coro, e si apprestarono a eseguire gli ordini mentre Odoben intonava: «Un-due! Un-due! Un-due!».

Quando i giovani lupi scomparvero alla vista, si rivolse infine a me: «Che hai da guardare, ricotta munita d’orecchie?»

Soffocai una risata per il suo artistico appellativo e dissi: «Mi chiedevo… Generale Malcisento… mi chiedevo se potesse darmi qualche notizia sul Corvo Imperiale, lei che sa tutto degli animali del cielo e della terra che popolano queste zone, signore.»

«Sul Corvo Imperiale? Ah, quello è proprio un gran vecchio volpone! Non s’è mai visto animale più furbo di lui… a parte il lupo, beninteso!»

«Ah, davvero?» dissi per spronarlo a proseguire nel suo racconto.

«Puoi esserne certa, mezza cartuccia vestita da topo! Se il lupo è uno stratega, il corvo è un grandissimo osservatore e studioso… e la sua intelligenza, unita allo studio meticoloso di quello che lo circonda, lo rende un anticipatore delle mosse del nemico, ma non solo! A volte sembra che conosca il futuro, talmente bravo è diventato a studiare la realtà.»

«Generale, vuole dirmi che sa prevedere anche le vostre mosse?»

L’anziano lupo sogghignò: «Ah, quel vecchio furbacchione… sa tutto, vede tutto! Manco fosse il demonio fatto uccello! Tante volte dall’alto del suo volo vede una carcassa… l’animale può essere morto per un incidente, per vecchiaia o per altri motivi, ma quando il corvo lo trova, viene a cercare noi lupi. Qualche volta, se non trova noi, si rivolge alle volpi… e coi suoi forti richiami ci attira fino al luogo in cui giace inerme il corpo dell’animale. Allora il corvo attende.»

Il Generale fece una pausa a effetto: gli piaceva raccontare storie come quella e saggiare l’attenzione dei suoi ascoltatori, e io l’accontentai: «Cosa attende, Generale?»

«Attende che noi lupi diamo inizio alle danze, sventrando la bestiola, cosicché anche lui possa cenare attingendo alle parti molli e nutrienti dell’animale… ma lascia fare il lavoro sporco a noi, mica scemo!»

«E voi glielo lasciate fare? Gli lasciate mangiare quella carcassa?»

«Certo che sì, razza di stracchino coi baffi! E’ la legge del bosco, ci si aiuta a vicenda! Il corvo fa un favore a noi, e noi lo ricambiamo.»

«Davvero interessante, Generale Odoben Malcisento, molto interessante!»

«Ma non ti ho ancora detto tutto. Tutti credono che il corvo sia in grado di emettere solo suoni striduli e gracchianti… in verità qualcuno nel bosco dice di averlo sentito cantare con voce melodiosa. Pare lo faccia solo quando sa di non essere osservato.»

«Veramente? Chi è stato a raccontarglielo?»

«Quel ficcanaso, beccolungo e trapana-timpani del picchio, chi altri, sennò? Ma sai, non penso abbia detto una bugia: in fondo il corvo è in grado di imitare il canto e i richiami di molti uccelli, spesso impara anche parole del linguaggio umano. Lo fa per allontanare e ingannare possibili rivali, oppure per attirarli in una trappola e affrontarli impreparati. Astuto, lui!»

«Generale Odoben, lei è sempre una garanzia!»

«Arriva la fanteria?!»

«No! Ho detto lei-è-sempre-una-garanzia!»

«Ah! Potrei stare qui a raccontarti del corvo all’infinito! Per la sua intelligenza e il saper anticipare gli eventi, viene considerato un profeta con dono della preveggenza. E’ stato grazie all’osservazione del volo dei corvi che gli umani hanno scelto i luoghi in cui far sorgere antiche città, tale era l’importanza di questo uccello. E’ da sempre considerato un messaggero del cielo, il che nel mondo umano è sempre stato interpretato come tramite tra il divino e il terreno. Che dire, poi, delle sue piume nere? Paiono uscite dall’oscurità più cupa della notte, dall’assenza di luce, ma in verità non è un animale così oscuro come sembra. Ho sentito molti cacciatori chiamarlo “uccellaccio del malaugurio” per il fatto che si nutra di carcasse… ma in fondo, dico io, quale animale non si nutre di morte? Lo facciamo tutti, dico bene?»

Trovai quella riflessione assai profonda e non riuscii a proferire parola per qualche interminabile secondo. Non potevo che dare ragione a Odoben.

«E’ un ciclo, sorcina. Un ciclo infinito, dove il confine tra la vita e il suo opposto è assai labile. Qualcuno muore per consentire ad altri la vita, e quella stessa vita verrà restituita a qualcun altro a tempo debito. Non c’è nessun malaugurio in tutto questo, ma solo pura, semplice sopravvivenza.»

«Ha ragione, Generale Odoben. Ha ragione» conclusi.

Restammo ancora lì a guardare insieme lo spettacolo di Corvi Imperiali che volteggiavano sulle nostre teste, mente Odoben riposava le zampe stanche e io scattavo foto a più non posso.

E ora vi saluto, topi miei. Vado a scrivere un altro, gracchiante articolo per voi!

 

 

Il coraggioso e affascinante Scorpione

Qualche giorno fa me ne andavo a spasso per la Valle canticchiando una bella canzoncina tra me e me quando all’improvviso inciampai in qualcosa che per poco non mi fece ruzzolare. Abbassai lo sguardo e vidi che quello che avevo urtato con la mia zampina raffinata era nientepopodimenoché… una palla di sterco del mio amico rebattabuse (lo scarabeo stercorario), Metuccuecuje, per gli amici Metuccu. Ve lo ricordate?

Scarabeo Stercorario

Be’, nel vedermi lì con la sua preziosissima sfera di escrementi mi rimproverò col suo solito tono stanco e strascicato: «Potresti prestare un po’ più attenzione a dove metti le zampe, Prunocciola! Puff… pant… E poi non capisco proprio cosa ci sia di così allegro da dover cantare. Proprio no, non lo capisco. Uff…»

«Be’, sono allegra perché nonostante sia Autunno le temperature sono ancora miti e posso permettermi di gironzolare in lungo e in largo per la valle senza dovermi imbacuccare troppo. Mi spiace di aver dato un calcio alla tua palla di sterco, perdonami Metuccu. Come stai?»

«Io? Puff… che vuoi che ti dica? Come sempre. Non vedo altro che nero all’orizzonte» disse con un’alzata di zampe.

Se togliessi quella busa da davanti ai tuoi occhi, forse vedresti anche qualche colore, avrei voluto dirgli, ma lo tenni per me. Invece gli risposi: «Dai, Metuccu! Non puoi dire così!»

«Che vuoi che ti dica? Sempre le solite cose, sempre tanto lavoro da sbrigare… pant… uff...» si lamentò.

«Piuttosto, già che ti vedo, ho da chiederti una cosa…»

«Eh… vedremo se posso risponderti.»

«Siamo entrati astrologicamente nel segno dello Scorpione: cosa mi dici di questo segno, tu che sai tutto sugli astri e sui loro movimenti?»

Metuccu sbuffò e fece un cenno con la zampa, come a voler scacciare qualcosa di invisibile: «Gli astri non sono altro che luci utili a orientarsi, Prunocciola, ma se proprio vuoi che ti racconti qualcosa… eh, che vuoi che ti dica? Ti accontenterò.»

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Quando fa così lo prenderei a colpi di ghianda, ma mi trattenni anche questa volta.

Con aria un po’ trasognata lui proseguì: «Segno misterioso, lo Scorpione, il più enigmatico di tutto l’Oroscopo. Una leggenda antica racconta che Dio chiamò a sé tutti i segni dello zodiaco per assegnare loro diverse missioni. Allo Scorpione disse: ‘A te affido il compito di purificare ed eliminare gli ostacoli. Dovrai rimuovere e far morire tutto ciò che impedisce la realizzazione del mio piano divino, cosicché venga dato spazio a tutto ciò che è puro e nobile. Ecco che allora comincerai da te stesso: imparerai a morire e rinascere dalle tue ceneri, poi insegnerai all’uomo a fare altrettanto. Affinché tu possa assolvere il tuo compito, ti dono i talenti della Volontà, dell’Intuizione e della Rinascita: usali con Amore e non dimenticare che intolleranza, eccessivo individualismo e passioni incontrollate saranno grandi ostacoli lungo il tuo viaggio.‘ Questa è la missione di chi è nato sotto questo segno, e cioè in una data compresa tra il 22 di ottobre e il 21 di novembre.»

