Storia di E. che difese suo padre dai Tedeschi

La storia che vi racconto oggi è successa davvero, anche se questo attempato signore che mi parla con i grandi occhi chiari fissi nel vuoto preferisce mantenere l’anonimato. E’ una storia che fa riflettere, ma rimandiamo a dopo i pensieri importanti.

Vi parlo di E. che, nei primi anni ’40 del secolo scorso, aveva all’incirca tredici/quattordici anni.

Ci troviamo vicino alla mia Valle, nella zona della Riviera dei Fiori e del Parco Naturale di San Romolo e Monte Bignone.

I due fratelli maggiori di E. erano partiti da Partigiani, mentre la sorellina minore viveva con il padre e la madre in un casone nascosto nel bosco di Pian della Castagna. Il padre di E. non poteva farsi vedere, i nazisti (dai nostri vecchi chiamati “i tedeschi” con una s scialba) lo avrebbero ucciso o portato via. E., invece, era troppo giovane per i nemici: quei militari non potevano servirsi di lui. C’era solo una rara possibilità che potessero fargli del male, che si sarebbe potuta presentare in occasione di una delle razzie messe in atto da loro durante le quali non guardavano in faccia nessuno, nemmeno le donne, gli anziani e i bambini.

E allora fu proprio E. a farsi carico di andare a vendere la legna giù in paese per poter acquistare riso, pasta e farina. Il suo era un carico sia fisico che psicologico: partiva con il carretto da Pian della Castagna e, percorrendo ogni giorno circa 8 km all’andata e 8 km al ritorno, arrivava fino alla Chiesa della Madonna della Costa, in territorio sanremese, per vendere la legna che tagliava lui stesso. Il carretto reggeva 7 quintali di ciocchi di legno e la strada si presentava in discesa all’andata, ma al ritorno era tutta in salita, anche se il carretto era ormai vuoto.

Scendendo, il carretto che era molto pesante e prendeva velocità; E. faticava molto a reggerlo. Dunque, mano a mano che camminava, rubava qualche pietra dai muri a secco in cui si imbatteva lungo il cammino e lanciava i massi davanti a sé affinché frenassero le ruote del carro. Dai oggi e dai domani, portò via parecchie pietre, anche se durante il ritorno alcune le ricollocava al loro posto per paura di provocare qualche frana. Un giorno il proprietario delle terre trafugate delle pietre di contenimento lo colse sul fatto e, avvicinandosi a lui, lo redarguì: «Fiu, se ti cuntinui cuscì, mì prie de chi in po’ a nu ghe no ciü!» (Figliolo, se continui così, di pietre tra un po’ non ne avrò più!). E. si scusò e continuò il suo cammino.

Un giorno dovette scendere nel centro di Sanremo per vendere la sua legna. Quel giorno i tedeschi avevano deciso di mettere in fila tutti i ragazzi e gli uomini che erano nei pressi di Piazza Eroi Sanremesi per fucilarli. Dalla piazzetta di fronte, dove oggi sorge un parcheggio, molte donne piangevano disperate.

C’era anche E. tra i presi di mira, era l’ultimo della fila dal lato monte e una sentinella gli marciava davanti, osservando che le vittime fossero tutte ben posizionate. Sarà stata l’incoscienza o il brivido istintivo della sopravvivenza, ma E., appena il soldato si voltò e non lo ebbe più sotto gli occhi, scappò di corsa verso San Romolo, in direzione delle sue montagne. Le conosceva bene e, nella fuga, aveva lasciato in piazza la legna con tutto il carretto. Gli spararono, ma lui stava già sgattaiolando tra le case vicine e i carruggi intorno al piazzale. Per 7 km non arrestò la sua fuga disperata. Quei 7 km, che macinava a fatica e lentamente ogni giorno, ora scivolavano sotto i suoi piedi, il fiato corto di sottofondo ai passi affrettati. Il battito del cuore gli rimbombava nelle orecchie, così come gli spari di poco prima. Quando giunse al casolare nel bosco cadde a terra svenuto.

Questa vicenda possiamo definirla quasi “una delle tante” (descrizione che  personalmente trovo quasi offensiva, in quanto ogni memoria è unica e riporta drammi ed emozioni che al giorno d’oggi non riusciamo neanche a immaginare), ma il punto sul quale vorrei focalizzare l’attenzione, anche se può sembrarvi assurdo, riguarda la reazione del proprietario dei muretti a secco.

Molti la troveranno ovvia, visti i tempi che correvano: la guerra, la carestia, mentalità diverse, modi di fare d’un tempo… ma se paragonassimo quell’atteggiamento ai giorni nostri noteremmo che la gente reagirebbe in modo differente. Una volta, se si estraevano le pietre da un muro, non lo si faceva per puro divertimento o per far del male a qualcuno. Era per bisogno. Era una necessità spesso vitale. Per questo si incontrava compassione. Oggi non si avrebbe più la necessità di scendere con 7 quintali su un carro e dunque non c’è alcun motivo per rovinare i muri che altri hanno costruito con tanta fatica.

Anche E. faticava parecchio a condurre quella vita che svolse per due anni ogni giorno, due anni che videro suo padre nascosto nella macchia, senza poter uscire. Due anni in cui l’amico bosco, con le sue folte chiome, lo difese e lo riparò dal nemico.

