Il torrone viaggiatore e l’arte della lentezza

Ma che ve lo dico a fare, topi? Le feste si avvicinano e in tana è tutto un affaccendarsi e uno spandersi di dolci profumi tipici di questo periodo dell’anno. E allora m’è venuto in mente che non vi ho mai parlato di un torrone molto speciale, dalla storia particolare.

Pare, infatti, che la ricetta sia originaria di Agaggio, ma che il “magico” e “segreto” procedimento per realizzarlo fosse in mano a una signora che vendeva questo dolce tipico della Valle fino a Badalucco. Tuttavia, visto che la frutta secca costava assai cara e, di conseguenza, anche il torrone aveva prezzi elevati per i poveri topi che un tempo abitavano in Valle Argentina, alla fine le donne dei paesi si ingegnarono e presero a fare in autonomia questo antico torrone, la cui ricetta è giunta nelle zampe della vostra adorata topina (chi altri, sennò?) e, guardate un po’… siccome non ho nessuna intenzione di vedermi recapitare dalla Befana un vagone di nero carbone (perché poi lo so che mugugnate se non v’accontento, e i mugugni li sente pure lei dall’alto della sua scopa volante), ho deciso di condividerla con voi.

Sono o non sono una brava topina? Bene, e allora cominciamo!

Il torrone in questione si produce oggi con noci e mandorle, che lasciano al piatto il tipico sapore dolce-amaro. Bisognerebbe prepararlo in una casseruola di terracotta, poiché questo contenitore trattiene meglio il calore degli ingredienti, permettendo poi di stenderli meglio tra i due strati di ostia, che bisogna procurarsi preventivamente.

Si prende allora un bel tagliere di legno e si cosparge con una spolverata di fecola di patate o di mais, sulla quale andrà adagiato il primo strato di ostia, cosicché non si attacchi alla superficie sottostante.

La frutta secca va sgusciata, pulita e tritata grossolanamente, poi la si mette da parte. Si prediligono le noci, ma nessuna vieta di sostituirle con le nocciole, insieme alle mandorle.

Questo è il momento anche di preparare le bucce dei mandarini (non trattati) che danno un tocco in più al torrone, dandogli un gusto d’agrumi tipicamente invernale e festivo. Le bucce vanno private della parte bianca, chiamata albedo, e si grattugia finemente.

A questo punto, nella casseruola bisognerà far andare il miele, portandolo a ebollizione, dopo di che si abbasserà la fiamma e lo si lascerà cuocere per 30-40 minuti, a seconda della densità del miele scelto, controllandolo spesso. Trascorso un po’ di tempo, bisogna procurarsi un piccolo recipiente d’acqua fredda e lasciarvi cadere una goccia di miele caldo: questa operazione andrà ripetuta con frequenza, fino a quando la goccia di miele non si rapprenderà all’istante all’interno dell’acqua fredda. Il procedimento che vi ho descritto, infatti, ci indica il momento giusto in cui il miele sarà pronto ad accogliere la frutta secca, che andrà amalgamata al composto.

Trascorso il tempo di cottura, si aggiungono le bucce di mandarino tritate e si mescola bene con un cucchiaio di legno, poi si stende tutto sulla sfoglia d’ostia il più velocemente possibile, altrimenti il miele e la frutta secca non aderiranno alla superficie dell’ostia e ne rimarranno slegati. Lo strato di miele e noci deve essere alto circa mezzo centimetro, e deve essere ben livellato, poi vi si pone sopra immediatamente l’altra sfoglia di ostia.

torrone2

E qui viene il bello, topi! No, perché io vi vedo, sapete? Sarete già lì con l’acquolina in bocca che rischierà di finire dritta dritta tra gli ingredienti del vostro capolavoro… ma non sarà ancora tempo di gustarlo, nossignori! Che tortura alle papille gustative, che supplizio! Bisognerà mettere un peso sopra il torrone e attendere finché il dolce non sarà completamente freddo, prima di rimuoverlo. Andrà fatto raffreddare per ben otto ore (sempre che resistiate al profumino che a quel punto avrà invaso tutta la vostra tana e, magari, anche quella dei vicini), poi potrà essere tagliato e gustato.

Negli anni in cui ogni cosa è sempre più veloce e si ricerca la soluzione più pratica per non rinunciare ai dolci delle feste, io sono qui a proporvi una ricetta antica e che di antico ha anche i tempi lenti di preparazione, oltre che i sapori. Perché le tradizioni sono belle da tener vive, buone da condividere e perfette da tramandare.

torrone

Ringrazio di cuore Gianna per questa ricetta, insegnatale da suo papà, e a voi auguro delle feste all’insegna della dolcezza.

A presto!

La bazua spaventata ritira l’incantesimo

Oggi vi racconto un’altra storia, accaduta davvero, nella mia Valle, molto tempo fa.

Siamo nei dintorni di Casa Cuumbeia (Columbera) e ci troviamo nel piccolo paese di Agaggio.

Nonna Rosa aveva da poco partorito una splendida bambina sana, paffuta e rosa come una pesca, affettuosamente chiamata Netin, diminutivo di Anna.

Quella bimba era l’orgoglio di mamma e papà e riceveva sempre molti complimenti da tutti gli abitanti del posto perché aveva un visino bellissimo ed era anche quieta e serena.

Tra quelle persone però, viveva anche una vecchia, che trascorreva la sua vita isolata dalla comunità ed era conosciuta come una signora un po’ strana. Tutti la chiamavano “la bazua” e cioè “la strega”.