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«Molto interessante, Metuccu! Quando si tratta di astrologia e astronomia, sei sempre fenomenale!» dissi per incoraggiarlo.

«Puff… che vuoi che sia, Prunocciola? Che vuoi che sia? Ciò che so è solo un bruscolo di polvere nell’infinito Universo. E qui, su questa terra nera e umida, ho così tanto da fare, così tanto lavoro da sbrigare… uff

Metuccu è proprio un inguaribile “vedo-tutto-nero”, non c’è niente da fare. Lo esortai allora a continuare per distoglierlo dai suoi pensieri pessimisti e lui riprese il suo affascinante racconto:

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«Lo Scorpione è un segno d’acqua, elemento legato al ventre materno, alla vita e all’inconscio. Di tutti i segni è quello che dimostra una grande potenza nei sentimenti, anche se lo nasconde con abilità. Sono individui ambiziosi, gli Scorpione, e riescono là dove molti falliscono, proprio perché hanno coraggio da vendere e tanta di quell’energia che… be’, potrebbero donarne un po’ a me, che son sempre così stanco… uff. I loro intenti sono sempre ricchi di potenza e ardore, non lasciano mai nulla di incompiuto e, anzi, hanno una gran voglia di sperimentare ogni cosa nella loro esistenza. Ancora non capisco come facciano… uff… a non stancarsi! Lottatori nati, sono amici e protettori leali in caso di bisogno. Ovviamente io non ho avuto la fortuna di avere un amico Scorpione, come sarai in grado di vedere benissimo da te. Ma, ora che ci penso… sono anche temibili nemici, soprattutto quando si scatena la loro ira. Se si abbandonano a sentimenti di offesa e ingiustizia, possono covare risentimento, gelosia, malvolenza… dopotutto l’aracnide che lo rappresenta ha un pericoloso aculeo avvelenato, e quel veleno, se non riesce a uscire, alcuni nati sotto lo Scorpione lo rivolgono a se stessi. Un segno affascinante… E’ ingegnoso e risolve facilmente i rompicapo, ha una pazienza illimitata, una grande resistenza fisica e una spropositata dose di coraggio. Lo Scorpione è un saggio consigliere, poiché riconosce subito i punti deboli e quelli di forza di chi gli sta davanti. Le energie spirituali di questo segno provengono da Sirio e dalla Stella Polare: queste due maestre fanno sì che il discepolo Scorpione debba affrontare le prove più complicate, le cosiddette Fatiche di Ercole. Il pianeta che lo governa è Plutone, l’antico dio degli Inferi, ma non solo. E’ anche il bellicoso e passionale Marte a dominare lo Scorpione. Inoltre, a differenza di quanto si pensi, il simbolo dello Scorpione non è solo quello dell’omonimo insetto, ma è rappresentato anche dall’aquila e dal serpente.»

«Davvero? Wow! Questa mi giunge davvero nuova, Metuccu!»

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«Eh, sì. Lo scorpione si nasconde nell’ombra, sotto terra – come il dio infero greco – pronto a colpire la preda: la stessa cosa accade a chi è nato sotto questo segno e non ha raggiunto una certa evoluzione personale e spirituale. L’aquila, invece, si libra in alto nel cielo, ha un volo potente: simboleggia l’uomo che si è rigenerato e si innalza ai massimi livelli spirituali, al servizio del divino. Per quanto riguarda il serpente, invece, è un simbolo di rinascita e rappresenta sia il male, gli impulsi terreni e materiali, che l’ascesa spirituale, la trasformazione in un essere più evoluto.»

«Questa volta mi hai lasciato senza parole, Metuccu. Devo proprio ammetterlo.»

«E meno male! Ho perso un sacco di tempo con questi racconti, Prunocciola, non posso fermarmi ancora. Eh… devo ancora fare tanta strada e lo sterco pesa, sai… Pesa tanto, ahimé. Vita grama, la mia…»

«Grazie per queste brillanti conoscenze, Metuccu!»

«Che vuoi che sia… che vuoi che sia!» disse. Era già lontano, con la sua palla di sterco davanti, la testa china.

Sarà anche un vedo-tutto-nero, ma quel che sa lui non lo sa nessun altro. Io vi saluto, topi! Un bacio astrologico a tutti.

 

 

Le Donnine delle grotte

Un giorno di questa estate, uno di quelli in cui la calura infuriava sulle coste e nelle valli, mi ritrovai nei pressi della radura di Nonna Desia, così decisi di andare a salutarla.

I fichi erano maturi e gonfi sui rami di un albero non distante dalla mia nonnina di roccia, inutile dirvi che ne presi uno per assaggiarlo, vero? Be’, che volete farci? Son fatta così, mi piace fare spuntini quando zampetto e, anche se i miei topo-amici mi guardano sempre sbalorditi (le mie merende sono famigerate in Valle, topi, perché sembrano pranzi da re!), per Nonna Desia non sono mai abbastanza sostanziose: «Oh, ratin! Che piaxè che ti sei chi! Pia in autra mesciia: cun tuti i gii che ti fai, ti devi mangià, eh! (Che piacere vederti! Prendi qualche altro fico: con tutti i giri che fai, devi mangiare, eh!)» mi salutò, vedendomi arrivare con la bocca piena e le zampe anteriori sporche.

«Ne prenderò ancora, non preoccuparti Nonna»

« Cu ti g’hai in scià teista? Ti duveesci fatte a mascagna, ti sei tuta spentenà… (Ma che hai, lì, sulla testa? Dovresti lisciarti un po’ quel ciuffetto di peli che hai in fronte, è tutto spettinato…)» mi rimbrottò bonariamente.

Mi lisciai la frangetta e mi giustificai: «Quando gironzolo dimentico di darmi una sistemata».

«Mmm… dovresti proprio usare uno di quegli arnesi che usano gli uomini… Cumme se ciamma? Miammu sa mu u regordu… ah, scì! A petenetta! (come si chiama? Vediamo se mi ricordo… ah, sì! Il pettine!)» Nonna Desia si illuminò, ma non mi lasciò risponderle, perché continuò con rinnovato fervore: « Aù ca ghe pensu… (Ora che ci penso…) Tempo fa ho sentito una storia a proposito di questo strumento, vuoi sentirla, ratin

pettine leggende

«Sicuro! Sai che sono sempre a caccia di storie da raccontare» dissi mettendomi comoda davanti a lei, mentre mi leccavo le zampe con gusto.

«Bada, stelin, non ricordo più chi me l’abbia raccontata, né se sia una storia di questi luoghi o di altri, ma di una cosa sono certa: è una storia ligure» disse,  poi si schiarì la voce antica e cominciò: «Una volta, tanto e tanto tempo fa, per le valli del nostro entroterra esistevano delle donnine minuscole.

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Non avevano un bell’aspetto. Anzi, a dire la verità… i l’ean susse! (erano proprio bruttine!) Vivevano nelle grotte ed erano malvagie e pericolose, per questo nessuno le disturbava mai. Spesso, anzi, facevano sparire gli uomini che, incautamente, andavano a cercarle per pura curiosità o per dare prova di coraggio. Queste Donnine, che in molti chiamavano Fate, qualche volta abbandonavano le loro dimore sotterranee per andare a bagnarsi nei numerosi fiumi e rigagnoli delle nostre vallate. Lì facevano lunghe immersioni, poi si rilassavano sulle rive dei corsi d’acqua e lì trascorrevano ore a pettinare i loro lunghi capelli con un pettine minuscolo.

