La frazione abbandonata di Merli

Tutto ha inizio da qui, dalla minuscola chiesetta di San Giovanni Battista che si trova sopra a Molini di Triora andando verso Langan.

Ha inizio una scoperta, un fascino antico, un luogo disabitato senza più vita che fermo, immobile si lascia baciare dal sole.

Siamo due curve dopo Perallo e ci inoltriamo dentro al bosco che inizia formato da Castagni per poi trasformarsi in una specie di cunicolo che curiosa in mezzo alla fitta macchia.

Qui, in un tempo che oggi non esiste più, abitavano persone, tante persone.

Stiamo infatti andando in un’antica frazione della Valle Argentina chiamata Merli, che assieme ai piccoli borghi di Perallo e Moneghetti contava ben 600 abitanti circa fino alla prima metà nel ‘900. Un importante e noto “triangolo” appartenente al Comune di Molini.

Merli fu la prima località, seguita poi dalle altre, a spopolarsi.

Da qui partivano i muli carichi di raccolto da portare nei paesi più grandi e vendere. Legna, castagne, olive. Alcuni muli conoscevano la strada a memoria e, nella loro risalita, incrociavano spesso la corriera che effettuava il suo ultimo tragitto.

I bimbi di Merli andavano a scuola a Perallo e i contadini coltivavano su fasce piane delle quali oggi se ne nota solo l’ombra. Prima della guerra, il nucleo abitativo era di circa un centinaio di persone.

Si dice anche però che in questa frazione, anticamente, vivevano le persone malate di lebbra per restare isolate dal resto della comunità.

Oggi a regnare assoluti sono i rovi; mi auguro vi siate vestiti adeguatamente per seguirmi perché se vogliamo inoltrarci tra questi casoni, da noi chiamati “bareghi”, dobbiamo considerare il fatto di rimanere appesi a queste grosse spine… “ma chi me l’ha fatto fare…!”… Ovviamente sto scherzando. Sono molto felice di essere qui e scoprire questo luogo che appartiene alla mia Valle.

Un luogo abbandonato, quasi dimenticato.

Non tutti conoscono Merli. Ma di sicuro vive ancora nel cuore di chi è cresciuto da queste parti o aveva i nonni provenienti proprio da questa località.

I ruderi che ci attendono sono circondati da Roveti, qualche Tasso, Roverelle, Ulivi e Ginestra sfiorita. Presumo che qui, in tarda primavera, sia tutto giallo.

In questo momento dell’autunno si possono vedere dei colori sul Poggio dell’Agrifoglio di fronte a noi, un Poggio silenzioso che osserva, ciò che resta di questo borgo, giorno e notte.

In mezzo a queste mura invece riecheggia il crocidare delle Ghiandaie e ti obbligano a voltare lo sguardo al cielo.

Il panorama è spettacolare sia da una parte che dall’altra. Da dietro un Ciliegio si scorge Andagna sui monti di fronte.

Sopra di lei svetta il Carmo dei Brocchi e si vede il Passo della Mezzaluna. In questo momento un po’ coperti da nuvole bianche.

Vicino a noi invece svetta il campanile della Chiesa dedicata alla Madonna di Laghet di Perallo.

Provo a immaginare la vita di chi tra queste pietre ha vissuto. Guardo il sentiero sul quale poggiano le mie zampe. E’ semidistrutto, in certi punti anche pericoloso perché stretto e buchi posti a tranello sono ricoperti dall’erba.

Immagino uomini e donne aggirarsi per quelle case, salutarsi, darsi il – Buon appetito –, alla sera, prima di rincasare dove ora non si può nemmeno passare.

Alcune rocce sulle quali bisogna passare sono grandi, scivolose, taglienti, un tempo ricoperte sicuramente da terra battuta.

La pioggia dei giorni scorsi ha reso tutto ancora più umido ma anche più luccicante come i fiori e i funghi.

Altri ruderi si mostrano poco più avanti. Sono sparsi e alcuni si fa fatica a individuarli. Ad accoglierci non ci sono più le persone ma un albero di mele.

Tocco quelle che un tempo erano dimore di vita, di famiglie, di focolari domestici. Sono fredde, piccole. Alcune erano solo stalle e ripostigli.

E’ bello camminare qui, scoprire un nuovo rudere dietro qualche pianta. E’ scoprire il passato.

Sono soddisfatta anche se graffiata e con le braghe bagnate dalla rugiada. Sono contenta di essere venuta a visitare questo posto.

Contenta di aver scovato qualcosa che la natura ha giustamente ricoperto.

Ora vi saluto perché i luoghi della mia Valle non sono finiti e vi porterò con me a scoprirne altri ma prima lasciatemi riposare un po’.