Un giorno, questa vecchia, bloccando il passo a Rosa, si avvicinò alla piccola neonata e, con fare malizioso, la accarezzò e le fece diversi complimenti. La Nonna rimase un po’ turbata da quell’incontro ma non ci fece caso più di tanto. Continuò a passeggiare con la sua piccola e poi rincasò.

Quella stessa sera la bimba iniziò a piangere senza nessun motivo e non ne voleva sapere di attaccarsi al seno materno per nutrirsi. Un comportamento che non era certo da lei, sempre allegra e tranquilla. Nonna Rosa iniziò a preoccuparsi un po’ e, quando giunse a casa suo marito, Nonno Augustin, gli raccontò dell’incontro con la vecchia bazua.

Il buon Augustin, dopo aver osservato la situazione e soprattutto quel comportamento anomalo della figlioletta, non ci pensò due volte. Guai a toccargli la famiglia.

Uscì per strada e si diresse immediatamente verso la dimora della strega. Un tempo nessuno chiudeva a chiave la porta di casa, anzi, la chiave veniva lasciata addirittura nella toppa e quindi, quell’uomo, risoluto e arrabbiato, poté piombare nella cucina della megera senza neanche chiedere il permesso. Convinto di avere tra le mani la colpevole del disagio di sua figlia, la prese per il collo e senza delicatezza alcuna le disse《Cos’hai fatto a mia figlia?!》 ma senza neanche aspettare risposta continuò《Vedi di porre subito rimedio altrimenti io…》

La donna, spaventata da tanto impeto, non gli lasciò neanche finire la frase e cercò subito di rassicurarlo dicendo 《 Torna pure a casa! Da questo momento la tua bambina sta bene! 》

Infatti, quando Nonno Augustin tornò a casa, la sua piccola stava bene. Aveva mangiato e ora dormiva serena sognando meraviglie.

Ancora una volta vi chiedo: coincidenze? Realtà? Suggestione? Superstizione?

Non si sa e non si saprà mai ma così andò.

Gli avvenimenti, oggi racconti, pieni di mistero, sono sempre esistiti nella mia Valle. Oggi non se ne sentono più. Come se non accadessero più ma c’è qualcosa ancora, come un velo sottile, che aleggia su questi luoghi e che non intende far dimenticare.

La magia, l’atmosfera, le circostanze di una Valle magnifica, resa ancora più ricca e suggestiva anche da chi, prima di noi, l’ha abitata.

Spero vi sia piaciuta questa storia e ringrazio la mia amica Vale per avermela raccontata.

Vi aspetto per il prossimo misterioso racconto di malocchio, fatture e rimedi che riguardano una cultura antica. A volte una medicina popolare, a volte tradizioni e usi, a volte, invece, il coraggio di chi, per difendere la propria famiglia, affronta anche le streghe. Ma che potere queste bazue!

Un bacio da brivido!

La sposa fantasma di Agaggio

Giorni fa mi trovavo vicino alla radura nella quale abita Nonna Desia. Non tutti la conoscete, ma è una nonnina speciale, una lastra di nera ardesia conficcata nel bel mezzo di uno spiazzo contornato da alberi chissà da quanto e chissà da chi. E, come ogni nonna, ha sempre molte storie da raccontare, alcune antichissime.

Nel vedermi arrivare, le rughe della sua superficie si distesero:

«Oh, ratin! La mia Pruni! Sei proprio tu? Da cantu tempu ca nu te veggu! Ti te sei faita ciù grande, eh! (Da quant’è che non ti vedo! Sei cresciuta, eh?»

Che volete farci? Nonna Desia è fatta così, come ogni dolce anziano dimentica che sono cresciuta già da un po’, ma non glielo do a vedere: «Sì, sono io, nonna! Ho gironzolato tanto in questi mesi e la tua radura era sempre piena zeppa di neve. Finalmente posso venirti a trovare senza congelarmi le zampe e i baffi. Hai sentito qualche storia interessante, di recente?» le domandai, sedendomi di fronte a lei sbucciando delle fave e gustandole con piacere.

«Oh, sì! Una storia davvero spaventosa. Ma non sono sicura che sia stato di recente… è un racconto un po’ datato… cumma sun mì (come me)»

«Allora avanti, nonna. Ti ascolto!» la esortai.

Si schiarì la voce antica e iniziò a raccontare.

Agaggio Valle Argentina

«A ghea ina vota (C’era una volta) una signora di nome Anna. Suo padre era agaggìn (di Agaggio), sua madre di Triora. Anna crebbe nell’antica casa appartenuta alla sua famiglia, ai Casoni, e, proprio come me, raccontava sempre delle storie ai suoi nipoti che andavano a stare da lei per le vacanze. Non c’era la televisione, ad Agaggio, e così i topini ascoltavano rapiti i suoi racconti spaventosi.»

«Ah, quindi non parliamo di tempi lontanissimi! Sono fatti recenti, quelli che mi stai raccontando» la interruppi.

«Cu ti vœi ca ne sacce, belu ratin, nu so cose ditte. E aù? Dund’a l’è ca l’eu restà? Ti mai faitu scurdà tütu… (Che vuoi che ne sappia, topina, non ti so dire. E ora? Dov’ero rimasta? Mi hai fatto scordare…)»

La aiutai a ritrovare il bandolo del discorso e Nonna Desia riprese: «A Cuumbea (la Colombera), la casa di Agaggio di Anna, si trova a mezza costa, sotto la Rocca della Croce. E’ un luogo isolato, dietro un castagneto, e la circondano fasce coltivate e ulivi. Sotto la Cuumbea c’è ancora oggi una fontana che somiglia molto a una grotta. Ratin, oggi non funziona più… Cuscì i man diitu, mi a sun chì, a nu possu bugiamme, ti u sai (così mi hanno detto, perché io son qui, non posso muovermi, lo sai). Quella fontana è stata riempita di pietre e Anna sapeva perché…»

orto Agaggio

Nonna Desia fece una pausa lunga, spingendomi a chiederle: «Be’? Perché era stata riempita di pietre?».