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Un giorno, tuttavia, accadde che una di queste Fate si distrasse, udendo un rumore insolito tra le fronde degli alberi. Il pettine le cadde di mano e il torrente lo portò via prima che lei potesse acciuffarlo. La Donnina pianse, urlò e si disperò: senza il suo pettine non poteva ritrovare la grotta che era la sua casa. Rimase a vagare sulle montagne, cercando lo strumento per lei tanto prezioso. Intanto a valle, un giovanotto se ne stava coi piedi a bagno cercando di pescare qualche pesce, quando vide qualcosa che attirò la sua attenzione.

torrente acqua

Il torrente era limpido, come sempre d’altronde, e lui aveva l’occhio di una poiana, per questo non gli fu difficile vedere il minuscolo pettine incastratosi tra due pietruzze. Lo prese tra le dita, guardandolo con occhi scintillanti. Sapeva che apparteneva alle Fate delle grotte e si decise a restituirlo subito alla sua legittima proprietaria. I familiari tentarono di persuaderlo, ma non ci fu modo di farlo ragionare: la decisione era presa. Non sarebbe stato difficile trovare la Fata, il giovane lo sapeva, perché se una Donnina perdeva il suo pettine, difficilmente avrebbe ritrovato la strada per la sua grotta madre.

pettine fate

Si inoltrò nel bosco e fu solo questione di tempo perché trovasse la Donnina. La vide su un masso, non distante dall’acqua, che piangeva e si disperava. Quando il ragazzo la chiamò e le mostrò il pettinino, il brutto volto della Fata si illuminò e divenne quasi bello. Ringraziò con amore sincero il giovanotto che le aveva riportato il pettine e lo ricompensò con ricchezze degne di un sovrano. Da quel momento in poi, la famiglia del giovane non soffrì più né la povertà né la malattia e si dice che ancora oggi i suoi discendenti godano di ottima salute e che non abbiano problemi di denaro.»

«Questa sì che è una bella storia, Nonna! Bella, davvero!»

«Hai visto, ratin? E me veje uregge i l’han udiu tante cose e, ascì sa sun in pocu sensa a mamoria, de tantu in tantu carcose a me regordu (Le mie vecchie orecchie hanno udito molte cose e, anche se sono un po’ smemorata, ogni tanto qualcosa lo ricordo ancora!)» disse ridendo.

Sono storie, queste, le cui origini si perdono davvero nelle sabbie del tempo, topi, ma ogni leggenda ha un suo fondamento e a me piace pensare che questi esseri che noi oggi chiamiamo Fate siano esistiti veramente.

grotte toirano

La Liguria di Ponente pullula di grotte, anfratti e cavità naturali. Alcune sono profonde, altre più superficiali. Alcune sono accessibili, altre non più o parzialmente nascoste dalla vegetazione, ma un tempo erano frequentate e usate soprattutto come sepoltura. Il culto della Madre Terra era strettamente legato a questi luoghi che ne rappresentavano il grembo, ed ecco spiegato il legame tra le Donnine della storia di Nonna Desia e le grotte. Forse erano donne autentiche che presiedevano i riti funebri e furono poi trasformate in esseri spaventosi, per via di ciò che rappresentavano, ma in ogni caso qualcosa diede origine a queste credenze che oggi noi ci tramandiamo come fiabe. Molta di questa antica magia è andata perduta, ma sono contenta che Nonna Desia e altri topi a me cari abbiano ancora la voglia e la memoria di raccontarli e tramandarli. Io li regalo a voi, così che il filo non si spezzi.

Ora vi saluto topi: vado a pettinare un nuovo articolo per voi!

Un bacio fatato e cavernoso a tutti.

Antiche presenze in Valle Argentina

Qualche tempo fa mi trovai da sola nelle zone impervie dell’Alta Valle Argentina, lassù dove pochi osano arrivare, in luoghi incontaminati in cui la Liguria si confonde col Piemonte.

Col fiato corto, salii e salii, quando a un certo punto vidi sul sentiero qualcosa che attirò la mia attenzione.

Sembrava un rametto come tanti, ma a un secondo sguardo capii che non lo era. Lo presi tra le zampe e non ebbi più dubbi: quello che avevo trovato era il palco di un Capriolo, abbandonato lì dalla stagione autunnale dell’anno precedente, quando questi cervidi perdono i palchi nell’attesa che ricrescano quelli nuovi durante l’inverno.

Stavo per emettere un versetto meravigliato quando udii qualcosa di familiare…

Fruuush… Fruuush…

«Spirito della Valle, sei tu?» pronunciai guardandomi intorno.

Sì, Pruna. Ben ritrovata, bestiolina.

La voce antica dello Spirito mi diede dei brividi benevoli lungo la coda che mi riscossero.

«È bello incontrarti qui, era da un po’ che non sentivo il tuo richiamo.»

Ormai lo sai, piccola creatura: sono in nessun luogo…

«… Eppure dappertutto!» conclusi per lui.

Esatto. Vedo che hai gradito il dono!

Lo stupore si dipinse sul mio musetto per la seconda volta: «L’hai lasciato tu qui per me?».

Lo Spirito della Valle emise un fruscio simile a una risata, poi disse: No, bestiolina! È il Tutto di cui facciamo parte che ha permesso proprio a te di ritrovarlo.

«È un dono meraviglioso!»

La pensavano come te anche alcuni esseri umani che abitavano in questi luoghi selvaggi tantissimo tempo fa, sai?

montagne valle argentina

Così dicendo, lo Spirito evocò per me una visione. Mi sembrava di stare in un film e vedevo scorrere davanti ai miei occhi e al mio muso come delle proiezioni delle genti che calpestarono i luoghi in cui vivo e amo zampettare. Ero troppo rapita per fare domande, ma non ce ne fu bisogno. Fu lo Spirito della Valle a parlare per me.

Tanto tempo fa, quando l’uomo non conosceva le armi da fuoco e viveva ancora in modo semplice e primitivo, queste zone della Valle Argentina, che più tardi sarebbero state chiamate Occitane, erano abitate da popolazioni antiche che poi sarebbero divenute i celto-liguri. Credevano nelle forze della Natura, veneravano tutti gli Elementi che la compongono e tra le loro divinità ce n’era una molto, molto antica che si collega al palco che tieni tra le zampe…

bosco di rezzo

Nel dire questo, vidi nella visione una foresta bellissima. Lo Spirito della Valle mi portò al centro di quel bosco fitto e buio e lì vidi un essere che non avevo mai visto in tutta la mia vita di topina. Se ne stava in una radura, il corpo umano e la testa incoronata da un grosso palco di corna di Cervo, maestoso come il Re della Foresta.

Cernunnos Lou Barban

… Il suo nome era Cernunnos, che significa “Colui che ha le corna”.

«È così imponente! Incute quasi timore» mi intromisi.

È giusto che sia così, creaturina, ti spiego subito il perché. Cernunnos apparteneva alla foresta e alle zone selvagge, era al contempo dio dell’Ordine e del Caos, proprio come un bosco cresce apparentemente disordinato e caotico agli occhi di chi non ne comprende il linguaggio. Era una divinità legata al nomadismo, poiché i popoli di allora non avevano fissa dimora: vagavano per queste e altre terre, vivendo di caccia.

bosco valle argentina

Cernunnos aveva uno sguardo penetrante, non riuscivo a smettere di guardarlo, completamente rapita dal racconto dello Spirito della Valle. Lo lasciai continuare senza interruzioni.

Secondo gli antichi, quand’era di buon umore insegnava all’uomo le regole della società e dell’agricoltura, inducendolo alla sedentarietà. Al contrario, suscitare la sua ira era pericoloso, poiché diveniva allora un giudice severissimo e distruttore.

«Curioso questo suo duplice aspetto di Ordine e Caos!» constatai.

faggio

Non così tanto, Pruna. Rappresentava l’Energia titanica della Vita a livello universale, la stessa che, tramite la distruzione di quello che gli umani chiamano Big Bang, ha permesso al pianeta Terra su cui ci troviamo di esistere. Si tratta di una grande Forza, in grado di dare inizio a un nuovo ciclo vitale a partile dal nulla generato dalla devastazione. È così che funziona in Natura. Ad ogni modo, Cernunnos non aveva una forma definita e unica per tutti i popoli che lo veneravano e lo rispettavano…

A quel punto, la figura davanti a me cambiò fattezze. La barba gli si allungò velocemente, poi la testa umana fu sostituita da una di Cervo e i piedi divennero zoccoli. Non feci in tempo a mettere a fuoco il nuovo essere, che mutò forma un’altra volta, divenendo simile a una capra.

Cernunnos era anche il dio della Natura, della rinascita, della fertilità e dell’abbondanza. È immortale e permette alle specie vegetali e animali di riprodursi. In questo modo la Vita in tutta la sua potente bellezza e autenticità è preservata e resa Immortale grazie ai suoi cicli.

Gli alberi intorno a Cernunnos divennero sempre più rigogliosi, parevano esplodere foglie, fiori e frutti ovunque. Tutt’intorno c’era un grande turbinio di farfalle e decine e decine di uccelli cinguettavano sui rami. Caprioli, Volpi, Lupi, Tassi, Cinghiali, Faine, Scoiattoli, Topi, Rospi, Lucertole… tutto brulicava di vita, c’erano cuccioli ovunque e mi si riempirono gli occhi di meraviglia a quella visione portentosa.

