Belenda, Belenos, Belin!

Il post di oggi è luminoso, anzi, luminosissimo!

Il titolo è tutto un programma, sembra una formula magica, vero? Be’, in un certo senso è di magia che tratterà, ma la smetto di tenervi sulle spine e inizio a raccontarvi.

Recentemente ho iniziato a interessarmi ai toponimi della mia zona – e no, nel caso in cui ve lo steste chiedendo, questa volta i topi non c’entrano niente! – e ho scoperto delle cose davvero interessanti che voglio condividere con voi.

Vi siete mai chiesti, cari miei amici liguri, da dove provenga l’imprecazione da noi più utilizzata? Ve lo spiego subito, belin! Prima, però, mi tocca fare una premessa importante.

colle belenda

Sul confine tra le valli Nervia e Argentina c’è un colle che si chiama Belenda, di cui vi ho già parlato nel post “Da Loreto a Colle Belenda tra castagni e betulle”. Lo stesso nome, però, appartiene anche a un’altra altura, situata tra le valli Nervia e Roia. Questi luoghi erano frequentati fin da tempi remoti dagli Antichi Liguri, quelli che subirono, pare, le influenze dei Celti. Non è un caso che la radice “Bel-” si ritrovi in vari luoghi delle nostre zone (il monte Abellio nell’intemelio, per esempio).

I Celti veneravano una divinità maschile che fu assimilata dai nostri antenati Liguri, il dio Belenos (o Belanu), che può essere tradotto come “il brillante”. Si tratta di una divinità legata alla luce e, di conseguenza, al sole. Tuttavia, Belenos il Brillante non era solo questo. Era collegato a tutto ciò che aveva bisogno di luce per prosperare, per cui era la divinità dell’agricoltura e dell’allevamento, presiedeva le stagioni e “illuminava” l’intelletto degli uomini per guidarlo a nuove invenzioni e innovazioni. Belenos aveva una consorte, i cui nomi sono molti, ma il significato è uno solo: “la più brillante”. Belisana, Belisma, Belenda… comunque la si voglia chiamare, a lei erano sacri il fuoco e la scintilla della creazione.

Che coppia… divina, non trovate?

Ebbene, non è certo un caso che molti siano ancora oggi i riferimenti a queste due figure, che influenzarono la vita dei liguri così tanto che l’eco di quel culto si sente ancora oggi. Come? Nell’intercalare tanto usato e tanto amato da tutti, dai monti al mare, da ovest a est: belin!

Oggi ha assunto il significato di un’imprecazione, che assimila questa parola all’organo riproduttivo maschile. Ma cosa c’entra quest’ultimo con Belenos? Ebbene, un tempo l’uomo primitivo aveva una concezione della vita ben diversa dalla nostra. Sapeva che il maschile e il femminile si univano per dare origine a una nuova vita e riproducevano questo anche in natura. Per ottenere un buon raccolto, dunque, ecco che conficcavano simbolicamente nel ventre della Madre Terra una pietrafitta o un bastone, assimilandolo al fallo maschile. Molte sono le simbologie legate al culto della fertilità della Terra, non starò qui a spiegarvele tutte, ma il nostro beneamato belin sembra derivare proprio dalla divinità luminosa tanto cara ai nostri antenati. È come se, nelle nostre frasi, nei nostri proverbi e nel nostro quotidiano richiamassimo ancora a noi l’energia di Belenos e di sua moglie, a ricordarci che la Luce è Vita.

Belin, s’è fatto tardi! Non mi resta, dunque, che mandarvi un brillante e luminoso saluto.

Vostra Pigmy

 

 

 

Caselle Fenaira – il fienile della valle

Quello in cui vi porto oggi è un luogo incantato. Siamo sul confine tra la Valle Argentina, appena sorpassata, e la Valle Arroscia. Abbiamo lasciato il vecchio insediamento rurale di Drego e stiamo per entrare nella foresta incantata di Rezzo, che conta 5.000 anni. Qui, a metà percorso, ci fermiamo ad ammirare gli alberi, che creano un’atmosfera davvero particolare.

Siamo a Caselle di Fenaira, a 1351 metri sopra il livello del mare. Un torrente forma  spettacolari cascate e il sentiero che si snoda nel bosco, le piante e il cinguettio degli uccelli danno vita a un ambiente suggestivo, da vivere intensamente.

La strada asfaltata passa nel bel mezzo di tanta meraviglia, un’architettura naturale delle più alte terre della Liguria. Se proseguissimo, scenderemmo giù fino alla città di Imperia, ma non ne ho la minima intenzione oggi. Il baccano cittadino non fa per me.

Me ne resto qui ad ascoltare la natura che mi parla e mi racconta la sua storia. Un tempo, la frequentazione di queste zone era legata soprattutto alla presenza di pascoli ricchi e abbondanti molto graditi per attività quali l’allevamento di mucche, capre e pecore. Se zampettassi un po’ più su, oltrepassando questi alberi dalle alte chiome, giungerei su prati ampi, distese erbose tanto belle da togliere il fiato. Le zone prative costituivano uno dei punti essenziali dell’organizzazione territoriale ed economica della valle ed esistono ancora le tracce degli insediamenti estivi delle tribù liguri protostoriche, come il Castellaro della Rocca di Drego, che vi avevo fatto conoscere in un articolo precedente (si intitolava “Drego: il villaggio fantasma”, se volete leggerlo). Il Castellaro è prossimo ai pascoli più ricchi proprio come accade alle borgate costruite ad alta quota in età più moderna.