«In mumentu, ratin! Mi a nu me regordu! (Un attimo, topina! Non mi ricordo!)»

Santa Ratta! Volevo sapere come finiva la storia… Proprio quando iniziavo a disperare, Nonna Desia sussultò: «Sì, ecco! Anna aveva un antenato. U l’ea (era) di Marsiglia, ma la città era ancora italiana, e si trasferì ad Agaggio con la sua famiglia. Aù a nu me regordu cumme u se ciamasse, ma u g’ajeva ina fia zuena (non mi ricordo come si chiamava, ma aveva una figlia giovane), promessa a un ragazzo di Marsiglia. Era molto innamorata del suo futuro sposo, tanto da respirare solo in funzione del matrimonio che si sarebbe svolto a breve. Soffriva della lontananza, bela garsunetta, và… (bella figlioletta, va’) ma il suo promesso gli assicurò che non appena si fosse trasferito ad Agaggio, si sarebbero svolte le nozze. Passò tanto, tanto tempo, ma del giovane non vi era traccia. Dopo anni, giunse infine una lettera dal futuro sposo, ma ahimé le novità che portava non furono rosee. Infatti, scriveva di essersi innamorato di un’altra donna, con la quale nel frattempo era convolato a nozze. Il giuramento fatto alla zuena agaggìn, dunque, fu spezzato e con esso il cuore della fanciulla.»

bouquet

«Oh, che storia triste mi racconti, nonna!»

«Stà brava prima ca me scordu a parte ciù impurtante! A nu l’è miga finia chì! (Fai silenzio, prima che mi scordi la parte più importante, non è finita qui)» mi rimproverò bonaria, poi continuò. «La ragazza cadde in depressione, come c’era da aspettarsi, ma non si limitò a chiudersi nella sua disperazione. Una notte di plenilunio abbandonò la casa paterna e si lasciò cadere nel pozzo, dove annegò con il suo dolore. Pora garsunna! E poru pae! Me pà ancua de sentinne i cianti! (Povera figlia! E povero padre! Mi pare di sentirne i pianti) In famiglia impazzirono a cercare la poverina e, quando la trovarono annegata, videro che aveva indosso il caro abito da sposa che si era cucita lei stessa con amore e cura infiniti. Tutto il paese fu turbato da quella tragica vicenda e il padre fece prosciugare il pozzo e lo riempì di pietre: non ci sarebbe stata acqua, e quindi vita, in un luogo che era stato cornice di morte.»

«Terribile, davvero! Ma… e Anna?» domandai con un filo di voce.

storie fantasmi

«Anna ha detto di aver visto una volta il fantasma della sposa infelice. Appare nelle notti di luna piena e se ne sta lì, in piedi davanti al pozzo, col volto coperto dal velo candido. Anche suo padre e suo nonno hanno visto lo spettro.»

«Brrr! Questa storia mi ha messo i brividi, Nonna.»

«Quale storia?»

Strabuzzai gli occhi: «Quella che mi hai appena raccontato!»

«Io? Ma se hai parlato solo tu finora! Ah, ratin, ti te deverti a famme i schersi? (Ah, topina, ti diverti a farmi gli scherzi?)»

E così, topi miei, Nonna Desia ha presto scordato la storia di Anna e dei suoi antenati, ma io no e la racconto a voi come testimonianza spettrale della mia Valle. E’ stata Vale a raccontarla a Nonna Desia e, grazie a lei, ora la conoscete anche voi.

Un bacio da brivido a tutti.

 

Qui e là attorno a Aigovo e Carpenosa

Si arriva presto ad Aigovo e a Carpenosa, compagni da una vita. Pungenti come l’aria frizzantina che li accarezza, gentili come la pace che regna su di loro. Dal mare si tratta solo di quindici/venti minuti di strada. Sono due frazioni attorniate dai monti della mia Valle che tutti conoscono, situati subito dopo l’abitato di Badalucco.

Sopra di loro c’è San Faustino, un altro piccolo borgo che dall’alto del suo esistere, si guarda negli occhi con Glori.

Aigovo e Carpenosa, “il bivio”, dove arriva la SP 21bis, luoghi che divennero celebri qualche tempo fa, quando c’era l’intenzione di chiudere la strada per costruire una grande diga. Come raccontai in questo articolo,  venne realizzata un’altra strada, superiore, comunque utilizzata ancora oggi nonostante al lago artificiale non diedero mai il – Via! -.

Aigovo e Carpenosa, inseparabili, sono la porta di accesso per Agaggio Inferiore e, mostrando meno case di quest’ultimo, più paese. Hanno da offrire tanta natura bagnata dal Torrente Argentina che, nelle sua discesa a curve cieche, si mostra impetuoso e quasi trasparente. Molti, però, sono anche i tratti in cui si allarga, raddrizza e si mostra in tutto il suo splendore. Con i suoi fondali di ciottoli e tane, la sua sabbia grigia, i suoi massi chiari, le sue sfumature verdi come la giada.

Tanti i colori delle piante, in qualsiasi stagione, perché numerose sono le specie. E molte di loro stanno aggrappate alle rocce sotto strada.

Anche alcune dimore si trovano a strapiombo sul fiume ma non c’è molta distanza tra loro e quell’acqua fredda come il ghiaccio.