Tuttavia, bestiolina, sei molto saggia e sai bene che la Vita ha una controparte indispensabile e imprescindibile, che deve esistere per equilibrare il Creato…

terreno sottobosco

Con quelle parole, la visione cambiò. I frutti caddero in terra e marcirono, le foglie sui rami ingiallirono e precipitarono al suolo, trasformandosi in terriccio scuro e fertile sotto la coltre di neve che nel frattempo era sopraggiunta. Alcuni degli animali morirono. Era il Ciclo della Vita, meraviglioso e severo al contempo.

… Ecco perché Cernunnos è anche legato alla Morte, quella che permette il Rinnovamento di tutte le cose. Accadde allora che col tempo questa divinità sia stata fraintesa, associata al male, tuttavia sopravvisse in queste zone come in altre. In certe epoche fu associata alle streghe, che con lui danzavano nel folto del bosco in alcuni periodi dell’anno, celebrando la Natura e la sua ebbrezza fertile. 

Sabba streghe

Qui, nelle Terre Occitane, ha preso così altri nomi. È diventato l’indomito Homo Selvaticus, colui che insegnava le arti e i mestieri ai popoli dell’Occitania in cambio di offerte di siero di latte. Talvolta sceglieva una compagna umana per generare la sua discendenza divina. Il suo aspetto più oscuro, invece, ha assunto un nome ancora differente: Lou Barban. Equivale all’Uomo Nero di cui tanto si parlava ai cuccioli umani per spaventarli, ma è sempre lui, che secondo le leggende si muove di notte per creare scompiglio. Lou Barban è colui che punisce chi viola le leggi della foresta e non le rispetta… o per lo meno così era. Per lui era indispensabile che le leggi della Vita e della Morte venissero rispettate, pena la sua furia devastante. Poi, col tempo, anche Lou Barban cambiò forma…

Il dio possente e fiero si trasformò ancora una volta, ma adesso, con mia enorme sorpresa, iniziò a perdere le sue dimensioni imponenti e divenne sempre più piccolo.

… non era più un dio e neppure un demone della foresta. Era diventato il Sarvan, ma questa è un’altra storia, bestiolina.

bosco rezzo

La visione svanì di colpo con un pop, lasciandomi stordita. Mi ritrovai al punto di partenza, dove avevo trovato il palco di Capriolo che ancora reggevo tra le zampe. Quante cose avevo visto e imparato!

«Grazie, Spirito della Valle. Sei stato… illuminante!»

Non c’è di che, Pruna. Tieniti caro quel dono, ora che sai cosa rappresentano i palchi dei cervidi. Che tu possa far cadere al suolo i frutti che non servono più nella tua Vita e sempre rinnovarti con forza e vigore! disse, poi svanì nel vento tra i rami della boscaglia con il suo inconfondibile fruuush… fruuush.

Avevo ricevuto un dono e un augurio meraviglioso, topi, e lo sesso auspicio lo rivolgo a voi.

Un saluto antico dalla vostra Prunocciola.

Cloristella e l’elisir alle fragole

Cloristella, ormai la conoscete, ha sempre qualche intruglio portentoso da consigliare, così un giorno, passando nei pressi del suo antro stregato pieno di vapori profumati, ho deciso di chiederle qualcosa per voi e che so che apprezzerete.

fragole

«Oh, cara Prunò! Nel vederti qui che piacere che ho!» esordì in rima, come nel suo stile.

«Il piacere è mio, saggia strega della Valle. Ehm… hai visto nei dintorni quante belle farfalle?» tentai di risponderle… per le rime, che sennò sarebbe stata capace di tenermi il muso per qualche minuto. «Vorrei avere da te una buona ricetta, ma posso passare anche un’altra volta, se adesso sei di fretta.»

Cloristella rise dei miei tentativi maldestri: «Entra, vieni avanti, amica Prunò! Ti dirò come sempre tutto quello che so.»

foglie di fragola e zucchero

Canticchiò verso il focolare, dove rimestò un liquido ribollente dentro un pentolone.

«Cosa c’è lì? Sento un profumino…» dissi col naso teso all’insù.

«Oh, questo? È infuso di fragola ormai quasi pronto. Per questo sei venuta, di come si prepara vuoi il resoconto?»

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«Sarebbe perfetto, Cloristella! Però ti prego, non parlarmi ancora in rima che altrimenti mi confondo» glielo dissi spontaneamente, portandomi subito dopo le zampe alla bocca e sbarrando gli occhi come se avessi pronunciato un sacrilegio.

Lei, anziché offendersi, rise di nuovo: «Va bene, va bene Prunò. Questo infuso speciale si può  fare in modi differenti. La mia ricetta, però, prevede una base di prosecco. Vi metto dentro le foglie di fragole fresche, quelle di bosco… e poi anche le fragole stesse, un po’ di zucchero, del succo di limone e una punta di cannella. Ovviamente le foglie prima hanno bollito per dieci minuti nell’acqua come per fare un decotto e, quest’acqua non la butto via. La aggiungo al tutto »

limoni e zucchero

«Ma dai! Fa un profumino così buono e invitante… apre il cuore e le narici!»

«Certo che lo fa! È rinfrescante, energetico e alleggerisce lo stomaco dopo una grande scorpacciata. Vuoi assaggiarlo? Ne ho un po’ già freddo da poterti offrire.»

Annuii con entusiasmo e lei arrivò subito con un bicchierino per me.

elisir fragole

Lo ingollai tutto, così buono da leccarmi i baffi più e più volte.

«E ora ti dico un segreto, Prunò: è un ottimo elisir d’amore! Si usa anche al termine di una cenetta romantica… » lo disse bisbigliando, con fare cospiratorio.

«Cloristella… che intenzioni hai?»

«Intenzioni? Io? Nessuna, ovvio! Ma sai, non si può mai sapere chi potrebbe passare di qui… Potrebbe servire a qualcuno, per questo l’ho preparato.»

fragole3

Mi fece l’occhiolino, poi riprese a canticchiare, rimestando in quel suo pentolone. << A proposito Prunò! Tienilo in frigo, deve essere fresco e i bicchieri prima, mettili in freezer >>.

<< D’accordo >> risposi quando ormai non mi stava più ascoltando tutta presa dai suoi affari.

Topi, che vogliamo farci? Cloristella è così, un po’ birichina qualche volta, ma sempre di cuore.

Ora io vi saluto e vado a preparare per voi un altro elisir… ops, volevo dire articolo!

A presto!

I due fratellini ebrei e la generosità di Creppo

Nonna Desia, ormai lo sapete, è un contenitore inesauribile di racconti. Quel giorno andai da lei per farmi narrare una storia che conoscevo molto bene, tante volte me l’aveva raccontata con la sua voce antica ed è ancora una delle mie preferite dei luoghi in cui vivo.

Così eccomi lì, accovacciata ai piedi della lastra di ardesia conficcata nel terreno che io e le altre creature del bosco chiamavamo Nonna.

«Ah, ratin! Me fa ben au cœ che ti sêi chi cun mi! (Ah, topina! Mi fa bene al cuore vederti qui con me!)» sospirò guardandomi mentre sgranocchiavo delle tenere mandorle ancora verdi.

«Lo so, per questo sono qui, Nonna Desia. Avanti, raccontami la storia di Creppo! Devo scrivere un bell’articolo a tal proposito e vorrei essere sicura di non essermi dimenticata nessun particolare.»

Lei rise di gusto, con quella voce roca e flebile che suscitava un moto d’affetto in me: «I g’avei sèmpre cuita vui zueni, eh? (Sempre frettolosi voi giovani, eh?) E va bene, va bene, a ta cuntentu sciübitu (ti accontento subito), anche se con la memoria che hai e con tutte le volte che te l’ho raccontata sono sicura che la conosci ormai meglio di me. Correva l’anno 1940, ratin, uno degli anni più bui della storia umana. A quel tempo i tedeschi invasero il Belgio e una famigliola che lì abitava fuggì, trovando rifugio nella Francia meridionale. In questa famiglia c’erano due bambini. I se ciamavan… (Si chiamavano…)»

«Rolf e Marianne!» esclamai, per far vedere che ero preparata.

Se Nonna Desia avesse avuto le zampe e un corpo in carne e ossa, se le sarebbe portate sui fianchi con bonario disappunto: «Alantù, se ti a cianti de interumpe autrementi a nu a finisciu ciù! (Insomma, se la smetti di a interrompermi altrimenti non finisco più!) Fammi andare avanti, che lo sai che poi perdo il filo del discorso. Sta’ brava, alantù e senti chi (Sta’ buona, adesso, e ascolta).»