All’inizio dell’estate, dai prati si ricavava il fieno per l’inverno, poi vi pascolava il bestiame. La zona di Caselle Fenaira era tra le migliori per la raccolta del fieno, tanto che si giungeva a proibirvi il pascolo per tutta la stagione. Questa zona consentiva, infatti, notevoli guadagni dalla concessione ai forestieri (i fuestei, in dialetto) del diritto di taglio del fieno per le greggi. Durante il giorno, il bestiame era condotto a brucare e rientrava nei recinti la sera, dopo l’abbeverata da sorgenti o fonti d’acqua. Alla sera, nelle marghe, avveniva la mungitura e il latte veniva raccolto e conservato separatamente a seconda che si trattasse di vacche, capre o pecore in attesa di essere lavorato nel modo più opportuno. La lavorazione permetteva di ottenere burro e formaggio in particolar modo il “bruzzo” (u brussu) una sorta di ricotta fermentata dal sapore deciso, famosissima nella mia Valle. Può essere più dolce oppure più stagionato, dal gusto molto forte, ed è buonissimo spalmato sul pane.

In questo luogo giungono numerosi anche gli sportivi. Sono tante le passeggiate a piedi, a cavallo o in bicicletta che si possono fare, e l’aria che si respira apre i polmoni. I Noccioli sono quasi i padroni qui, e il bordo strada ricco di fogliame ormai secco che produce ad ogni passo uno scricchiolio.

Che pace!  E’ un angolino che non dovete perdervi, se passate da qui!

Un bacio scricchiolante dalla vostra Pigmy.

M

La piccola chiesetta di Arma

Eccola, lei sorge qui, nella pietra, dentro una roccia.

Il campanile dell’Agave, distaccato da lei, le regala il rintocco delle campane, solo una volta, solo una sera d’estate. È un luogo di preghiera sottostante la fortezza di Arma di Taggia, il primo paese della Valle Argentina, anche se i più precisi direbbero che, in realtà, la vallata inizia dopo Taggia, in su, verso i monti.

Nel punto in cui sorge la chiesetta, finisce questa piccola cittadina di Arma e inizia il paese di Bussana.

Lei da qui domina sul mare. Quello che le pietre che la compongono vedono è un panorama che lascia estasiati, soprattutto se si pensa che al mattino presto, quando il cielo è terso, lo sguardo può catturare addirittura i monti della Corsica.

È la piccola chiesetta dell’Arma o, tempo fa, dell’Alma, il cui vero nome è “Santuario – Grotta della S.S. Annunziata”.

La Madonnina, vestita di bianco, prega alzando gli occhi al cielo e protegge il suo paese. È sempre lì: di notte, di giorno, d’estate, d’inverno. Governa su questo Santuario, ricreato in una grotta.

Una grotta che porta tracce di un’ epoca preistorica, lontana. Al suo interno, dove potete notare il particolare soffitto di pietra, sono stati rinvenuti tre frammenti di cranio di uomo di Neanderthal, senza contare vari utensili e resti di animali anche più recenti, come iene, ippopotami, elefanti. Tali cimeli sono esposti nella sala principale del Museo Borea di San Remo.

Attraverso i secoli, questa roccia venne più volte conquistata nonché incendiata da barbari e saraceni, nemici degli antichi Liguri. Al suo interno, sono conservate statue e sculture di alto pregio, appartenenti alcune alla scuola genovese del ‘700, altre a scultori locali, come i bassorilievi nell’altare. La grotta interna è molto umida e fredda, anche in piena estate si ci entra con la giacca a vento. Pensate che entra dentro la pietra di ben 55 metri, senza contare tutta una serie di cunicoli, che scendono anche in profondità per un totale di circa 100 metri. 350 sono invece i metri cubi, dei quali 140 sono occupati dalla chiesa, dall’inizio del XII secolo circa. Inoltre, è orientata su un asse Nord-Sud, per poi piegare, dopo 40 metri dall’entrata, con una netta curva di 90° verso Est. A vederla, dalle sue finestrelle sbarrate da grossi tubi di ferro arrugginito, sembra in realtà piccolissima, ma è un’illusione, perché la sua profondità, come abbiamo visto, è ben più spettacolare. Nessuno, entrando dalla sua porticina di legno, si aspetterebbe tanto. Quest’ultima è dedicata alla Beata Vergine Maria, testimonianza di un’epoca anche romana, oltre che preistorica, che ha fatto sì che questo luogo sia divenuto nel tempo di grande interesse per archeologi e scienziati.

Tuttavia questo piccolo tempio non ha conosciuto solo queste civiltà. La nostra Madonnina vestita di bianco potrebbe senza difficoltà narrare di pirati che terrorizzarono tutto il sud dell’Europa e s’impossessarono proprio di Arma di Taggia, sconfiggendola a suon di cannonate e scimitarre.

La Madonnina ha conosciuto i saraceni, i musulmani del nord dell’Africa, abili conquistatori. Eppure continua a stare lì, impassibile, grande punto di riferimento di questo paese che si affaccia sul mare. E resta ferma a guardare tutti i colori che le regala il cielo a volte azzurro, spesso rosa, e quel manto di acqua salata che s’infrange contro gli scogli.

Sempre lì, uguale a quando ero bambina, a quando era consuetudine andare a passeggiare sulla spiaggia fino alla fortezza, fino alla chiesetta, per poi tornare indietro come se oltre, non esistesse nulla. Ci bastava arrivare fin sul suo piazzale, guardare Arma, tutta, con un solo sguardo, lanciare una monetina tra le sue grate ed esprimere un desiderio.

Pigmy.

M.