Upega – cugina di I° grado

I ricordi che ho sigillato qui, dietro la porta dell’albergo Edelweiss sono tantissimi.

La festa in maschera, il passaggio del motociclista, la fontana e il lavatoio, i colpi alla pentolaccia, i gerridi e i girini, i racconti dell’orrore. Provo a guardare attraverso la finestra come a ritrovarli palpabili, concreti.

Edelweiss – Stella Alpina. Stella raggomitolata nel suo caldo burberry dalle tinte chiare. Stella di Upega. Dove, in inverno, la neve permette a tutti di riposare trasformando il paesino in un presepe.

Io invece, vivevo questo paese in estate, con gli amici, la topo zia, il pallone e il gioco del nascondino.

Mica si può andare sempre nei soliti posti. Cambiamo un po’. Andiamo a Upega.

Non c’è nulla a Upega; come potete pensare che una bambina possa divertirsi a Upega? Oltre la Gola, dopo Viozene, par non esserci più niente. Solo gli speleologi si sono avventurati e hanno scoperto Upega. Non appare nemmeno sulle vecchie cartine.

Vedi Pigmy, quei monti, davanti a te… lì è passato nonno, a piedi sai? -.

E quella mano tremante disegnava l’immaginabile profilo stagliato nel cielo tra le aspre falesie. Lì era passato suo fratello. Un pò di storia, di sentimento e poi via, a giocare, a rincorrere i cavalli selvatici.

Una bambina deve divertirsi a Upega. Può farlo, perchè in fondo c’è tutto quello che serve a Upega.

Upega, 1.300 metri sul livello del mare.

Upega, U con due punti sulla u. Pegau – Posizionato in alto. Questo il significato del suo nome. Oppure – Opaco -, dove non ci picchia il sole, chi può dirlo. Sono significati così anichi.

Upega, in provincia di Cuneo. Upega, terra brigasca. Ecco perchè cugina prima. La terra dei Brigaschi dove, anche la mia Valle, la Valle Argentina risiede, in su, verso la Francia, verso il Piemonte. La terra dei Brigaschi, la terra dell’Occitano, del Nizzardo, del Ligure, del Piemontese, insieme, a formare un’insolita tribù.

Con le sue tradizioni, il suo folklore, la sua cultura. Quel dialetto intemelio, particolarissimo.

Upega, pays brigasque, da poco riconosciuto come tale e d’inverno isolato dal mondo, con il suo Bosco Nero di Larici e Abeti e la sua Gola delle Fascette a preannunciarlo.

Con la – Sorgente della Salute -, della lunga vita, che sfocia da un tronco d’albero, fredda come i tre metri di neve che vengono a nascondersi dietro questi monti e danno il nome alla piccola Chiesa.

Upega, il Santuario della Madonna della Neve e i pascoli in fiore. Upega raccontata dalla rivista Ní d’áigura (Il nido dell’aquila). Rivista brigasca.

Upega, appoggiata nell’Alta Val Tanaro, ai piedi del massiccio del Marguareis, con le sue orchidee selvatiche e il profumo di Raschera che esce dalle baite montane. E le mucche e le pecore erano un’attrazione per noi bambini. E si giocava a fare i pastori credendo che obbidivano proprio a noi. E si portavano al di fuori del Bosco delle Navette, incuranti dei pericoli, della distanza da casa, delle voci che chiamavano, dell’abbaiar dei cani.

Arroccato alle pendici della lunga cresta del Ferà, godendo di tutti i piaceri della montagna, questo paese, appartenente al Comune di Briga Alta, è a soli 20 km dal mare e la strada che dall’Aurelia ci porta a lui è spettacolare; verde e tortuosa, panoramica e stupefacente.

E l’incontro dei suoi tre torrenti: il Negrone, il Corvo e il Znìge, che con le loro felci e le loro ninfee sono un palcoscenico da fiaba.

Upega, con il suo forno comune, il suo mulino comune, la sua grande Chiesa, la Chiesa di Sant’Anna, che risale presumibilmente alla seconda metà del XVIII secolo. Tutta in pietra e con un piccolo piazzale davanti a sè, essa ha sostituito una più antica cappella, ubicata dietro l’edificio del forno e adibita un tempo a cimitero, in comune anch’esso. Questo prima che venisse distrutta alla fine dell’ Ottocento.