Un fiume attraversato un tempo da ponti in pietra, antichi, lunghi e stretti, oggi ricoperti dalla natura a imitare sentieri perduti nel bosco.

Qui, in questa umida conca della Valle Argentina. Passaggio obbligatorio per chi sale e per chi scende. Passaggio che collega il mare alle montagne.

Aigovo e Carpenosa, la brezza in mezzo ai monti pettinati. Le aperture del terreno, coltivate a vigna, fin dove si perde lo sguardo. Il verde vispo delle terrazze ordinate e lo spogliarsi degli alberi da frutta. Gli spazi vellutati, come prati a bordo strada.

I casoni che riportano a tempi che furono e, tutt’intorno, il creato sovrastato da un cielo limpido. Tinte bruciate al sole, spente dalla bruma, accese dalla stagione. I mutamenti della natura sono ben visibili qui, dove gli occhi possono viaggiare in lungo e in largo nei dintorni di questi luoghi, zona d’arrivo della strada antica.

I campi coltivati, il bosco selvatico e, col naso all’insù, ecco le cime dei monti che si mostrano austere e ci abbracciano. Come i cedri attorno alla piccola Chiesa di San Faustino, così chiamata proprio come la manciata di case sopra la nostra testa, sul crinale a Ovest.

Siamo a 626 mt s.l.m. e, alcuni tratti che possiamo guardare, hanno già qualcosa di selvaggio.

Qui, un sentiero che porta verso San Zan (San Giovanni) condurrà fino a Monte Ceppo, passando per Colla Bracca. Dovrò farlo un giorno questo tour e portare anche voi.

Ora, però, mi godo ancora questa pace, questa flora e questa atmosfera che solo Aigovo e Carpenosa sanno regalare. Come sanno regalare anche un delizioso torrone, proprio tipico di questi borghi. Ma questa è un’altra storia e sarà un altro articolo.

Un bacio topi!

Il valore della Valle

Topi miei, sabato 9 giugno, come chi mi segue su Facebook saprà, si è tenuto a Molini di Triora un evento davvero molto bello organizzato da Legambiente, la pro-loco e il Comune di Molini. Il titolo della manifestazione era già tutto un programma: Il valore della Valle, che giungeva alla sua seconda tappa dell’iniziativa Carovana delle Alpi.

Un impegno notevole, quello degli organizzatori, che ha dato i suoi frutti nel riscontro positivo delle partecipazioni.

Il valore della Valle è stato toccato con mano da tutti coloro, me compresa, che hanno potuto percorrere l’itinerario proposto alla scoperta dei sapori, delle tradizioni e della storia di un paese che ha tanto da offrire, di una comunità che sa mettersi in gioco con impegno, per mostrare il lato più bello di sé.

Si è trattato, almeno per la prima parte della giornata, di un percorso itinerante che per me è iniziato lungo il torrente  Capriolo, là dove fino a pochi anni fa si trovava il Laghetto dei Noci, spazzato via dalle alluvioni che colpiscono la mia terra in modo sempre più frequente. Ci si sta attivando per ripristinare questo bene prezioso di tutta la comunità molinese e, nel frattempo, il primo passo verso la rinascita di questo simbolo del paese è rappresentato da un luogo raccolto ed emblematico: Il Mulino Racconta.

il mulino racconta molini di triora

Dico emblematico perché si respira la volontà di riportare le bellezze del passato ai giorni nostri, di ritrovare quella connessione con le origini che col tempo è andata perduta. Si racconta che, ai suoi tempi d’oro, Molini possedesse ben 23 mulini, le cui ruote giravano grazie alla forza dell’acqua, elemento base e fondamentale per tutta la Valle. E poi vi si macinava il grano, presente in abbondanza sulle fasce di tutto il territorio, ma in particolare di quello triorese, che fu addirittura granaio della Repubblica di Genova.

Il mio percorso, topi, è iniziato proprio lì, in quel Mulino in cui mi sentivo come a casa mia. Insieme ad altri compagni d’avventura, sono stata accolta da Claudia Aluvisetta, psicologa, che ci ha introdotti nel Viaggio dell’Eroe alla scoperta della propria identità. I viaggi, si sa, trasformano, e noi siamo stai invitati ad aprirci al cambiamento che quel tour avrebbe suscitato in noi. Le pareti del Mulino, con le sue scale dai gradini ripidi e le sue salette interne, erano costellate di fotografie provenienti da ogni dove che avevano come comune denominatore il tema dell’acqua.

 

Acqua che scorre, acqua stagnante, acqua che lava, che scava, che leviga… Ma anche acqua che nutre, che ritempra, che dona vigore agli occhi di chi la osserva e la tocca. Che elemento meraviglioso! Senza di essa, non esisterebbe la Vita, neppure la nostra esistenza sarebbe possibile.

E l’acqua è uno dei principali ingredienti di un cibo importante, che ci ha condotti alla seconda tappa del tour: il pane. Entrati nel forno di Molini, siamo stati accolti da Roberto Capponi e dal profumo inconfondibile di questa prelibatezza che è il Pane di Oz. Lui e Simona ci hanno spiegato la composizione del forno, il procedimento di lievitazione e di cottura di un pane antico e rinomato, ma questo, topi miei, richiederà un articolo a parte. Posso solo dirvi che, tra i prodotti presentati  sabato, ho avuto l’occasione di assaggiare un pane realizzato esclusivamente per quel giorno speciale, nel cui impasto erano presenti lavanda e miele. Era tanto buono da togliermi gli squittii di bocca, tutta intenta com’ero a passarmi quel bocconcino da una guancia all’altra per assaporarlo il meglio possibile.