Vignago – il borgo antico

Oggi, Topi, concedetevi un po’ di tempo per seguirmi perché si va a visitare una piccola perla della Valle Argentina.

Il tempo non vi servirà solo per arrivare in questo luogo che si trova sopra al paese di Corte ma anche per immergervi in un altro tipo di tempo che oggi non esiste più ma, in qualche modo, ha saputo lasciare qualcosa di sé, persino il suo profumo e la sua voce.

Attraverso gli oggetti, gli angoli caratteristici, i carrugi, le finestre e l’atmosfera, il – passato è ancora presente – anche se sembra una frase assurda da recitare ma vedrete che dico bene se verrete con me.

Andiamo a Vignago, il borgo piccolo e antico. Il borgo sotto la Rocca.

Il nucleo centrale di questo paesino, infatti, è chiamato – Rocchetta -. Questa protagonista si trova esattamente sopra ai tetti delle vecchie abitazioni.

Per arrivare a Vignago si passa nel bosco e il paese stesso è circondato da Castagni e un’infinità di Roverelle. Un tappeto di ghiande viene calpestato dalle nostre zampe mentre giungiamo ad una delle prime costruzioni importanti.

La macchia diventa meno fitta, alcune rocce si sporgono sulla vallata mostrando Triora che domina di fronte e un’edicola ci aspetta presentando la meraviglia che stiamo per vedere.

Le giro intorno; è piccina, un tempo conteneva la statuetta di una Madonna.

Attraverso una delle sue aperture si nota Monte Pellegrino (1.521 mt) che, in questo periodo mostra anche un foliage spettacolare oltre le radure che lo contraddistinguono.

Davanti a lei, un grande albero di Alloro, ritto e austero, sembra consentire l’accesso al sentiero che scende e porta alle vecchie abitazioni.

Una manciata di case completamente in pietra. Una pietra oggi abbandonata. Nessuno vive più qui ma un tempo c’era persino la scuola. Pare che i bambini fossero una decina e gli adulti più numerosi ma, durante il dopoguerra, questa gente decise di trasferirsi in altre zone.

In effetti, salendo per il sentiero che parte dalla località Molini di Pio, dopo Molini di Triora, e quindi dalla parte bassa che conduceva ai paesi più forniti, non è per niente semplice arrivare qui eppure, un tempo, si percorreva questa strada ogni giorno per poi tornare su, superare i primi capanni e raggiungere una delle case più grandi.

Se invece arrivate da Corte e dal bosco di sopra, introdursi in questo borgo è un’esperienza fiabesca e par quasi di sentire una vocina cantare “A mille ce n’è…”…

Si nota subito come in certi tratti la natura, una meravigliosa natura, abbia preso il sopravvento ma non sembra presuntuosa anzi, sembra voler proteggere quel luogo immerso nel silenzio.

Solo qualche lieve fruscio si percepisce, ogni tanto, provenire da dentro i ruderi. Sono i miei cugini Pipistrelli, si saranno sentiti disturbati dalla mia visita, sono dei dormiglioni!

Dopo quel che rimane di qualche casa raggiungiamo una fontana sulla quale una minuscola targa recita queste parole: “Con la unione di tutta la popolazione di Vignago sorge la fontana dell’acqua potabile 12 – 5 – 1951”.

E’ situata in una piccola piazzetta ora ricoperta da erba alta e si trova nel mezzo della striscia di case.

Vignago è infatti un insieme di dimore che costeggiano l’unico carrugio accessibile.

Alcune di loro non hanno più nemmeno il tetto, altre invece riportano una copertura ancora in ciappe di ardesia, altre sono pericolanti, mentre qualcuna è piena di ragnatele al suo interno.

Se le travi e le solette fossero più resistenti penso che un regista, una volta giunto qui, pensi d’essere arrivato nel suo set cinematografico preferito!

Tutto è da guardare, da osservare, da contemplare. Tutto ha tanto da dire. Se ci si ferma con lo sguardo sopra ai vari particolari si notano cose mai viste prime, si può sentire un’antica narrazione e si può immaginare ciò che non si è mai vissuto.

Ho così tanta voglia di portarmi tutto in tana che faccio foto a non finire.

Questa piccola frazione di Corte, e quindi di Molini di Triora che fa Comune, fino al 1903 appartenne al territorio di Triora distaccandosi poi assieme ad altre frazioni vicine ancora oggi abitate.

Alcuni punti ombrosi sono umidi e bui. Capisco perché i Chinotteri qui si trovano bene tra le braccia di Morfeo ma, attraverso alcuni pertugi, la luce del sole entra e i suoi raggi rendono tutto ancora più affascinante donando un bagliore quasi argentato a quei resti circondati da una natura florida.