Upega, oggi meta turistica, passaggio nascosto di Alpini e Partigiani, dai balconi di legno e dalle case caratteristiche in pietra con fienili sovrastanti l’abitato.

Case con i tetti in ciappe e uniti tra loro in un lungo susseguirsi come in una processione a coprire 25 abitanti che, un tempo, erano più di 400.

E oggi vi ho fatto conoscere Upega topi, nostra parente, parente stretta. Paesaggio tipico di un’antica terra. E, nella speranza di avervi reso la lettura interessante, vi aspetto per la prossima passeggiata.

Ora mi rilasso, chiudo gli occhi e immagino, ricordo, la vita all’interno dell’albergo Edelweiss. Del suo simpatico proprietario con le sopracciglia un po’ all’insù e sua moglie, ben pasciuta, che cucinava divinamente.

Un albergo avvolto dal verde ora. Un albergo che oggi, non esiste più.

M.

Accade anche questo

Quando Archelfo, ieri, ha commentato il mio post sulle streghe, mi ha chiesto di raccontare una cosuccia che mi è capitata, anzi, che forse ho fatto capitare, qualche anno fa.

Stavo camminando per strada e quell’uomo, brutto e cattivo come la peste, mi guardava passando con una specie di piccolo trattore e sogghignava. Stava seduto, col suo cappello di panno sopra una di quelle vetture con le quali si va nell’orto, era come un motore con dietro un piccolo cassone completamente arrugginito. Io lo guardavo, lo detestavo e dentro di me dicevo: «Ma ti scoppiasse una gomma, defi….e!».

Non c’era un motivo particolare, era solo un uomo odioso, spocchioso e superbo e io non lo potevo vedere.

Mi sono spaventata io stessa perché, non appena ho terminato la frase, ho sentito come uno scoppio sordo e forte. La ruota del suo trabiccolo era scoppiata davvero! Non era esplosa, ma dopo quel botto si stava accasciando al suolo e il trattore si era inclinato così tanto che l’uomo, bestemmiando in piemontese, era dovuto scendere. Ovviamente andava pianissimo, a passo d’uomo, con quel trabiccolo.

«Boia faus! L’è n’en pussibl na f’è parei! Cuma diau….» e boia di qui e boia di là.

Corsi a casa a raccontare a mia madre l’accaduto, perché ero veramente impressionata da ciò che “avevo combinato”! Ebbene sì, mi davo la colpa dell’accaduto, e cose come questa me ne sono capitate parecchie nella vita (non di augurare fattacci e disavventure, ovviamente, quanto piuttosto di immaginare cose o sentirle e poi vederle accadere).

Noi topini siamo sensibili. Ma non è di questo che volevo parlarvi, si tratta sempre di una vicenda, bellissima, che mi è accaduta quando ero bambina, un po’ incomprensibile anch’essa, ma che porto tutt’ora nel cuore. Non c’entra con le coincidenze o lo sperare di riuscire in una cosa, ma è comunque affascinante per la mente e per tutto quel che nasconde, non solo lei, ma anche quelle forze, sesti sensi – chiamateli come volete – in cui viviamo.

Avevo 7 anni. Era estate e tutti gli anni da giugno a settembre andavo ad Andagna, un bellissimo paesino della mia valle, con una zia a passare le vacanze. Era un po’ il mio secondo paese.

Andagna era un posticino tranquillo, contava – e conta ancora oggi – poche anime. Tutti mi conoscevano e sapevano dov’ero, quando invece la mia povera zia non riusciva a trovarmi e mi cercava ovunque. Verso i primi giorni d’agosto di quell’anno, arrivò in paese un cane. Assomigliava a un lupo, col suo pelo castano chiaro e scuro. L’arrivo di un cane ad Andagna mise la gente in agitazione perché era un essere “nuovo”, che non faceva parte della… comunità. Tra l’altro dovete sapere che nella mia valle era usanza, per educare, o meglio, spaventare i bambini, parlare del lupo come dell’uomo nero. Era per questo che quel cane, fin dall’inizio, non piacque a nessuno. I vecchi borbottavano tra loro nel nostro tipico dialetto:

«Ma de chi u l’è stu can? Ti u sai?»

