Al Ciotto: osservando tinte e arabeschi

Da più di tre anni, di tanto in tanto, mi dirigo al Ciotto di San Lorenzo.

Si tratta di un luogo a me molto caro, situato alle pendici del Carmo dei Brocchi e oltre ad essere un posto bellissimo se lo si sa ascoltare, parla con un’energia davvero profonda e unica.

Per arrivarci passo solitamente da Drego e da Passo Teglia, anch’esse zone della mia Valle senza eguali per il loro fascino remoto.

Una volta giunta all’arrivo mi piace soffermarmi a guardare ogni cosa, lentamente. Lo sguardo si appoggia piano, su tutto quello che addobba questo angolo della mia Valle per me dal sapore mistico e affascinante.

Mi piace contemplare, pensare, riflettere e guardare intorno a me tutta quella bellezza che mi circonda sentendomi davvero una Topina fortunata. Si tratta di una dolina tutta fiorita in estate e circondata da austere rocce, una faggeta fatata e abeti antichi che proteggono. Una radura a forma di conca nella quale talvolta si forma un piccolo lago o è prato in base al periodo dell’anno.

E’ proprio durante queste attente osservazioni che ho potuto notare come questo luogo si modifica di stagione in stagione.

I suoi cambiamenti sono in realtà molto evidenti e dati principalmente dai colori che lo abbelliscono ma se quando parliamo di colori pensiamo soprattutto all’autunno… beh… al Ciotto di San Lorenzo (chiamato anche il “Sotto”) le tinte regalano emozioni ogni mese.

E’ vero che, prima di aprire le porte all’inverno, i Carpini si vestono d’oro e i Larici delle nuances del tramonto. Com’è anche vero che i Faggi diventano color della terra bruciata e le capsule di semi delle Graminacee creano puntini neri sparsi qua e là ma quando la fredda stagione giunge del tutto è la Bianca Signora, la neve, a regnare rendendo tutto candido e brillante.

Il foliage, in questo luogo, è davvero attraente.

D’estate, invece, è il viola della Lavanda e del Cardo Selvatico a prevaricare su tutto. Il colore della magia, ed è quasi più presente addirittura del verde vivace, il vero padrone.

Lo stesso Cardo, terminato il periodo estivo, appare di un avorio lattiginoso e sfavillante.

Tra il profumo del Timo anche gli insetti contribuiscono a colorare il tutto ma ovviamente, il gradino più alto del podio spetta alle farfalle e le loro ali dipinte.

Per non parlare delle bacche. Tante tantissime e tutte diverse tra loro. Quelle color rosso fuoco si notano già da lontano.

Molte tonalità di grigio e di marrone vengono date anche dalla corteccia degli alberi che circondano l’antico Ciotto ricco di storia e leggende.

Osservando certi tronchi, dal basso verso l’alto non si possono non notare le diverse sfumature di queste alte piante e, una volta che ci si trova con il naso all’insù, un ulteriore spettacolo si apre davanti agli occhi agitati.

Un intreccio infinito di rami, sia spogli che ricchi di fogliame, si annodano, si avvicinano e si incrociano fino a formare strane forme di linee, degli arabeschi stupendi che sembrano disegnare il cielo.

Come dei centrini, posizionati all’incontrario, abbelliscono anche l’aria sicuri nel risultato di una meraviglia totale.

Via via che i giorni passano, andando verso il periodo del gelo, dopo il trionfo di vita e tinte forti, tutto si spegne divenendo sempre più pallido e mostrando il riposo.

Nonostante questo sonno color pastello, pare d’esser in un incanto, nella tela di un pittore malinconico e che ama i colori tenui. L’inverso della vivacità verde incontrata in passato.

Insomma, il Ciotto di San Lorenzo regala sorprese sempre. Non può non lasciar stupiti e grazie alla natura variegata che lo forma resta un punto assolutamente unico della Valle Argentina.

Io, sognante, vi mando un bacio colorato e vi lascio immaginare questa tavolozza. Vado a prepararvi un altro articolo!