Sono storie che oggi ci sembrano incredibili o banali, ma che i nostri padri o i nostri nonni hanno realmente vissuto… proprio poco tempo fa.

Un bacione topi, alla prossima storia.

Una passeggiata a Bosco

Sì, non nel bosco, ma a Bosco.

Bosco è un piccolo paese che conta una ventina di anime. È una frazione di Casanova Lerrone. Oggi andiamo un po’ più verso Levante, in provincia di Savona. Siamo vicini a Ortovero, a due passi da Albenga. Bosco, dalla cima della sua collina, domina su tutta la valle. Circondato da tantissimi ulivi, rimane proprio davanti ad un bosco e la tranquillità che si respira tutto intorno è unica.

Siamo a 320 metri sul livello del mare e siamo sul versante sinistro del torrente Lerrone, che dà il nome anche all’omonima valle.

Il paese, come tutte le altre piccole frazioni dei dintorni,  basa la sua economia su olio e vino, insieme alla coltivazione di ortaggi e frutta come pesche e susine.

Ad accoglierci è una Madonna,”custode e regina del luogo” come indica la targa in marmo sull’edicola votiva.

A Bosco la vita scorre tranquilla.

Gli abitanti, per lo più contadini, svolgono le loro attività e c’è anche chi ha deciso di aprire un agriturismo e una fattoria didattica nella quale gli animali – capre, asini, pavoni, tacchini e galline – sono mantenuti divinamente. Si vogliono mettere anche in posa per fare le foto e guardate come sono belli! I capretti di 40 giorni, appena svezzati, hanno il pelo candido, le loro corna, poi, sono davvero simpatiche. Bambi e Fiocco, così sono stati battezzati i due fratellini, saltellano come trottole e ancora cercano la mamma. Le capre sono più di una ventina e ognuna ha un nome. Mentre saliamo in paese per arrivare fino all’agriturismo che si chiama “Pè pasciun” (letteralmente, per passione), incontriamo Bim Bum Bam, un simpatico micio di tre mesi che non si stacca da noi. Non vuole sapere di essere fotografato,  per cui accontentatevi del suo lato posteriore e credetemi sulla parola se vi dico che era affettuosissimo e aveva un pelo che pareva cotone, grigio con sfumature quasi rosa.

Nella mia valle, quando al mattino ci sono circa 5°/6°, a Bosco ce ne sono sempre 3 o 4 di meno, fa un po’ più freddo e, respirando, si sente l’aria gelida e pura che entra nei polmoni. L’acqua, però, in questa zona è buonissima e lo si capisce anche dal pane che viene fatto e dalle verdure, che hanno un sapore squisito.

Ci sono ancora tante cose, qui a Bosco, rimaste come un tempo. L’insegna del telefono è vecchia, come anni fa, e mi riporta alla memoria di quand’ero ragazzina, quando ancora si usavano i telefoni con i gettoni nei bar o nelle cabine. In alcuni scorci, bellissime piante rampicanti avvolgono i muri, alcuni appartenenti a vecchie dimore, altri ruderi che rendono questo posticino antico, quasi medioevale. Anch’esso, come la maggior parte dei paesi della mia valle, dal 1250 è appartenuto alla Repubblica di Genova per divenire, poi, della Repubblica Ligure prima dell’800, dopo che Napoleone Bonaparte occupò questi luoghi durante la dominazione francese.

Per essere un borgo molto piccolo, ha ben due chiese, una delle quali, la principale, ha un campanile particolare molto appuntito. Altissimo, svetta sopra ogni cosa e il suo orologio è indietro di mezz’ora, che cosa bizzarra. Davanti al portone principale, inoltre, c’è un bassorilievo rappresentante un santo e un angelo che assume differenti espressioni a seconda di come lo guardiamo. Nell’aria riecheggia ovunque il ronzio delle motoseghe, ma udiamo anche colpi d’accetta: la gente fa la legna da sé, i termosifoni sono un lusso che pochi  possiedono e, in cielo, vola fumo dai camini, profuma di buono.

Il sabato e la domenica si passano così: a fare cataste, a raccogliere rametti per accendere il fuoco o a costruirsi quella parte di muro crollata o inesistente. E per loro sono giorni di festa.

La gita è stata bellissima, abbiamo passeggiato con i nostri cani giù per un sentiero fino al torrente e abbiamo potuto notare la presenza di volpi e tanti altri animali.

Per vivere qui ci vuole passione. Non direi coraggio, passione, è questo il termine giusto. Scordiamoci il servizio del bus o altre comodità e, per chi lavora nelle città come Alassio o Albenga, si tratta di doversi mettere in auto tutte le mattine per raggiungerle (spalando neve in inverno), per loro è come andare in una metropoli.

Quando poi, però, alla sera rientrano nelle loro tane, niente è più pacifico. Queste sono per la maggior parte in pietra e ognuna ha il proprio orticello. Nessuno, qui a Bosco, compra al mercato i doni della terra! Non ci sono ville né castelli, tutte case modeste, ma belle e fatte a mano da chi ci vive, dai padri che si sono fatti aiutare dai figli o dagli amici del paese.

Ci ritornerò, mi sono davvero divertita un mondo. É bello camminare in posti come questo, quindi, seguitemi sempre perché vi ci porterò.

Uno squit a tutti.

Pigmy

M.