forno Pane di Oz Molini di Triora

Lasciato il forno, ci siamo diretti nel cuore di Molini, là dove si trova una delle numerose perle nascoste del paese: Casa Balestra. Quanta storia, tra quelle mura! Si respira, è tangibile e permea ogni cosa. E’ un’antica dimora adibita a museo risalente all’Ottocento, e percorrendo le sue sale mi guardavo intorno come fossi ancora una piccola topina, con gli occhi luccicanti per l’emozione. Tutto parla, dentro quella casa. Ogni oggetto, ogni cimelio di famiglia avrebbe qualcosa da raccontare, ma il tempo stringeva, tornerò un’altra volta con la dovuta calma, per fermarmi a raccogliere e a fare tesoro di tutte le ricchezze che si trovano al suo interno. La stalla dell’asino e della pecora sa di tempi antichi, così come le sale e le camere da letto, che pullulano di ricordi legati alla guerra, ma che testimoniano anche una cura nei dettagli e l’amore per l’arte in tutte le sue forme.

 

E qui, dislocate tra il primo piano, il secondo e la terrazza, abbiamo incontrato nuove guide di questo viaggio eroico alla scoperta dei segreti di Molini. Mario Marino ci ha introdotto all’aromaterapia e alla sua importanza nella guarigione di patologie talvolta anche importanti. Parlando di aromaterapia, è sorto spontaneo il collegamento con un’azienda storica della mia Valle, l’Antica Distilleria Cugge, che da generazioni coltiva la Lavanda angustifolia dividendosi tra Agaggio e Drego, a 1200 metri di altitudine.

idrolato antica distilleria cugge valle argentina agaggio

E l’ho incontrata, una delle due sorelle Cugge, ho avuto finalmente il piacere di sentire la sua voce mentre enumerava le virtù di questa pianta, ampiamente utilizzata anche in tempi antichi in tutta la Valle Argentina. L’olio essenziale che estraggono dai fiori ha un profumo intenso e fresco, inalarlo dona un senso di pace e tranquillità. Tuttavia c’è un altro fiore la cui coltivazione è stata recuperata di recente, in diverse zone della Valle: lo Zafferano.

zafferano Clorìs Glori

Quant’è buono, amici topi! Luca Papalia, volenteroso giovane di Glori, lo coltiva con passione e dedizione infinite. Avete idea della pazienza che ci voglia nel raccogliere, rigorosamente a mano, tutti i fiori di Zafferano? E, ancor di più ce ne va per estrarre i pistilli, tre per ogni pianta; un lavoro che si fa la sera, tra le mura di casa, ai ritmi di un tempo. Perché, in fondo, è bello ritrovare la genuinità dei gesti degli anziani, che lavoravano quando ancora nessuna macchina si era affacciata sulla vita contadina. C’è un altro prodotto che Luca sta recuperando nella sua neonata azienda agricola Clorìs e sul quale sta scommettendo: i fagioli antichi di Glori, le muneghette. Son belli, di un bianco simile a quello delle perle.

Lasciata Casa Balestra e le sue straordinarie bellezze, abbiamo avuto tempo per fermarci a mangiare qualcosa. Era ormai ora di pranzo, la fame si faceva sentire. E allora è stato d’obbligo fare una sosta al Santo Spirito.

Hotel Santo Spirito Molini di Triora

Per l’occasione è stato preparato un buffet a degustazione, mi son sentita come a casa mia in mezzo ai piatti tipici della tradizione, che conosco così bene: torta di verdure, legumi, pane spalmato col brüssu, torta di porri e patate, pomodori freschi, panissa, fave, olive… Che bontà, che accoglienza!

Riempita la pancia, è arrivato il momento di continuare il tour al Santuario della Madonna della Montà, che ha aperto i battenti per noi. Siamo passati vicino alle lapidi, tra ricordi lasciati sui resti dei propri cari, candide sculture di angeli che fanno da guardiani a quel luogo di silenzio e riposo. Lì si staglia l’edificio religioso, pieno di bellezza. E’ stato Gianluca Ozenda a svelare i segreti del Santuario, lo ha fatto con occhi vispi, guizzanti di passione per quell’orgoglio tutto molinese. C’è un affresco risalente al 1425, scoperto in tempi relativamente recenti, ma non vi dirò come ci si è accorti della sua presenza, rimasta celata per molto tempo: ve lo racconterò un’altra volta. Anche qui sono tante le cose che meritano di essere dette, trasmesse, ma ci sarà modo di farlo più avanti.

 

A concludere questo viaggio sensoriale ed esperienziale c’è l’intervento di Floriana Palmieri, insieme a quello di Daniela Lantrua e delle autorità e degli esponenti di Legambiente e della pro-loco, oltre che di tutti i professionisti che hanno partecipato attivamente all’iniziativa. E’ stato offerto un rinfresco conclusivo, ricco dei piatti della tradizione, in cui ognuno ha messo del suo per dare vita a un momento di condivisione e raccoglimento per festeggiare la Valle a il borgo di Molini di Triora.

Nella conferenza finale si è parlato di turismo, di un nuovo modo di dare valore alla Valle. Si è parlato delle problematiche di un territorio come quello ligure, ma anche di progetti, sogni e innovazioni. Ne è emerso un quadro di positività e intraprendenza, di volontà di mettersi in gioco, perché in fondo migliorare è possibile e il territorio di Molini, così come quello degli altri borghi che si tengono per mano seguendo il corso del torrente Argentina, ha molto da offrire e tanto da raccontare al viaggiatore-eroe intenzionato a trovare il Sacro Graal della sua esperienza tra le montagne e i borghi: il contatto umano, la tradizione che si rinnova senza perdere genuinità, la novità che si mescola a ciò che è stato. E queste cose la mia Valle sa e può donarle, su questo non ho alcun dubbio!