Neve e poi sole – dal Passo di Collardente al Colle del Garezzo

La mia Valle è bella anche per questo. Come succede in diversi luoghi, in alcuni punti della Valle Argentina, il sole e la neve fanno a gara per vedere chi arriva prima.

Solitamente la Bianca Signora ha la meglio davanti a Cavalier Sole, che prima la lascia scendere in candidi fiocchi assieme a Messer Vento, e poi arriva lui per renderla ancora più brillante.

Per questo, oggi, vi racconto di un clima davvero particolare che ho vissuto durante una splendida giornata di metà aprile. In primavera quindi!

In montagna, certi avvenimenti climatici accadono spesso, ma la primavera porta sempre a pensare a un tempo mite. Inoltre, sono bastati duecento metri di passeggiata per cambiare tutto.

Mi trovavo al Passo della Guardia e andando verso Collardente la fredda neve mi pungeva il viso, andando verso il Garezzo un sole caldo, invece, ritemprava. Ho persino visto nevicare col sole. Uno spettacolo bellissimo. Come luccicavano quei fiocchi contro la luce solare!

Tre Passi, in fila, uno accanto all’altro, uno più bello dell’altro.

Passo della Guardia era l’ago della bilancia. Alla sua destra, a Passo Collardente, era inverno. Alla sua sinistra, a Passo del Garezzo, era estate.

Da una parte ero imbacuccata come un eschimese, dall’altra in maglietta.

E che natura splendida si mostra a me che cerco di osservare tutto quello che mi circonda.

Di qua, mentre gli occhi si posano sul Passo della Nocciola laggiù in fondo, sulle case della Columbera e sulla Caserma di Vesignana, bacche di Rosa Canina e Helleborus foetidus se ne stanno spenti, con poca vita ed esuberanza, accettando quelle stille ghiacciate.

Una piccola Cinciarella, che per la precisione dovrebbe essere una Cincia Mora, scuote le sue piume e spruzza gocce sugli aghi di pino mentre una bruma abbastanza spessa le permette di confondersi tra i rami.

Sulla strada, la precedente neve non è ancora stata calpestata e si possono vedere impronte di ungulati (così vi faccio vedere che me ne intendo). Probabilmente un Capriolo.

Un pezzo l’ho percorso, ora è il caso ch’io mi vada a riscaldare verso il Garezzo e le case dei pastori.

Qui la temperatura cambia. Tutto è bianco, ma posso spogliarmi. Alcune slavine sono presenti e rendono più difficoltoso il passaggio.

Il paesaggio è reso ancora più suggestivo dalla presenza di alcuni Camosci che si rincorrono sulla neve o stanno fermi in gruppo. Anche alcuni rapaci arricchiscono il cielo, terso di tanto in tanto, o passaggio di nuvole che viaggiano veloci.

I sentieri limitrofi non si vedono, sono coperti dalla neve che lentamente si scioglie sotto il calore dei raggi e il rumore del gocciolio accompagna la mia passeggiata.

In certi punti non si può proprio passare, occorre attendere la bella stagione ma gli occhi e il cuore sono comunque appagati da una vista spettacolare e una natura incontaminata, mozzafiato.

Facendo ritorno al Passo della Guardia non posso non rimanere incantata da Sua Maestà Rocca Barbone, sempre lì, austera, placida, dalla falesia severa che ospita nidi di uccelli affascinanti.

Penso sia meraviglioso vedere i propri luoghi nelle varie stagioni. I loro cambiamenti offrono ogni volta un palcoscenico diverso e anche l’atmosfera cambia, così come il proprio sentire.

Ogni volta è come se fosse una nuova esperienza, un luogo incantato nel quale non si è mai stati, nonostante in realtà si conoscano a memoria quelle bellezze.

Che sensazioni incredibili. E con l’animo leggero faccio ritorno in tana.

Un bacio quattrostagioni a voi!

Il Pungitopo…Ahi!