Travi di legno massicce, lastre incise, porte pesanti e sedie tarlate. Tra le pietre dei muri escono chiodi enormi, arrugginiti, in grado di sostenere il peso eccessivo.

Ci sono finestre chiuse da persiane di legno mentre altre sono oggi solo buchi dalla forma quadrata che permettono di vedere il mondo.

Siamo a circa 700 mt s.l.m. ma potendo vedere, attorno a noi, nei pressi di questo borgo, alcuni degli alti monti della mia Valle, pare di essere ancora più vicini al cielo. Siamo in un punto alto, aperto, che gode di aria buona e tanto sole.

Il panorama è stupendo e obbliga a spalancare gli occhi ma anche le piccole creature accanto a noi non sono niente male.

Insetti, fiori, funghetti, frutti… c’è davvero di tutto qui. Tantissima vita in un luogo che, a prima vista, sembra parlare soltanto di staticità.

E’ vero, il tempo in effetti sembra essersi fermato ma, nonostante il passare di molti anni, un’energia movimentata continua a imperlare tra queste mura.

Non vorrei più andarmene. Mi piacerebbe vivere quest’atmosfera durante le varie ore del tempo ma i miei lavori in tana chiamano e se non torno indietro voi rimanete qui a Vignago senza altri articoli.

E’ bene ch’io rientri quindi ma prima vi mando un bacio antico e vi aspetto per la prossima avventura.

Buon proseguimento Topi!

La filastrocca della strega-Topina

Prunocciola streghetta

Tremano foglie e trema la pelle,

in questa notte senza le stelle:

si chiama Halloween per i bambini,

Samhain la chiamano i Celti vicini,

qui nella Valle precede Ognissanti:

è una festa con nomi per tutti quanti.

E’ notte di streghe, alla Cabotina,

che fanno baldoria da sera a mattina.

Ci sono mostri da Arma a Verdeggia

e restano in vita finché non albeggia.

Di zucche e scope, cappelli e decori

si addobbano i borghi dai mille colori.

Triora e Molini, da sempre stregate,

si vestono a festa, le esagerate!

E gli altri centri, più piccoli e quieti,

nascondono scheletri sotto i tappeti.

Ma in lungo e in largo, in Valle Argentina,

fate attenzione alla brava Topina:

veste di viola o di nero? Chissà,

magari qualcuno avvistarla potrà.

Indossa il cappuccio o forse un cappello?

Avrà la scopa oppure l’ombrello?

Svuotata di polpa e intagliata è la zucca:

dolcetto, scherzetto o toma di mucca?

Quel che è certo per questa serata

è che è una festa davvero stregata.

E voi, amici cari, siate leggeri:

gli spettri leggono i vostri pensieri!

Abbandonatevi ai divertimenti,

e per una volta siate contenti.

La Topina della Valle Argentina

I due fratellini ebrei e la generosità di Creppo

Nonna Desia, ormai lo sapete, è un contenitore inesauribile di racconti. Quel giorno andai da lei per farmi narrare una storia che conoscevo molto bene, tante volte me l’aveva raccontata con la sua voce antica ed è ancora una delle mie preferite dei luoghi in cui vivo.

Così eccomi lì, accovacciata ai piedi della lastra di ardesia conficcata nel terreno che io e le altre creature del bosco chiamavamo Nonna.

«Ah, ratin! Me fa ben au cœ che ti sêi chi cun mi! (Ah, topina! Mi fa bene al cuore vederti qui con me!)» sospirò guardandomi mentre sgranocchiavo delle tenere mandorle ancora verdi.

«Lo so, per questo sono qui, Nonna Desia. Avanti, raccontami la storia di Creppo! Devo scrivere un bell’articolo a tal proposito e vorrei essere sicura di non essermi dimenticata nessun particolare.»

Lei rise di gusto, con quella voce roca e flebile che suscitava un moto d’affetto in me: «I g’avei sèmpre cuita vui zueni, eh? (Sempre frettolosi voi giovani, eh?) E va bene, va bene, a ta cuntentu sciübitu (ti accontento subito), anche se con la memoria che hai e con tutte le volte che te l’ho raccontata sono sicura che la conosci ormai meglio di me. Correva l’anno 1940, ratin, uno degli anni più bui della storia umana. A quel tempo i tedeschi invasero il Belgio e una famigliola che lì abitava fuggì, trovando rifugio nella Francia meridionale. In questa famiglia c’erano due bambini. I se ciamavan… (Si chiamavano…)»

«Rolf e Marianne!» esclamai, per far vedere che ero preparata.

Se Nonna Desia avesse avuto le zampe e un corpo in carne e ossa, se le sarebbe portate sui fianchi con bonario disappunto: «Alantù, se ti a cianti de interumpe autrementi a nu a finisciu ciù! (Insomma, se la smetti di a interrompermi altrimenti non finisco più!) Fammi andare avanti, che lo sai che poi perdo il filo del discorso. Sta’ brava, alantù e senti chi (Sta’ buona, adesso, e ascolta).»