«Da dundu u l’è sciurtiu?»

«U l’è sporcu, u saeà anche cativu, a gu u lezzu in tu u sguardu cu l’è cativu!»

E, ovviamente, i bambini non erano da meno, sentendo gli adulti parlare in quel modo. Gli tiravano le pietre, lo canzonavano, nessuno si ci avvicinava, ma da lontano gliene dicevano di tutti i colori.

Eppure lui non se ne andava. Stava spesso in un sottotetto in piazza, dove noi bambini giocavamo. Alto, lontano da noi, sopra una casa a due piani.

Riusciva a passare di lì perché la casa, da dietro, poggiava sulla terra. I due piani dell’edificio erano percepibili solo da un lato. Da lassù ci guardava, schivando le pietre o i ricci di castagne d’India che Franco e il Mago con la compagnia gli tiravano.

I suoi occhi nocciola, guardando il sole, diventavano rossi come rubini e fu così che venne nominato presto “il cane del diavolo”.  Fortunatamente, gli anziani del posto, parlavano tanto, ma agivano poco, perché comunque nessuno ha mai fatto del male, seriamente, a quel randagio. A noi ragazzini, però, faceva paura e poi, sapete come sono i bimbi, da una goccia, ne fanno un mare.

Ricordo che un giorno, nei giochi della piazza mentre dondolavo sull’altalena, da sola, lui arrivò, si fermò dall’altra parte del parco e si mise a guardarmi. Io, me ne andai. Ebbi timore: e se tutto quello che dicevano fosse stato vero?

Un pomeriggio ero con le mie due amiche a giocare. Erano due bambine buone come il pane, mezze francesi e mezze italiane, rosse di capelli e con le lentiggini. Una era più grande di me, l’altra più piccola. Eravamo sempre insieme.

«Andiamo alla villa a far da mangiare!»

Andiamo.

La villa era un’enorme casa abbandonata, disabitata da anni, dietro la chiesa del paese. Avete presente quelle case nei film, con quei portoni di legno massiccio, il cancello chiuso con catena e lucchetto, e davanti l’erba, incolta, alta più di un metro? Ecco, quella catapecchia era uguale. Per noi, far da mangiare, significava mischiare fiori, foglie di menta con sabbia e acqua e preparare delle torte. Nel cortile di questa casa fantasma avevamo trovato delle pentole e delle bacinelle. Andavamo lì tutti i giorni e dovevamo passare da un buco nella rete della recinzione. Ci sedevamo sotto quel portone tarlato e iniziavamo a impiastricciare, fingendo di essere delle comari che si invitavano a cena l’una con l’altra.

Fu una di quelle volte che accadde.

Stavamo sedute in cerchio tutte e tre, io e le due sorelle rosse. Io davo la schiena al portone chiuso a chiave e loro erano una di fronte a me e l’altra di lato, un po’ più distante, perché era sempre senza “ingredienti” e quindi preferiva sedere vicino all’erba per la mancanza di voglia nel doversi alzare ogni due minuti. Io, di quel momento, ricordo solo che stavo pestando delle foglie con una pietra. Rammento anche all’improvviso il forte, fortissimo, urlo di Marie: «PIGMY!».

Non vidi più nulla, sentii soltanto come una forza che mi sballottava, trascinava, non lo so nemmeno io. Gli altri “Pigmy” di Marie li sentii in lontananza.

Sapevo di avere gli occhi aperti, ma non vedevo nulla, solo dopo capii.

Un’immensa nuvola di polvere e fumo grigia mi circondava, non vedevo nemmeno le mie mani. Ero ancora seduta a terra, ma non ero più nello stesso punto.

Quando la nebbia si diradò, ero a circa 7-8 metri di distanza da dov’ero prima. 7-8 metri li ho nei miei ricordi di bambina, potevano essere meno o forse di più.