Come direbbe Puffo Brontolone – Io odio il Pungitopo! -.

Mi tocca farlo, devo parlarvi anche di questa pianta, il Ruscus Aculeatus ma, il suo nome più volgare e comune, mi mette i brividi: Pungitopo. Ma perchè chiamarla così? Perchè avercela così tanto con noi piccoli roditori?

Però, sapete com’è, è talmente bella (anche se cattivissima) e talmente utile, che non potevo non citarla. E, se andrete avanti nella lettura, capirete il perchè.SONY DSC Appartiene alla famiglia delle Ruscaceae e offre delle bacche rosse e tondeggianti che si mischiano al verde cupo, lucido e intenso delle foglie dure e pungenti. Grazie a questo bel connubio, la pianta è considerata una delle più belle piante ornamentali da regalare, alla quale è stato dato il merito di presenziare nella festa santa del Natale per abbellire doni o composizioni assieme all’amico Vischio, con il quale però, non sono nemmeno lontani parenti. SONY DSCA Natale, compare ovunque! Persino disegnata sulle tovaglie del pranzo del 25 Dicembre. Il Pungitopo, come non piace chiamarlo a me, è una pianta davvero particolare. Le hanno dato questo nome perchè un tempo, nelle cucine dei Palazzi, veniva messa intorno alle provviste per non farle rosicchiare dai topi (posso assicurarvi che non abbiamo mai rosicchiato nulla; questa è discriminazione!). Quelle sue foglie acuminate ci tenevano ovviamente ben lontani.SONY DSC Dal punto di vista salutare però, il Pungitopo, è molto simile al Mirtillo e a tutti gli altri “frutti rossi” (così chiamati) in grado di rinforzare le pareti dei nostri capillari e migliorare la circolazione sanguigna come il Lampone, il Melograno e la Mora. E’ una pianta ricca di Vitamina P, per questo riesce in questo compito. Inoltre ha un’azione anche diuretica e questo fa si che riesce a pulire ulteriormente il nostro sangue venoso e la nostra circolazione linfatica, da tossine e prodotti di scarto più velocemente. Come assumerla viene deciso dalla persona: in tisane, in sciroppo, in polvere ma, per chi non lo sapesse, vorrei dire che il Pungitopo è considerata nella medicina popolare, proprio per queste doti diuretiche che possiede, la “Quinta Radice” ossia, nella “composizione delle cinque radici” (che sono: il Finocchio, il Prezzemolo, l’Asparago e il Sedano) essa è il quinto elemento come purificatore dell’organismo.SONY DSC Devo essere sincera però, non so se sono messi in ordine di “potere” o meno, non mi sembra. Hanno più o meno la stessa “potenza”. Anche le sue radici sono un vero elisir lassativo e diuretico. Con i suoi semi lasciati essiccare invece e scottati per poco tempo su lastre di pietra, i Greci, ci facevano una specie di caffè, dal sapore molto forte, che bevevano dopo mangiato per digerire mentre, ancora oggi, sono utilizzati crudi, in cucina, i suoi teneri germogli, e credetemi, devono essere davvero teneri altrimenti non riuscirete a mangiarli, sono duri e amari. Come tutte le piante inoltre, il Pungitopo, ha un suo ben dettagliato significato: se a vederlo può sembrare ombroso e dare un impatto negativo, esso è invece l’esatto contrario; la sua resistenza indica infatti la sopravvivenza e, la sua forma, soprattutto quella delle foglie, faceva credere di essere in grado di tener lontani gli spiriti maligni. Per proteggere i morti dall’oscurità infatti, veniva anche posizionato vicino alla salma o tra le sue mani e, le persone al funerale, ne tenevano un rametto in mano. Bruciarlo, e far salire in alto il fumo che portava il suo odore, era come avvicinarsi alle Santità e far capir loro che li stavano pensando e pregando. A volte veniva usato suo fratello ossia il Pungitopo Maggiore, chiamato scientificamente Ilex Aquifolium, nient’altro che il conosciutissimo Agrifoglio (attenzione alle sue bacche però perchè sono tossiche) e, come lui, il Pungitopo è usato molto nella religione Cristiana perchè la sua foglia ricorderebbe la corona di spine del Cristo. In merito all’Agrifoglio c’è una carinissima leggenda mitologica che narra così:

Re Agrifoglio e Re Quercia sono due figure della mitologia celtica che rappresentano le due forze gemelle, ma allo stesso tempo contrapposte, che regnano nell’universo. Sono le forze naturali che permettono il cambiamento stagionale, l’arrivo della luce e dell’estate, o l’arrivo del riposo con la stagione invernale. Il Re Agrifoglio rappresenta la stagione umida, l’arrivo del freddo e dell’inverno. Possiamo immaginarcelo come più anziano e più saggio, collegato anche al riposo ed al sacrificio. Il Re Quercia invece ha una connotazione più dinamica ed attiva: egli rappresenta la forza dell’estate e del Sole nel suo pieno splendore. Queste due forze si sfidano eternamente nel corso degli anni: ad ogni solstizio Re Agrifoglio e Re Quercia si sfidano, perché il tempo possa progredire e la stagione cambiare. Durante il Solstizio d’Inverno è il Re Quercia a prevalere su Re Agrifoglio. Nel momento stesso in cui la forza dell’avversario è al culmine (ovvero è la notte più lunga dell’anno) comincia però il suo declino, lasciando lo spazio al ritorno della luce, del Sole e dell’estate. Il Re Quercia vincerà per permettere che la terra possa nuovamente fiorire e dare frutti. Egli conquisterà anche il favore e l’amore della Dea, con cui si unirà a Beltane e da quell’unione nascerà nuova vita. Al contrario durante il Solstizio d’Estate sarà il Re Quercia a soccombere, perché la Terra possa sfiorire e riposare e prepararsi ad un nuovo ciclo. Possiamo vederle come due facce di uno stesso Dio Cornuto (o Dio della foresta), due facce che rappresentano la dinamica Vita-Morte-Rinascita (o Vita-Morte-Vita) e quindi come un ulteriore riferimento alle forze della natura ed alla ciclicità della vita naturale, materiale, ma anche spirituale. Perché queste forze non moriranno mai per davvero, esse risiedono latenti, aspettando fino al momento opportuno, per tornare quando ci sarà più bisogno di loro. In alcuni miti si dice infatti che la forza che viene sconfitta dimorerà i sei messi successivi nella dimora della Dea Arianrhod. L’importante è che nessuna forza possa mai prevalere sull’altra, poiché questo porterebbe ad uno squilibrio naturale ed alla distruzione”.SONY DSC

Carina vero? L’ho trovata per voi su forumfree.it. E l’Agrifoglio è quello che posso mostrarvi qui. Cresce spontaneo nella mia valle. Come fare a riconoscere L’Ilex dal Ruscus? L’Ilex – Agrifoglio (quello di queste immagini) è più grande, può arrivare fino ai 10 metri d’altezza e la sua foglia è larga con piccolissime spinette sul bordo; il Ruscus, non supera gli 80 centimetri e le sue foglie sono piccole e lanceolate ma, tutti e due, adorano il bosco. Un bacione pungente topi.

M.

Tra un po’ andrà a sonnecchiare

E ci starà circa 6 mesi! Dev’essere un mio lontano parente, è un roditore come me. Il suo nome scientifico è simpaticissimo; si chiama Glis Glis.

Cari topi, la mia socia Niky è tornata al lavoro (finalmente) e, insieme, abbiamo deciso di farvi conoscere questo simpatico animaletto. Non abbiate paura, è un amico non un rivale. E’ così tenero e dolce! Può essere addomesticato molto facilmente sapete? Ma quando sono così liberi nel loro ambiente naturale è decisamente meglio. DSC_1401-1State guardando un cucciolo di Ghiro, una delle creature del bosco più simpatiche che la natura abbia creato. Quelle sue orecchiette quasi sproporzionate e quasi sempre fredde, e quei suoi occhi grandissimi, gli donano un aspetto indifeso e coccoloso. Il suo pelo è morbidissimo e, anche se può avere movimenti impacciati, da sembrare spesso un imbranato (come quando sbatte contro le cose), è in realtà veloce e scattante. Pigro sì, ma non è un Bradipo. Anche da adulto è piccolissimo. Una trentina di centimetri in tutto; eh sì, ma solo la coda è lunga 15 cm! Sta in una mano, proprio come me.