Mi ammutolii e mi lasciai rapire dalla sua voce, proprio come facevo quando ero cucciola.

«Rolf e Marianne, a dixevu (dicevo), erano due bambini, ma in fondo in quei tempi era impossibile comportarsi da tali. U se divegnia grandi de cursa, malaugüratamente (Si cresceva troppo in fretta, purtroppo), e così accadde anche a loro. I genitori dei due bimbi furono catturati dai nemici e portati ad Auschwitz. Rolf e Marianne, invece, furono tratti in salvo da un’anima buona, il signor Angelo Donati: infatti, erano ebrei e… be’, ti u sai ben che fin i l’averevan faitu, se i tedeschi i l’averessen trouvà. Poa gente, ratin! (Sai bene che fine avrebbero fatto, se i tedeschi li avessero trovati. Povera gente, topina!) Nella fuga giunsero in Costa Azzurra, dove dovettero abbandonare Angelo, anch’egli ebreo, ed essere affidati a un altro uomo buono e generoso di nome Francesco Moraldo, che allora era maggiordomo del signor Donati. Tale Francesco, chiamato anche François, era originario proprio di Creppo e decise di portare lì i bambini per nasconderli e salvarli dall’olocausto. A Creppo i poverini furono accolti in casa di Caterina Bracco e di suo marito, il signor Gio Batta Moraldo, meglio conosciuto come Bacì, che altri non era che il papà di François. François, Caterina e Bacì parlottarono per qualche minuto, ragionando sul da farsi, quando Rolf e Marianne furono accompagnati in un’altra casa: quella di Caterina e Bacì, infatti, era troppo piccola per ospitare due anime in più, ci voleva un posto più spazioso e fu trovato dalla sorella di François, Catìn, che soffriva di una malformazione all’anca che la faceva zoppicare, ma questo non le impediva di avere uno sguardo dolce e affettuoso che non mancò di rivolgere ai due nuovi arrivati. La giovane donna abitava con il marito e il loro unico figlio, Franco. La famigliola trovò loro una sistemazione in quella tipica casa di pietra della Valle Argentina.»

Le parole di Nonna Desia erano tali e quali a quelle che usava sempre. La storia dei bimbi di Creppo era ormai come una poesia per lei, la raccontava sempre uguale, senza variazioni, e io sapevo già quale parola avrebbe pronunciato, ancora prima che lei la dicesse. Tuttavia non la fermai, mi lasciai rapire dal suo racconto, trasportata in un’altra epoca, vicino a Rolf e Marianne.

«I due fratellini, beli fioei (bei bimbi), fecero fatica a comprendere il dialetto delle nostre montagne: venivano dalla Francia, non si poteva certo pretendere che conoscessero altri idiomi oltre al loro. Eppure, nonostante le sofferenze che avevano patito con la separazione forzata dai genitori, la loro pericolosa origine ebrea e le difficoltà, si ambientarono bene a Creppo. Furono accolti dalla popolazione del luogo, gli altri bambini e la gente tutta non li esclusero, ma al contrario li aiutarono a integrarsi, proteggendoli cumme i fan e prie di müri cu u teren e-e raixi di-i erburi (come fanno i sassi dei muretti a secco con il terreno e le radici degli alberi.)»

Era una similitudine che mi apriva sempre il cuore, quella. Nonna Desia aveva ragione sul conto dei miei convallesi, gente dura e aspra come la terra che lavorava, ma leale, forte e coraggiosa.

«Tutti sapevano che, se i tedeschi avessero scoperto l’identità dei due fratelli, tutti ne avrebbero pagato le terribili conseguenze. Così cambiarono i loro nomi stranieri di battesimo, che avrebbero destato molti sospetti in un villaggio dell’entroterra ligure, e da quel momento furono italianizzati in Rodolfo e Marianna. I mesi trascorsero in tranquillità e Rolf e Marianne impararono i ritmi della vita quotidiana degli abitanti di Creppo e ne appresero il linguaggio. Durante la giornata aiutavano Bacì e Caterina nei lavori domestici e campestri. Marianne aiutava anche a raccogliere il legname che sarebbe servito alla sopravvivenza del paese durante i mesi più freddi. Quanto a Rolf, se c’era una cosa che proprio non gli piaceva era togliere il letame del gregge dalla stalla…» La risata di Nonna Desia invase la radura, riecheggiando sugli alberi che ne segnavano il confine. «Pouru stelin, u nu l’ea vezzu a ch’ellu-udù, ma u gh’ea carcosa de ciù fetente da fetensia du leame… (Povera stella, non era abituato a quella puzza! Ma c’era qualcosa di assai peggiore del fetore del letame…) Qualche volta Rolf e Marianne si soffermavano a pensare ai loro genitori. Gli mancavano, e allora il magone stringeva loro la gola, ma poi ricordavano la loro fortuna nell’aver trovato della gente meravigliosa, disposta ad aiutarli e proteggerli, e allora il sorriso tornava a illuminare le loro labbra. A Creppo, insieme a Catìn e alla sua famiglia, vivevano momenti spensierati, qualche volta la loro vita somigliava a quanto di più simile ci fosse alla parola “normale”, ma poi la guerra tornava a fare paura, mettendo a tacere le risate e facendo preoccupare per gli affetti, come quando giunse a casa della brava Catìn la polizia tedesca…»

La coda e i baffi mi tremavano sempre in quel punto della storia. Trattenni ancora una volta un gemito e un’esclamazione, permettendo a Nonna Desia di andare avanti senza interruzioni.

«La perquisirono e chiesero a Catìn di chi fossero i bambini che si trovavano sotto il suo tetto, insieme ad altre domande. Catìn fu ferma nelle sue risposte e riuscì a convincere i nazisti che quelli erano tutti figli suoi. I tedeschi alla fine se ne andarono e tutti tirarono un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Rolf e Marianne erano grati a Catìn per tutto quello che faceva per loro, rischiando la sua stessa vita e sacrificandosi per il bene di quelli che, ormai, erano diventati come due veri figli per lei e suo marito. Dopo tanti patimenti e sofferenze, un giorno la campana della chiesa di Creppo suonò a festa: la guerra era finita, finalmente, e tutto il borgo era allegro e gioioso. I crepaoli (abitanti di Creppo) avevano dimostrato l’importanza dell’amore e che è possibile volersi bene, anche quando non si è fratelli o non si nasce nello stesso paese o sotto la stessa bandiera. Rolf e Marianne restarono a Creppo dal settembre 1943 all’aprile 1945, poi François li ricondusse da Angelo Donati, che decise di adottarli. Riacquistarono i loro nomi di battesimo con un’aggiunta importante, Rolf e Marianne Spier-Donati, e non dimenticarono mai la generosità di Creppo e l’amore che lì avevano trovato.»

Quello che Nonna Desia non mi raccontò, ma che scoprii da me, è che nel 1999, molto tempo dopo le vicende di cui lei si faceva sempre portavoce quando glielo chiedevo, Francesco Donati – François – ricevette l’alta onorificenza di Giusto fra le Nazioni dall’istituto Yad Vashem di Gerusalemme in una cerimonia a cui presenziò anche  l’allora sindaco di Triora, insieme al Rappresentante dell’Ambasciata d’Israele.

Nel libro “Ritorno a Erfurt” della scrittrice Olga Tarcali si legge inoltre questo estratto, riportato su una lapide di Creppo a ricordo dei fatti accaduti:

Sapevano che eravamo dei bambini nascosti. Conoscevano il nome di chi ci proteggeva nonché, beninteso, che ciò era rigorosamente segreto. E mai nessuno di quei contadini ci aveva tradito, mai, a rischio delle loro vite e di quelle dei loro familiari. Nessuno aveva trasgredito la ferrea legge di ospitalità degli umili, la grandezza d’animo dei montanari, la silenziosa fierezza della gente semplice. Sebbene fossero poveri, senza mezzi, privi di ogni comodità; sebbene conducessero una vita rozza e austera, un’esistenza aspra e difficile, dettero prova di grande nobiltà d’animo. Essi possedevano l’antico istinto di ciò che si deve e di ciò che non si deve fare.

Questa bella storia, inoltre, è riportata anche in un bellissimo cortometraggio che consiglio a tutti voi topi di vedere, un video realizzato nel 2015 dalla scuola primaria statale P. Ferraironi di Triora e con la partecipazione della locale scuola dell’infanzia, una produzione che ha vinto diversi riconoscimenti.