Un saluto dalla vostra Pigmy.

 

 

Da Glori a Corte – il percorso di mezzacosta –

In epoca altomedievale si formarono gli insediamenti arroccati disposti a mezzacosta lungo i poggi soleggiati dei crinali conseguentemente, si sviluppò tra questi nuclei una rete viaria di collegamento. Complessivamente questo percorso di mezzacosta s’origina a Carpasio e termina a Triora. La funzione di questa direttrice risponde alle più comuni esigenze di vita dell’economia agropastorale. Osservando i rapporti tra le attività economiche, il territorio, gli insediamenti e le relative connessioni viarie sono evidenti le attenzioni a non erodere la produttiva area coltiva neppure con le abitazioni sacrificando anche il soleggiamento di quest’ultime. Lungo il percorso si distinguono quelli che potrebbero essere i borghi originari e le successive traslocazioni o filiazioni; spesso piccoli nuclei motivati da un capillare sfruttamento del territorio particolarmente da parte d’emergenti consorzi famigliari. In quest’area non è possibile ipotizzare la stessa struttura famigliare presente nei nuclei virilocali delle valli di Diano, del Prino e Merula non possedendo il territorio quelle caratteristiche necessarie alla formazione di “aziende agricole” che produttivamente devono conservare l’unità. Qui l’organizzazione della famiglia s’adatta alla frammentazione del territorio essendo necessaria la ripartizione tra i singoli nuclei famigliari delle superfici boschive, prative ed ortive (1). Sul territorio di Agaggio sono presenti alcuni insediamenti, come i Ciucchetti ed i Cuggi, che rivolsero, per necessità, una maggior attenzione allo sfruttamento del bosco. In questa zona aspra e isolata distribuita in parte lungo il confine tra i domini sabaudi e genovesi, v’erano condizioni di vita che offrivano l’opportunità di facili guadagni. Questa situazione continuò nel XVI e XVIII secolo caratterizzando la cultura locale. Volendo trovare motivi per una promozione turistica quale migliore scelta si potrebbe fare se non quella di ricordare e far visitare il territorio dei “nostri Passatori più o meno cortesi”. Tra i molti esempi documentabili mi piace ricordare che vi è sopra un dirupo, la casa del “tristemente leggendario” Jose Sacco, con tanto di “uscita di sicurezza” contro le visite degli uomini di giustizia. Quest’uomo vissuto nella seconda metà del XVIII secolo si macchiò di numerosi reati tra cui l’omicidio del prevosto Genta, Parroco di Montalto, eseguito su commissione a causa dei disaccordi seguiti al restauro della chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista. E’ anche interessante la presenza dei masaggi: uno a Grattino, Agaggio ed Ugello gestito dai Capponi ed un secondo a Glori proprio degli Stella. Pur con la doverosa cautela, essendo questo generico vocabolo utilizzato per un millennio, si potrebbe pensare ad una bipartizione medievale, cioè all’esistenza di una “corte dominica” ed alla suddivisione di un’altra parte del territorio in mansi amministrati da alcune notabili famiglie locali (2). Una prova la si potrebbe vedere nei toponimi Corte e “palazzo” ovvero “paraxio” quest’ultimo presente sia sul territorio di Glori con il Paraxio degli Stella sia, per ben due volte, in Agaggio (in relazione alla famiglia Capponi)(3). E’ interessante notare che su questa aspra terra già popolata da briganti e nobili non mancò la colorita presenza di stravaganti personaggi quali Benedetta Cugge (1860/1940 circa) solitaria e spartana abitante dei boschi che amava raccogliersi in preghiera nei posti più inusuali (4). Come lei viveva nella vicina “Grotta dell’Incanto” anche il cosiddetto Eremita di Glori, eccentrico personaggio che giunse a scrivere con il proprio sangue preghiere sulle pareti della grotta.