E’ morbido e profuma di bosco, di nocciole, di muschio. Il suo pelo è per la maggior parte grigio ma sul ventre spicca una macchia bianca che lo distingue. Il naso invece è sempre rosa, soprattutto negli esemplari giovani dove questo rosa non si è ancora… sbiadito. Le sue zampette riescono a stringersi forte attorno a quello che afferrano e questo permette al Ghiro di avere una solida base per le arrampicate.

E’ un animale prevalentemente notturno (lo dicono i suoi grandi occhi) e, nelle passeggiate al chiar di luna, raccoglie i suoi cibi preferiti che sono: le castagne, le bacche, le nocciole e anche i funghi. E che fiuto e che sensibilità ha nel riconoscere i funghi commestibili da quelli velenosi! Un vero maestro. Dove vive lui, di funghi, ce ne sono parecchi in quanto abita le zone temperate di tutta Europa e gran parte di Asia ad un’altitudine molto ampia, dai 500 metri sul livello del mare circa, fino ai 1200.

Se preso in mano, il Ghiro, tende a tenersi stretto a un dito quasi, come una piccola scimmietta, e con quel suo sguardo tenero scruta chi lo sta osservando. Se accarezzato sulla nuca, beh… immaginate voi cosa può fare… addormentarsi, è ovvio!DSC_1399-1 Questo cucciolo, scambiandola forse per il tronco di un albero, ha provato ad arrampicarsi sulla gamba del mio amico Davide ma poi ha visto che non c’erano rami e quindi ha preferito altre mete. E’ stato però un po’ lì, fermo, a guardare. Per nulla impaurito. Un vero amore.

Senza discutere nessun uso e costume vi dico anche che esistono varie ricette tradizionali a base di Ghiro, soprattutto originarie della Calabria, ma non solo. Per esempio, il Ghiro arrosto, è cucinato in Lombardia. Veniva cacciato fin dal tempo dei Romani sapete? Veniva fatto ingrassare dentro a degli otri e poi mangiato come antipasto. Tuttavia, essendo un animale la cui caccia è vietata, ogni consumo alimentare è da ritenersi illegale. Anche perchè non ce ne sono più tantissimi come una volta ma nella mia Valle possiamo ritenerci fortunati. La loro presenza non manca.

Non scherzo se vi dico cosa è successo ad una mia amica che vive nelle alte colline della Valle Argentina; il Ghiro si è creato il nido nell’armadio di lei, e mò vallo a disturbare! Immaginatevi la scena e lui tranquillo come un pascià.

Sono molto contenta di avervelo presentato, se doveste vederne uno sappiate che avete davanti un esserino grazioso, amabile e affettuoso.

Un bacione a tutti.

I ghiri
Nella tana, babbo ghiro
fa: “Ron ron, dunque dormite!”.
E i ghirini, tutti in giro:
“Ron ron ron, sì sì, dormiamo!”.
Sbadigliando, mamma ghira,
fa un sorriso: “Bravi figli!”.
La famiglia si rigira
e ron ron, si riaddormenta.
C’è là fuori la tormenta!
C’è là fuori il freddo inverno!
“Sì, ron ron, che ce ne importa?
Noi dormiamo qui all’interno!”.

La poesia arriva dal sito lapappadolce.net -imparare coi bambini-.

M.