Con questi bei ricordi e questa storia vera di amore, amicizia, generosità e fratellanza io vi saluto, topi.

Un bacio commosso a tutti!

La sposa fantasma di Agaggio

Giorni fa mi trovavo vicino alla radura nella quale abita Nonna Desia. Non tutti la conoscete, ma è una nonnina speciale, una lastra di nera ardesia conficcata nel bel mezzo di uno spiazzo contornato da alberi chissà da quanto e chissà da chi. E, come ogni nonna, ha sempre molte storie da raccontare, alcune antichissime.

Nel vedermi arrivare, le rughe della sua superficie si distesero:

«Oh, ratin! La mia Pruni! Sei proprio tu? Da cantu tempu ca nu te veggu! Ti te sei faita ciù grande, eh! (Da quant’è che non ti vedo! Sei cresciuta, eh?»

Che volete farci? Nonna Desia è fatta così, come ogni dolce anziano dimentica che sono cresciuta già da un po’, ma non glielo do a vedere: «Sì, sono io, nonna! Ho gironzolato tanto in questi mesi e la tua radura era sempre piena zeppa di neve. Finalmente posso venirti a trovare senza congelarmi le zampe e i baffi. Hai sentito qualche storia interessante, di recente?» le domandai, sedendomi di fronte a lei sbucciando delle fave e gustandole con piacere.

«Oh, sì! Una storia davvero spaventosa. Ma non sono sicura che sia stato di recente… è un racconto un po’ datato… cumma sun mì (come me)»

«Allora avanti, nonna. Ti ascolto!» la esortai.

Si schiarì la voce antica e iniziò a raccontare.

Agaggio Valle Argentina

«A ghea ina vota (C’era una volta) una signora di nome Anna. Suo padre era agaggìn (di Agaggio), sua madre di Triora. Anna crebbe nell’antica casa appartenuta alla sua famiglia, ai Casoni, e, proprio come me, raccontava sempre delle storie ai suoi nipoti che andavano a stare da lei per le vacanze. Non c’era la televisione, ad Agaggio, e così i topini ascoltavano rapiti i suoi racconti spaventosi.»

«Ah, quindi non parliamo di tempi lontanissimi! Sono fatti recenti, quelli che mi stai raccontando» la interruppi.

«Cu ti vœi ca ne sacce, belu ratin, nu so cose ditte. E aù? Dund’a l’è ca l’eu restà? Ti mai faitu scurdà tütu… (Che vuoi che ne sappia, topina, non ti so dire. E ora? Dov’ero rimasta? Mi hai fatto scordare…)»

La aiutai a ritrovare il bandolo del discorso e Nonna Desia riprese: «A Cuumbea (la Colombera), la casa di Agaggio di Anna, si trova a mezza costa, sotto la Rocca della Croce. E’ un luogo isolato, dietro un castagneto, e la circondano fasce coltivate e ulivi. Sotto la Cuumbea c’è ancora oggi una fontana che somiglia molto a una grotta. Ratin, oggi non funziona più… Cuscì i man diitu, mi a sun chì, a nu possu bugiamme, ti u sai (così mi hanno detto, perché io son qui, non posso muovermi, lo sai). Quella fontana è stata riempita di pietre e Anna sapeva perché…»

orto Agaggio

Nonna Desia fece una pausa lunga, spingendomi a chiederle: «Be’? Perché era stata riempita di pietre?».

«In mumentu, ratin! Mi a nu me regordu! (Un attimo, topina! Non mi ricordo!)»

Santa Ratta! Volevo sapere come finiva la storia… Proprio quando iniziavo a disperare, Nonna Desia sussultò: «Sì, ecco! Anna aveva un antenato. U l’ea (era) di Marsiglia, ma la città era ancora italiana, e si trasferì ad Agaggio con la sua famiglia. Aù a nu me regordu cumme u se ciamasse, ma u g’ajeva ina fia zuena (non mi ricordo come si chiamava, ma aveva una figlia giovane), promessa a un ragazzo di Marsiglia. Era molto innamorata del suo futuro sposo, tanto da respirare solo in funzione del matrimonio che si sarebbe svolto a breve. Soffriva della lontananza, bela garsunetta, và… (bella figlioletta, va’) ma il suo promesso gli assicurò che non appena si fosse trasferito ad Agaggio, si sarebbero svolte le nozze. Passò tanto, tanto tempo, ma del giovane non vi era traccia. Dopo anni, giunse infine una lettera dal futuro sposo, ma ahimé le novità che portava non furono rosee. Infatti, scriveva di essersi innamorato di un’altra donna, con la quale nel frattempo era convolato a nozze. Il giuramento fatto alla zuena agaggìn, dunque, fu spezzato e con esso il cuore della fanciulla.»

bouquet

«Oh, che storia triste mi racconti, nonna!»

«Stà brava prima ca me scordu a parte ciù impurtante! A nu l’è miga finia chì! (Fai silenzio, prima che mi scordi la parte più importante, non è finita qui)» mi rimproverò bonaria, poi continuò. «La ragazza cadde in depressione, come c’era da aspettarsi, ma non si limitò a chiudersi nella sua disperazione. Una notte di plenilunio abbandonò la casa paterna e si lasciò cadere nel pozzo, dove annegò con il suo dolore. Pora garsunna! E poru pae! Me pà ancua de sentinne i cianti! (Povera figlia! E povero padre! Mi pare di sentirne i pianti) In famiglia impazzirono a cercare la poverina e, quando la trovarono annegata, videro che aveva indosso il caro abito da sposa che si era cucita lei stessa con amore e cura infiniti. Tutto il paese fu turbato da quella tragica vicenda e il padre fece prosciugare il pozzo e lo riempì di pietre: non ci sarebbe stata acqua, e quindi vita, in un luogo che era stato cornice di morte.»

«Terribile, davvero! Ma… e Anna?» domandai con un filo di voce.

storie fantasmi

«Anna ha detto di aver visto una volta il fantasma della sposa infelice. Appare nelle notti di luna piena e se ne sta lì, in piedi davanti al pozzo, col volto coperto dal velo candido. Anche suo padre e suo nonno hanno visto lo spettro.»

«Brrr! Questa storia mi ha messo i brividi, Nonna.»

«Quale storia?»

Strabuzzai gli occhi: «Quella che mi hai appena raccontato!»

«Io? Ma se hai parlato solo tu finora! Ah, ratin, ti te deverti a famme i schersi? (Ah, topina, ti diverti a farmi gli scherzi?)»

E così, topi miei, Nonna Desia ha presto scordato la storia di Anna e dei suoi antenati, ma io no e la racconto a voi come testimonianza spettrale della mia Valle. E’ stata Vale a raccontarla a Nonna Desia e, grazie a lei, ora la conoscete anche voi.

Un bacio da brivido a tutti.

 

Le uova di Maga Gemma e la rinascita primaverile

Una sera di queste me ne stavo allegramente nella mia tana ad armeggiare con pennelli e nastrini di ogni sorta, in preda a uno dei miei momenti creativi. Mi ero completamente scordata che fosse quasi ora di cena, intenta com’ero a canticchiare, colorare e decorare quando ho sentito bussare alla porta. Coi baffi sporchi di giallo e viola, mi sono fiondata ad aprire, per trovarmi di fronte a nientepopodimenoché Maga Gemma in tutta la sua altezza.

«Oh, Maga Gemma! Che sorpresa vederti! È passato proprio tanto tempo dall’ultima volta» ho detto, cercando di ripulirmi dalla tempera con mal celato imbarazzo.

colorare

La Maga ha sorriso: «Oh, non preoccuparti dei tuoi baffi e delle tue zampe, Pruna. È bello vedere che un po’ di colore e rinascita sono giunti anche da te, nella tua tana. Posso entrare?».

Santa Ratta! Ero così intenta a pensare alla figuraccia che ne ho commessa un’altra lasciando la Maga sulla porta. Mi sono scostata per lasciarle posto: «Certo, certo! Sei sempre la benvenuta, lo sai!».

Maga Gemma è entrata guardandosi intorno con uno dei suoi sorrisi stampato in volto e ha posato un grande cesto su una delle mie sedie: il tavolo era apparecchiato con carte di giornale, bicchieri, pennelli, acquerelli, tempere e oggetti d’ogni sorta.

colori

«Ehm.. perdona il disordine, ma non aspettavo nessuno. Faccio subito un po’ di spazio, aspetta» ho detto, e già ritiravo ogni cosa con la velocità che si confà a ogni topino di campagna che si rispetti.