Il Percorso

Vorremmo che fosse Tunin da Mutta (Antonio Oliva di Ugello) a descriverci il percorso di mezzacosta che da Glori conduce ad Andagna, questa era la sua terra, ma è mancato perciò è sembrato corretto porgergli un atto di dovuto omaggio chiedendo alla sua famiglia di sostituirlo. Di buon grado i figli Arturo, Rina ed il cugino Giovanni Sambuco si sono cortesemente prestati ad indicarci la via. E’ necessario premettere che la mulattiera, propriamente detta, discendeva da Glori sino all’omonimo ponte sull’Argentina e quindi proseguiva sino a S.Giovanni della Valle per poi risalire verso i sovrastanti, piccoli, nuclei. Quest’evidente prolungamento del percorso è necessario frapponendosi, tra Glori ed Ugello, una fascia particolarmente aspra e accidentata difficilmente percorribile anche per gli uomini, quindi proibitiva per gli animali da carico. In ogni modo per comodità e linearità dell’itinerario, nonchè per il suo interesse antropico ed ambientale, ricalcheremo comunque il sentiero usualmente utilizzato dalle genti locali. La “rena” si distacca, a sinistra, dalla strada rotabile di Glori nel tornante prima del paese. Oltrepassa un pilone votivo e raggiunge dopo poche centinaia di metri il “Paraxio” degli Stella, uno dei probabili insediamenti che originarono attorno il XV secolo l’attuale borgo di Glori. Nei pressi vi è la “Tana dell’Incanto” dove alcuni decenni orsono dimorò il citato personaggio pervaso da crisi mistiche. Proseguendo su un sentiero invaso dalla vegetazione raggiungiamo il Vallone di Bersaira presso il quale la “Gexetta de Maiu e Muiè” (cappelletta del marito e della moglie) indica che in questo dirupato canalone perse la vita, cadendo, un’intera famiglia. Questo luogo aspro, caratterizzato dall’intercalarsi della macchia mediterranea agli uliveti, obbligati in arditi terrazzamenti, si protrae lungo la costa della Laisetta sino a Cà Sereni. Il castagneto, l’oliveto e l’orto coltivati in condizioni particolarmente difficili ci ricordano la storica caparbietà di queste genti nel voler ricavare sostentamento da un territorio, certamente non prodigo, che ne forgiò le caratteristiche culturali ancor oggi palesi nei ricordi di Tunin da Mutta. La nostra via lambisce ai Cuggi quella che era la casa di questo noto cacciatore la cui usuale ospitalità è cortesemente continuata dalla figlia Rina. Da questo luogo un sentiero conduce ai sovrastanti nuclei dei Ciuchetti, noti per la loro trascorsa attività banditesca, dei Medoi, dove vi è la casa di Iose Sacco ed infine verso i Castagnei dove in una casa ridotta a rudere visse la citata Cugge Benedetta. Ogni famiglia possedeva un casone per essiccare le castagne che all’occorrenza poteva essere anche la cucina: oggi solo Arturo continua quest’attività, affiancandola alla coltivazione dell’actinidia. Proseguiamo la nostra via incontrando la nuova rotabile che conduce dalla Villa Capponi ed Ugello alla sottostante strada provinciale. Il ritrovamento di un’armilla presuppone la frequentazione preistorica di questo areale. Continuiamo verso la Villa Capponi, che oltrepassiamo in direzione del Vallone di Agaggio; superiamo la sovrastante Rocca Rossa per salire dopo l’attraversamento del Rio Agaggio verso l’omonimo paese intersecando e seguendo per ampi tratti la nuova via carrabile che, a giudicare dai piloni votivi, non si diversifica molto dalla mulattiera. Lasciamo Agaggio Superiore dalla chiesa dedicata a S.Carlo Borromeo. C’inoltriamo lungo una bella mulattiera contrassegnata da numerose cappellette votive; quella prossima al Rio Boetto ricorda l’incidente mortale di Giacomo figlio di Tunin mentre la precedente, particolarmente grande, posta presso il “Puzzu de Nicò” serviva da “posa dei morti”. Questa mulattiera fu utilizzata sino a pochi decenni or sono dalle genti di Grattino per portare i loro defunti ad Agaggio Superiore. La via era frequentata per l’approvvigionamento dell’acqua potabile essendo la sorgente del “Ruverà” la più’ prossima e comoda al paese. Presso questa fontana si distacca in ripida salita un sentiero che porta a Drego ed al Passo Teglia. La mulattiera discende ora dolcemente verso il Rio Boetto dove si presenta un eccezionale vetusto ponte in condizioni di pietoso abbandono. Subito dopo, sulla destra, un “beo” (canale) ci indica l’esistenza di un vecchio molino da grano. Giungiamo in Grattino dove il soleggiamento, la frantumazione dell’area ortiva, la numerosa e sparsa presenza di case dimostrano un trascorso ed intenso sfruttamento agricolo. L’ambiente muta quando voltiamo nel Vallone di Vignolo; riappare la macchia mediterranea mentre il territorio diviene aspro e pietroso. Da Grattino possiamo scegliere tra due vie parallele. La mulattiera superiore più aspra, con maggiore interesse naturalistico, oggi in parte ricalcata da una nuova rotabile, passa dalle Case di Vignolo e dal Vallone di Pendego. La via inferiore, più antropizzata, attraversa Grattino e le Case dei Corsi, anch’essa è, in parte, sostituita da nuove rotabili. Queste due vie in ogni modo si ricongiungono presso il Vallone di Pendego. Il toponimo Case dei Corsi sta ad indicare un insediamento utilizzato dalle soldatesche mercenarie corse che la Repubblica di Genova arruolava sia in occasione di conflitti sia per la normale attività poliziesca. Proseguiamo il nostro viaggio verso la Rocca di Vignolo e di Andagna, poste a poche centinaia di metri di distanza tra loro. La prima erosa da una cava è lambita superiormente dalla mulattiera. La seconda, che osserviamo da lontano, è sormontata da una spettacolare torre costruita il secolo scorso per “uccellare” ovvero cacciare con il vischio. Su d’essa si è scritto ultimamente con molta fantasia ma concretamente si può solo ipotizzare la preesistenza di un’altra struttura d’avvistamento (5). Continuiamo la nostra via lungo l’ubago del vallone di Pendego raggiungendo dopo poche centinaia di metri il bel ponte sul Rio Armetta, altro esempio di deprecabile abbandono. Da qui risaliamo sino ad incontrare la strada asfaltata presso l’ultimo tornante che precede l’abitato di Andagna. Da Andagna a Corte ci accompagnano Silvietto (Bova Antonio di Corte) ed Augusto Zucchetto, fratello di Angela Maria, “estrosa bottegaia” di Molini di Triora (6). Iniziamo il nostro viaggio dalla chiesa di San Martino di Andagna discendendo lentamente lungo il Poggio Grosso ed il successivo vallone degli Ubaghi percorso dall’omonimo rio. Passiamo il Vallone del Bosco ed un ultimo poggio prima di giungere al Rio Poetto, da qui con il Pian dell’Avvocato, ha inizio una fascia di territorio distribuita lungo il Rio di Corte. Su ambo i lati si possono ancora vedere numerosi ruderi di molini che un tempo macinavano castagne, noci, orzo e grano provenienti dal vasto e produttivo areale dell’alta Valle Argentina (7). Il primo rudere che incontriamo è il Molino Vecchio e quello successivo il Molino di Cagagna. Qui il Ponte di Biglievue ci permette d’attraversare il Rio di Corte. Il nome di questo ponte è probabilmente dovuto alle sottostanti profonde pozze scavate dalle pietre spinte dalla forza delle acque. Su ambo i lati del vallone due mulattiere proseguono parallele verso le montagne ricongiungendosi al guado presso le case di Curecca. Riprendiamo il nostro viaggio salendo lungo la Monta’ delle Biglievue sino ad inserirci sulla mulattiera, resa oggi rotabile, che da Corte porta al Santuario di N.S. della Consolazione (più comunemente conosciuto come la Madonna del Ciastreo). Ci attende ancora un breve tratto lungo quest’ultima via per giungere, infine, nel paese di Corte.