Il Ginepro, la pianta degli eroi

Il Juniperus Communi, chiamato anche Sabina, si adatta a ogni situazione. Pensate che, anche dove non potrebbe sopravvivere, possiamo scorgerlo di fianco a due Pini Silvestri che gli garantiscono, nonostante tutte le condizioni del luogo a lui avverse, un’aria pura e quasi disinfettata. È per questo che, di comune accordo, decide di rimanere lì e, per contraccambiare, dona vigore e longevità agli aiutanti. Come? Semplice. Glielo dice.

«Crescete, crescete pure. Qui sotto penso a tutto io!»

Eh sì, topi, il Ginepro non ha paura di niente. Impavido resiste a qualsiasi stagione, con il suo odore resinoso. I suoi aghetti, se occorre, sono pronti a difendere la pianta come  una leonessa fa con il suo territorio.

Lo sapete cosa dice un proverbio su di lui? “Dove c’è profumo di Ginepro, non sosta il demonio”. Da tempi antichissimi sono conosciute queste sue particolarità, questa sua forza alla quale non servono muscoli.

Arkheutos, il suo nome greco, significa “allontanare il nemico”. E secondo voi, nella mia Valle, dove c’è ancora la tradizionale “credenza” alle streghe, cosa può esserci appeso alle porte delle case? Sì, il Ginepro è il nostro cane da guardia.

È un eroe, un valoroso paladino! E quando da solo non ce la fa, come accade nelle umide foreste dove vive con grande difficoltà, pensate… chiama l’edera a sostenerlo. Glielo ordina tassativamente! Vi ricordate cosa vi avevo detto dell’edera? Le comanda di giungere in suo aiuto, la ricatta. Se non si muove, non le offrirà la difesa tanto sognata.

Non mi sono ammattita, topi: è il linguaggio del bosco. Basta saperlo leggere, ascoltare, vedere. E’ così che dovrebbero vivere anche gli esseri umani, aiutandosi reciprocamente. Alcuni sono più bravi in una cosa, altri sono migliori in un’altra; è la cooperazione l’arma vincente.

Il motto del Ginepro è: “Verrò in tuo aiuto”. Pensate che bel nome hanno le sue bacche! Vengono chiamate coccole.

Questa pianta gradisce un clima secco, una terra quasi arida. Quando vi capiterà di vederlo in qualche nostro bosco parecchio fresco, se non addirittura umido, sappiatelo: siete davanti a un alberello che è un vero campione! Facciamo un inchino a questa pianta meravigliosa, se lo merita.

Io, intanto, vado a conoscerne un’altra e poi ve la presento.

A presto!

M.

Un Santuario e un Ristorante

Siamo di nuovo presso il ponte di Loreto, ma questa volta non è per parlarvi di lui.

Da come potete vedere in questa prima foto, a ridosso del monte, vicino al ponte, ci sono una chiesetta e una casa bianca; quella è una trattoria.

Basta. Non c’è altro, ma è proprio lì che oggi andremo, perchè anche loro, meritano una visita. Perchè sono da sole, si tengono compagnia assieme a qualche minuta casetta qua e là ma sanno offrire tanto. Fanno ovviamente parte del comune di Triora.

Il Santuario, nominato anche Santuario di Nostra Signora delle Saline, sta a significare e ricordare, lo smercio che si effettuava attraverso la Via del Sale che collegava la Valle Argentina con il Piemonte. Una delle tante Vie del Sale in quanto, sì, sono parecchie.

A questo Santuario, ogni prima domenica di settembre, i fedeli dedicano una festa e, nel corso degli anni, lo hanno riempito di voti e testimonianze di fede in onore alle grazie ricevute dalla Madonna.

Costruito interamente in pietra e appoggiato su una grande roccia, ci offre un artistico campanile che sembra un puzzle di sassi e, accanto a lui, possiamo godere di una vista spettacolare.

Al suo interno troviamo anche numerosi dipinti di Lorenzo Gastaldi, pittore del ‘600 e notiamo che, questo nome, non si accomuna solo ai quadri che lo abbelliscono ma anche ad una lapide, sulla parete esterna della chiesa a testimoniare che, quel luogo di preghiera, fu proprio fatto costruire dalla famiglia Gastaldi di Triora, nella prima metà del XVI secolo, come descrive anche nei suoi scritti, Padre Francesco Ferraironi nel 1913.