Maga Gemma, intanto, si era accomodata e continuava a guardarsi intorno, compiaciuta nonostante il caos creativo che regnava nella mia casetta.

Ho steso una bella tovaglia a quadretti sulla tavola, ponendovi sopra una pagnotta sfornata qualche ora prima e due bicchieri d’acqua di fonte, una brocca di vino rosso e le posate, poi ho lasciato che Gemma mi mostrasse il contenuto del suo cesto.

«Sono stata via tutto l’inverno, Pruna. Col freddo anche io ho bisogno del mio personalissimo letargo e quest’anno avevo diverse faccende da sbrigare nei riguardi di me stessa, ma con la Primavera ormai sopraggiunta… eccomi pronta a condividere di nuovo con te un po’ dell’antica saggezza che conosco ormai bene e che so essere apprezzata anche da te. Ti ho portato…» disse, scoperchiando il cesto dal canovaccio che ne teneva celato il contenuto. «… delle uova!»

«Oh, ma che meraviglia! E quante!» ho esclamato strabuzzando gli occhi. Per tutti i ratti grassi e matti! Per tutti i conigli selvatici e le lepri montane! Ce n’erano davvero in abbondanza: grandi, piccole, bianche, decorate, sode… di tutti i tipi, insomma.

uova sode

«Sai bene a quale festività gli umani si stiano avvicinando, giusto?»

Ho annuito: «La Pasqua, certo. E le uova sono proprio un simbolo di questa festa. Non le hai portate a caso, proprio com’è nel tuo stile».

uova pasqua

«Esatto, Pruna. L’uovo è un simbolo importante, assai utilizzato nell’antichità. Rimanda alla rinascita di questo periodo dell’anno, è un augurio di prosperità, fertilità e abbondanza, ma racchiude anche molto, molto di più…»

uova gusci

Ha preso un uovo dalla cesta e io ero già rapita dalla sua voce che sapeva sempre intessere storie meravigliose e incredibili, poi ha continuato:

«L’uovo, non avendo spigoli, è considerato senza inizio né fine, caratteristica che lo rende simbolo della perfezione divina. Per molte popolazioni antiche fu un uovo a generare l’intero Universo, con il tuorlo, simbolo solare e maschile di forza e vigore, e il bianco albume, che riassumeva le caratteristiche del liquido amniotico e, quindi, del femminile.»

tuorli e albumi

«Questa non la sapevo, devo ammetterlo. Molto interessante.»

«Ogni essere vivente nasce da un uovo, ci hai mai pensato?»

«Be’…» mi sono portata una zampa al mento, corrucciando lo sguardo. «I mammiferi generano da un ovulo fecondato e la stessa placenta nel grembo materno assume la forma di un uovo. E poi… insetti, pesci, uccelli, rettili e anfibi nascono da uova.» All’improvviso mi sono illuminata: «In effetti, anche le piante germogliano dalla schiusa di semi, che hanno forma… ovoidale!».

«Brava, Pruna, è proprio così. Ecco spiegata gran parte dell’importanza che nelle epoche passate veniva attribuita a questo contenitore di vita» proclamò, rimettendo l’uovo nel cesto. «Numerose filosofie e religioni antiche attribuivano a un uovo l’origine dell’intero Universo, alcuni popoli usavano porre un uovo nelle sepolture come augurio di rinascita e come simbolo di vita contrapposto alla morte.»

uovo cesto

Ero rapita dalla sua voce, come accadeva sempre quando veniva a trovarmi. L’ho lasciata continuare, non volevo interrompere il suo interessante racconto. Ha afferrato un uovo colorato d’oro e lo ha tenuto dritto davanti a lei mentre proseguiva:

«Per gli alchimisti è il recipiente simbolico che permette di fabbricare la Pietra Filosofale.»

uova bianche

«La promessa di vita eterna, quindi?»

«Sì, l’immortalità. Al termine della Grande Opera Alchemica di trasmutazione dal piombo in oro, dall’uovo schiuso si leverà la leggendaria Fenice e con essa l’anima finalmente libera dell’adepto. Al termine dell’opera alchemica, dunque, è da un uovo che esce l’uomo spirituale, completo e rinnovato, un uomo che fino ad allora era rimasto incubato nell’attesa di essere liberato in una nuova dimensione che trascende l’individualità e che si pone al servizio dell’umanità. La schiusa dell’uovo, quindi, corrisponde alla sua rinascita.»

uovo rotto

«Be’, niente di molto lontano dalla resurrezione cristiana, quindi» osservai.

«Hai fatto centro, Pruna! Stessa simbologia, proprio così. L’uovo racchiude in sé la realizzazione suprema data dalla consapevolezza di essere altro, di poter vivere nell’unione anziché nella separazione. Per gli alchimisti simboleggiava l’essere umano purificato e risorto a nuova vita, proprio come per i cristiani rappresenta la resurrezione del figlio di Dio, il Cristo risorto.»

uova sode2

«Ed eccoci arrivate, quindi, all’imminente Pasqua…»

«A proposito della Pasqua, come sai cade ogni anno nel segno zodiacale dell’Ariete, con il quale inizia il nuovo anno astrologico che nell’antichità coincideva  spesso con l’inizio dell’anno legale. L’Ariete, con la sua forza tutta primaverile, spalancava – e spalanca ancora – le porte di un nuovo ciclo vitale, è simbolo della forza creativa che si rispecchia in Madre Natura. L’Ariete, con il suo impeto vitale, rompe gli involucri dei semi facendone scaturire la vita, fora il terreno permettendo alle piante di uscire finalmente in superficie e apre le corolle dei fiori. Insieme all’Ariete, l’uovo continua a essere simbolo di questa “uscita” a nuova vita.»

hepatica nobilis

«È tutto perfetto, insomma! E, ora che ci penso, anche in Valle Argentina ci sono tradizioni legate al periodo pasquale che prevedono l’uso delle uova… Al Santuario della Madonna del Ciastreo, per esempio, a Corte, intorno alla domenica di Pasqua si benedicono le uova sode durante la funzione religiosa e poi si consumano in compagnia nel cortile del santuario, lasciando che la terra si nutra con i gusci sbriciolati.»

santuario madonna ciastreo corte

«Ecco, infatti come sai è usanza da sempre regalarsi uova, in questa festività. Credo che tu, ora, possa comprendere il significato celato dietro questo gesto, un significato andato ormai quasi del tutto perduto, ma il gesto è sopravvissuto fino ai giorni nostri.»

«Stando a quello che mi hai detto, regalare uova è un grande augurio di rinascita per la persona alla quale si regala. Un augurio meraviglioso, direi, accompagnato anche dalla stagione appena nata nella quale ci troviamo!»

uova decorate

Maga Gemma ha annuito soddisfatta, poi ha sfoderato un sorrisetto vispo che di rado le ho visto sul viso: «E secondo te, cara Pruna, perché ti avrei portato un cesto traboccante di uova?».

A quella domanda retorica ho spalancato gli occhi: «Grazie infinite, Maga Gemma! E’ un regalo meraviglioso, davvero molto, molto gradito! Che bel cesto colmo di rinascita mi hai portato! Ma perdonami, ho una cosa da chiederti e non accetto rifiuti.»

«Va bene, non rifiuterò allora. Dimmi tutto, Pruna.»

«Condividiamole insieme: se, come mi hai insegnato tu, i simboli sono così importanti e agiscono su di noi, voglio che la rinascita portata da tutte queste uova sia anche tua, Maga Gemma!»

«E sia!»

E così, topi miei, ne abbiamo imparata un’altra anche oggi. Ce ne siamo restate a mangiare uova sode e di cioccolato e a chiacchierare per tutta la sera. Sono proprio contenta quando la Maga mi viene a trovare. E a voi, fedeli amici, dono virtualmente un altro cesto di uova, un cesto a ciascuno di voi che mi seguite sempre con affetto, e vi auguro una meravigliosa, ricca, strepitosa rinascita!

Un bacio di cioccolato a tutti.

Stelle e granelli di sabbia

«Metuccu, come può essere possibile che in cielo ci siano davvero molte più stelle che granelli di sabbia sulla terra?» chiesi incredula al mio amico astronomo, Metuccuecuje, lo stercorario della Valle Argentina che vi avevo fatto conoscere qui.