(1) – Lajolo G. – Il Territorio dei Carpasini- Riviera dei Fiori- Camera Comm. Im.- Anno LV n.s. Imperia 1991

(2) – Ferraironi F. – Storia Cronologica di Triora – pag. 6 – Tip. Sallustiana – Roma 1953 –

(3) – Il toponimo “Palazzo” è ancora presente nella cartografia vinzoniana del XVIII secolo

(4) – devo le informazioni e la fotografia di Benedetta Cugge alla cortesia di Giovanni Sambuco di Agaggio

(5) – V’era anche un’altra torre in Carpenosa che s’inseriva nella stessa rete di “colombere” utilizzate nell’avvistamento, segnalazione e difesa durante le incursioni turcobarbaresche del XVI secolo.

(6) – Colgo l’occasione per dare all’amica Angela Maria un suggerimento: i Zucchetto non sono altro che i Ciuchetti, quell’antica famiglia presente nell’omonimo borgo presso Ugello che secoli or sono contribuirono a formare quella schiera di “passatori” che fecero famosa la Valle Argentina. Sarebbe quindi storicamente coerente, commercialmente gratificante oltreché simpatico se Angela Maria ricevesse i propri clienti con un bel “trombone” in spalla.

(7) – Lungo i torrenti, in prossimità di Molini di Triora vi furono 23 molini – vedi: Novella F.- Molini di Triora e il suo Santuario di N.S. della Montà- Stab. Grafico la Stampa- Genova 1967

Due paesi che l’anno scorso vi ho presentato, vi ho fatto conoscere. Uno più bello dell’altro, da non saper quale scegliere. Oggi, li vediamo insieme, da Glori, tramite luoghi magici e fantastici, andiamo a Corte. Attraversiamo i miei boschi, gli scorci della natura, un paesaggio che mozza il fiato. Un altro giro amici. Un’altra splendida passeggiata tutti insieme nel riscoprire stranezze, storia e curiosità su una delle valli più belle e più antiche della Liguria. La mia Valle Argentina. E ancora una volta abbiam potuto percorrere questo cammino grazie ai consigli, gli indirizzi e soprattutto gli scritti di Giampiero Laiolo nel suo bellissimo “U Camin” che già conoscete, che già molte volte vi ho presentato. Ora riposate tranquilli, avete scarpinato abbastanza per oggi, io vi mando un bacio e mi pulisco le zampette. A domani topi.

M.

Questo ponte non durerà molto

Oggi vi parlo di pietre che sembra stiano su per miracolo… Eh sì, cari topi, quest’altro ponte romano della mia Valle, purtroppo, sta cedendo. Almeno a sentir le parole di un topo anziano che ho incontrato da queste parti.

Parecchie pietre sono già crollate e questo per me è un gran dispiacere.

Siamo ad Agaggio inferiore, sulla strada principale, e vi sto presentando l’ennesima costruzione romana della mia Valle. Questo ponte è piccolino, ma si trova in un contesto delizioso. Dietro di lui c’è una cascatella di acqua limpida e sotto un laghetto dal colore verde trasparente, fa sembrare il tutto una piccola laguna montana. E’ un angolino meraviglioso a 370 metri sul mare.

Tempi addietro, questo ponticello breve, ma piuttosto alto, veniva usato per attraversare il rio e recarsi nei campi.

Dalle foto non vi sarà difficile vedere come nel centro manchino diversi sassi. Si notano distintamente i buchi vuoti, nonostante l’erba ci sia cresciuta sopra. Forse è il ponte più piccolo e anche quello più in pericolo di tutti, ma nessuno pare abbia intenzione di salvarlo.

Io, grazie al consiglio del mio amico Marco, sono contenta di averlo fotografato. Un giorno o l’altro potrebbe davvero non esistere più.

Nella mia Valle, come ormai sapete anche voi, ce ne sono tantissimi. I Romani hanno creato insediamenti nei  luoghi che circondano il luogo in cui vivo, poiché servivano loro per raggiungere la vicina Gallia, e ci hanno lasciato numerose costruzioni ancora oggi perfette.

Questo ponte, contornato dal verde della natura, può passare inosservato. Mi ha fatto piacere vedere i ciclisti fermarsi a fotografarlo, perché è una delle tante opere d’arte della mia Valle.

Formato da un’unica campata realizzata da un grande arco, rappresenta la tecnica costruttiva della cultura romana e, a mio parere, ha un grande valore archeologico. Non ha subito nessun restauro, nè modifiche: è così dai tempi antichi.

Il suo corridoio di passaggio è largo meno di un metro e il basamento è addossato a speroni di roccia e costituisce la parte più solida rimasta.

Venite a vederlo, topi, ma evitate di salirci, datemi retta!

Un abbraccio.

M.