Questo Padre, sacerdote e grande conoscitore della Valle Argentina, ha fatto incidere e collocare tantissime targhe in Triora e nelle vicinanze e, il Santuario di Loreto, ne è la dimostrazione. Una bellissima insegna, in marmo bianco, del 1953, ad esempio, riporta una frase, in dialetto, nella quale si richiede protezione costante alla Nostra Signora : Madonna di Loreto, Madre Santa, prendetevi di noi tanta compassione, fate da intercezione presso Dio, essendo la nostra vera protettrice. Noi vogliamo la vostra benedizione, che ci guidi tutti finchè viviamo.

Leggendola nel nostro dialetto, potete notare le simpatiche rime.

Davanti al Santuario, sopra al portone sovrastato totalmente da un portico  in ardesia, c’è un bellissimo dipinto raffigurante gli Angeli che trasportano Maria, con Gesù neonato, contornata da nuvole.

La scritta in latino sta a significare un messaggio per ogni pellegrino: – Sotto questo tetto nessun voto va perduto. Da questa fortezza nessun uomo torna rattristato -.

E’ proprio di fronte a questa entrata che si erge il monumento in onore ai martiri della libertà della Valle Argentina e, in principal modo, a Gian Vittorio Guglielmo Vitto, Comandante della II divisione Garibaldi, mancato nel 2002.

Un grande masso, ornato di fiori, ne riporta il viso scolpito con massima precisione.

E’ dall’altra parte della strada invece che troviamo il piccolo ristorante di Loreto, il bar-trattoria, rappresentato da una semplice insegna, dove sopra sta scritto “Cucina Tipica Ligure” e niente di più.

A parte il mio rapporto di – odio/amore – con la proprietaria, dato che mi detesta perchè le fotografo le bacche degli arbusti fuori dal suo ristorante (potete capire di cosa sto parlando nel mio post “Sfatiamo un mito”), io adoro questo posticino, perchè è veramente tranquillo e la sua particolarità è che, a qualsiasi ora tu arrivi, puoi ordinare panini al salame a volontà. Si ok… ehm… con il salame, la signora è un pò tirchia ma… diciamo che le voglio bene lo stesso. Oh! Siamo liguri o no?

Ecco quindi giungere sul nostro tavolo fette di morbido pane di Triora, un tipico pane delle nostre parti, con del buon salume, accompagnato da una bottiglia di acqua fresca della sorgente e ottimo Dolcetto. Mi è d’obbligo, a questo punto, perdonare la tenutaria dai suoi sguardi malefici nei miei confronti e verso la mia fida macchina fotografica.

All’interno, questo modesto locale, arredato come un tempo erano le osterie montane, è colmo di fiori secchi, teiere di ogni tipo, pentole di rame appese, animali imbalsamati: una volpe, una testa di cinghiale, un tasso, degli uccelli e i pochi tavolacci di legno, che arredano la sala da pranzo, sono ricoperti da tovaglie a quadretti bianchi e rossi, colorando così in modo alpino e “alla buona”.

Ora, è inutile che sto a raccontarvi cosa non ho dovuto fare per fotografarvi la volpe che vedete nelle immagini. Non solo le capriole e i tripli salti carpiati, ma ho dovuto anche distrarre la ristoratrice. Se si arrabbia per le bacche selvatiche, figuriamoci per la volpe di sua proprietà!

Questa macabra immagine (lo so), può non essere piacevole e lo riconosco, ma così è abbellito questo luogo e come tanti altri d’altronde. Purtroppo è l’usanza. Io comunque me ne vado prima di venire impagliata anch’io. Il lato positivo è un delizioso e gustosissimo menù in un posticino alla buona, economico e isolato da traffico e rumori.

Vi saluto e scappo, alla prossima, vostra Pigmy.

M.