«Perché il cielo è infinito, la terra no» mi rispose lui laconico come sempre e dando per scontato un pensiero che io, così piccola, quasi non riuscivo a sostenere.

Quel rebattabuse era pessimista, sfigato e triste, ma quando guardava la volta celeste, sua grande e vitale passione, diventava un malinconico poeta che incantava. Lo ascoltavo mentre dettagliava minuziosamente quell’oscurità autunnale.

«Ah! Splendida Betelgeuse…! Orione… i Gemelli, il Toro con Aldebaran… guarda, Prunocciola: le Pleiadi!»

Finalmente un po’ di luce in quegli occhi scuri. Era affascinato e mi traduceva ciò che l’universo attorno a noi stava mostrando in quel periodo dell’anno e a quell’ora della notte.

Continuò tornando al discorso precedente: «… dieci volte tanto!».

«Cosa?» gli domandai, non seguendolo.

«Uff… Se si considera che, grossolanamente, solo nella nostra galassia (la Via Lattea) ci sono all’incirca duecento miliardi di stelle e che, in base ai “deboli” calcoli umani, di galassie nell’universo potrebbero essercene intorno ai cinquecento miliardi… ti basta fare due conti e poi moltiplicare il tutto all’infinito tenendo conto che l’essere umano crede, ma difficilmente è come crede lui… te’ pà (ti pare)…»

Sì, ehm… Metuccu aveva un’idea tutta sua sull’uomo che rare volte apprezzava.

In effetti, atmosfera permettendo, solo nel piccolo spicchio della mia Valle, a volte, potevo notare un’infinità di puntini luminosi da far sgranare gli occhi! Dove l’inquinamento luminoso non infastidisce e non impedisce tali visioni, il cielo notturno della Valle Argentina è davvero splendido.

«Oh! Sirio!» continuava lui, rapito.

«Si vedono solo stelle?» domandai.

Mi rispose prontamente, ma senza fare un lungo elenco: «No… ti nu capisci ren (non capisci niente) puoi vedere anche il pianeta Venere in questo periodo, ma non a quest’ora e anche Mercurio, più difficoltoso da ammirare».

Parlava come a recitare una cantilena e la sua voce mi incantava.

Ogni tanto abbassavo gli occhi a terra e guardavo, nonostante il buio, quella sabbia sulla quale poggiavano le mie zampe. “Come siamo piccoli” dicevo tra me e me con parecchi punti interrogativi nella testa. Una mia sola zampetta, grande poco più di un fiammifero, ricopriva a occhio e croce quasi cento minuscoli granellini… e non oso pensare ad una spiaggia! No, non riuscivo proprio a stare dietro tutta quella immensità e mi sentivo sempre più piccola.

Come a leggermi nel pensiero, il mio amico si lasciò scappare una delle sue tante frasi “felici”: «Nu sulu i ommi, mancu i ratti i g’arivan (non solo gli uomini, nemmeno i topi ci arrivano)», come se anch’io, come gli umani, fossi stata colpevole di non riuscire a immaginare tanta grandiosità. Cercai di migliorare la mia situazione ai suoi occhi:

«Oh! Metuccu! E’ tutto così bello che sembra un sogno! Cioè… so che è vero ma…»

«E meno male che sogni, Topina! Altrimenti invecchieresti immediatamente fino a morire nel giro di poco tempo. Sogna, continua a sognare…»

«Ehm… certo Metuccuecuje, certo! Lo farò!» gli dissi facendo le corna con una zampa dietro la schiena.

«Beh, ora vado, ho da lavorare»

«Ma… a quest’ora della notte?» gli chiesi.

«Eh! A sun sempre ca travaju ti nu-u veiUff(Eh! Sono sempre che lavoro non lo vedi?)»

Lo salutai senza discutere oltre e a voi, invece, mando un bacio piccolissimo come un granello di sabbia ma splendente quanto una stella!

Grazie a Massimo Splendori, astrofilo, per la concessione di due sue immagini.

Cloristella ha un rimedio per lo stomaco

Topi, io lo so che qualche volta esagerate con le abbuffate. Poi le feste si avvicinano e quindi ho deciso di chiedere alla mia strega di fiducia un rimedio per voi.

Cloristella mi accoglie nella sua casa, circondata da volute di vapore.

«Ehi Cloristella! Che stai combinando? Sembra di essere in una sala da bagno!» la saluto entrando e sbattendo le palpebre per schiarirmi la vista in tutta quella nebbia.

«Ciao, cara Prunò! Mi spiace per il vapore, ma il profumo è buono in fondo, no?»

«Sì, certo, certo! Ascolta… son venuta fin qui nel tuo… ehm… bastione, a chiederti un rimedio ai problemi di digestione» le dico, tentando una rima forzata.

Lei ride con quella sua voce cristallina e mi risponde: «Certo che sì, topina Prunò: seguimi fuori, te lo mostrerò».

La seguo fiduciosa nel giardino intorno alla sua dimora. Mi porta vicino a un bellissimo Limone, si ferma alle sue radici e si porta una mano al petto e chiude gli occhi: «Posso prendere uno dei tuoi frutti?».

limone

Una folata di vento fa chinare la chioma dell’albero: ha dato il suo consenso. Non dovete meravigliarvene, topi: succede spesso a chi sa ascoltare la voce della Natura. Cloristella, allora, stacca un frutto dall’albero, poi dice: «Grazie per questo dono, amico mio», infine si rivolge a me: «Questo frutto è una gemma preziosa, Prunò. Vedi il suo colore?».

Annuisco e dico: «Sì, è quello del sole».

«Esatto!» esclama, facendo un saltello.  «Il limone dona i suoi frutti tutto l’anno, proprio come il sole che non ci abbandona mai, se non per il breve periodo notturno. E’ giallo come la luce, e la luce è vita: senza di essa non esisterebbe nulla. Oggi dobbiamo chiedere a questo limone di usare la sua luce per far stare meglio chi soffre di problemi di stomaco e di digestione. Vieni con me, torniamo dentro.»

Mi porta in casa e veniamo avvolte di nuovo da volute di fumo profumato. Cloristella posa il limone sul tavolo, poi prende un barattolo colmo di foglie essiccate da uno dei suoi scaffali. Lo apre e ne prende una, poi la mette vicino al limone.

decotto problemi digestione

«Ecco qui l’alloro! Gli antichi Greci credevano fosse sacro al dio Apollo… era il dio del Sole.»

«Ecco perché lo hai messo vicino al limone: hanno tutti e due lo stesso significato» dico, sapendo che nessuno dei gesti di Cloristella è compiuto per caso. Lei conosce ogni significato legato alla gestualità e alla simbologia.

«Proprio così, topina»

Sciacqua il limone sotto il getto della fontana, poi prende un tagliere e taglia a metà il frutto. Subito dopo toglie la buccia con il coltello:

«Bisogna fare attenzione a non grattare via la parte bianca del limone, perché quella che ci serve oggi è solo la scorza gialla» mi spiega.

Una volta finito quel lavoro, mette la buccia dentro un pentolino insieme alla foglia e riempie il recipiente di acqua. Accende il fornello e ce la mette sopra con il coperchio.

decotto problemi digestione1

«Chi ha dolori allo stomaco, siano essi dovuti a problemi di cattiva digestione o ad altro, ha bisogno di un po’ di aiuto da parte del sole. Siamo fatti per gran parte di acqua, ecco perché la usiamo per questo rimedio e per tanti altri: il limone e l’alloro, danzando nel liquido che ci costituisce, fanno in modo che l’acqua raccolga le loro proprietà per trasmetterle al malato. L’acqua memorizza, raccoglie e trasmette, guarendo. Questo decotto è miracoloso per la nausea, ma anche per i problemi di digestione e gonfiore. Deve bollire per dieci minuti, poi andrà filtrato. Va bevuto caldo e si deve aspettare qualche minuto perché faccia il suo effetto, è davvero portentoso!»

«Quindi, per una sola persona, sono necessarie una foglia secca di alloro, la buccia di mezzo limone non trattato e dell’acqua?»

decotto problemi digestione2

«Esatto! Ah, per l’alloro il periodo balsamico per la raccolta delle foglie da essiccare è luglio-agosto. Se le si raccoglie in quel periodo dell’anno, è ancora più efficace!»

«Grazie per questo rimedio, allora!»

«Di nulla, cara Prunò» dice, porgendomi la tazza fumante.

Bevo il decotto, poi saluto Cloristella e me ne torno in tana a scaldarmi le zampe.

Un saluto digestivo a tutti!