Marie era dall’altra parte del giardino, nemmeno lei era più sotto il portico, mentre sua sorella ferma, nella stessa posizione, con in viso un’espressione di shock totale. Era come inebetita. Marie mi corse incontro, tentennò un po’ ad avvicinarsi, ma poi mi abbracciò e ricordo la sua manina mettermi i capelli dietro le orecchie. Ogni tanto guardava dietro di me. Dopo un po’ mi voltai anch’io.

Dietro di me, a un palmo da dove mi trovavo, c’era “il cane del diavolo” che ansimava con la lingua a penzoloni. Ricordo ancora il suo fiato caldo nella testa. Rabbrividii, sembrò quasi che la mia amica lo capì.

«Ti ha trascinato fin qui!» mi disse.

In quel momento capii cos’era successo. Il mastodontico portone crollò di colpo. Quel cane doveva già essere lì, ma noi non l’avevamo visto, altrimenti come altro aveva fatto? Se lui non mi avesse trascinata, con la bocca, più in là, quel portone mi avrebbe uccisa. Era veramente pesante, quella porta, e io avevo appena sette anni.

La mia camicia a quadri rossi e marroni era strappata all’altezza della spalla, così come il colletto. I segni dei suoi denti mi avevano graffiato, ma non mi usciva sangue, avevo appena una spellatura e qualche piccolo livido sottostante. Tra i suoi denti c’erano i miei capelli.

Spontaneamente, lo accarezzai. Dopo di me, venne il turno di Marie, anche lei lo accarezzò. La sorella di Marie, Cristina, continuava a stare seduta là, non era nella traiettoria del portone. L’unica che l’ha visto scendere, sbucare all’improvviso e portarmi via fu Marie, che dava la faccia al portone ed era riuscita a scansarsi.

Ero piena di polvere. Andai a casa di mia zia, il cane sempre dietro. Raccontai tutto a quella donna che mi ascoltava con la testa tra le mani e continuava a dire: «Oh! U me pulin!», che in italiano significa il mio pulcino. A parte la mia espressione, ero con le mie testimoni e utile mi fu, in questa storia incredibile, lo strappo sulla camicia e il segno dei denti. La saliva. Il bottone mancante. Mia zia uscì fuori, ai tempi la porta di casa si teneva sempre aperta e gli diede da bere e due biscotti che mangiò perché lui non entrò mai in casa nostra, stava fuori ad aspettare.

Da quel giorno, stette sempre con noi e sempre nella villa a preparare da mangiare. Ormai il portone era caduto, pensavamo noi, anche se ci avevano vietato di ritornarci. Il Mago gli tirò un altro riccio di castagna e io lo morsicai nella schiena forte, come non ho mai morsicato nessuno. Il Mago si girò e mi tirò un calcio, così potente nella pancia che non respirai per un quarto d’ora, ma il segno dei miei denti, secondo me, ce l’ha ancora adesso.

Un giorno il cane sparì, non lo vedemmo più per un po’, poi ritornò, lindo e pulito, spazzolato e profumato. Allora, forse, era di qualcuno! Ma di chi?

Dissero che era di un pastore di Molini, ma senza alcuna certezza. Stette con noi tre tutto il pomeriggio, ero convinta di rivederlo l’indomani, ma non lo vidi mai più. Non venne i giorni a seguire, né l’anno dopo, non venne più.

Non ho sognato. Mia zia tenne la mia camicia per tanti anni, poi, chissà cosa ne hanno fatto le mie cugine, che con ogni probabilità la consideravano cianfrusaglia.

Sono passati 26 anni, ma ricordo tutto come se fosse accaduto ieri. Il rumore, l’odore di cane, la polvere, Marie. Di quel giorno penso di aver capito molte cose e altre, invece, come i giri della coincidenza, non voglio nemmeno capirli. Eppure una cosa mi è rimasta nella testa, alla quale mi piacerebbe dare una spiegazione. Dov’era? Come faceva a essere lì senza che noi lo vedessimo? Da dove è uscito così all’improvviso? E chissà da quanti giorni stava lì con noi.

Ti ricordo ancora.

Pigmy.

M.