Mi ammutolii e mi lasciai rapire dalla sua voce, proprio come facevo quando ero cucciola.

«Rolf e Marianne, a dixevu (dicevo), erano due bambini, ma in fondo in quei tempi era impossibile comportarsi da tali. U se divegnia grandi de cursa, malaugüratamente (Si cresceva troppo in fretta, purtroppo), e così accadde anche a loro. I genitori dei due bimbi furono catturati dai nemici e portati ad Auschwitz. Rolf e Marianne, invece, furono tratti in salvo da un’anima buona, il signor Angelo Donati: infatti, erano ebrei e… be’, ti u sai ben che fin i l’averevan faitu, se i tedeschi i l’averessen trouvà. Poa gente, ratin! (Sai bene che fine avrebbero fatto, se i tedeschi li avessero trovati. Povera gente, topina!) Nella fuga giunsero in Costa Azzurra, dove dovettero abbandonare Angelo, anch’egli ebreo, ed essere affidati a un altro uomo buono e generoso di nome Francesco Moraldo, che allora era maggiordomo del signor Donati. Tale Francesco, chiamato anche François, era originario proprio di Creppo e decise di portare lì i bambini per nasconderli e salvarli dall’olocausto. A Creppo i poverini furono accolti in casa di Caterina Bracco e di suo marito, il signor Gio Batta Moraldo, meglio conosciuto come Bacì, che altri non era che il papà di François. François, Caterina e Bacì parlottarono per qualche minuto, ragionando sul da farsi, quando Rolf e Marianne furono accompagnati in un’altra casa: quella di Caterina e Bacì, infatti, era troppo piccola per ospitare due anime in più, ci voleva un posto più spazioso e fu trovato dalla sorella di François, Catìn, che soffriva di una malformazione all’anca che la faceva zoppicare, ma questo non le impediva di avere uno sguardo dolce e affettuoso che non mancò di rivolgere ai due nuovi arrivati. La giovane donna abitava con il marito e il loro unico figlio, Franco. La famigliola trovò loro una sistemazione in quella tipica casa di pietra della Valle Argentina.»

Le parole di Nonna Desia erano tali e quali a quelle che usava sempre. La storia dei bimbi di Creppo era ormai come una poesia per lei, la raccontava sempre uguale, senza variazioni, e io sapevo già quale parola avrebbe pronunciato, ancora prima che lei la dicesse. Tuttavia non la fermai, mi lasciai rapire dal suo racconto, trasportata in un’altra epoca, vicino a Rolf e Marianne.

«I due fratellini, beli fioei (bei bimbi), fecero fatica a comprendere il dialetto delle nostre montagne: venivano dalla Francia, non si poteva certo pretendere che conoscessero altri idiomi oltre al loro. Eppure, nonostante le sofferenze che avevano patito con la separazione forzata dai genitori, la loro pericolosa origine ebrea e le difficoltà, si ambientarono bene a Creppo. Furono accolti dalla popolazione del luogo, gli altri bambini e la gente tutta non li esclusero, ma al contrario li aiutarono a integrarsi, proteggendoli cumme i fan e prie di müri cu u teren e-e raixi di-i erburi (come fanno i sassi dei muretti a secco con il terreno e le radici degli alberi.)»

Era una similitudine che mi apriva sempre il cuore, quella. Nonna Desia aveva ragione sul conto dei miei convallesi, gente dura e aspra come la terra che lavorava, ma leale, forte e coraggiosa.

«Tutti sapevano che, se i tedeschi avessero scoperto l’identità dei due fratelli, tutti ne avrebbero pagato le terribili conseguenze. Così cambiarono i loro nomi stranieri di battesimo, che avrebbero destato molti sospetti in un villaggio dell’entroterra ligure, e da quel momento furono italianizzati in Rodolfo e Marianna. I mesi trascorsero in tranquillità e Rolf e Marianne impararono i ritmi della vita quotidiana degli abitanti di Creppo e ne appresero il linguaggio. Durante la giornata aiutavano Bacì e Caterina nei lavori domestici e campestri. Marianne aiutava anche a raccogliere il legname che sarebbe servito alla sopravvivenza del paese durante i mesi più freddi. Quanto a Rolf, se c’era una cosa che proprio non gli piaceva era togliere il letame del gregge dalla stalla…» La risata di Nonna Desia invase la radura, riecheggiando sugli alberi che ne segnavano il confine. «Pouru stelin, u nu l’ea vezzu a ch’ellu-udù, ma u gh’ea carcosa de ciù fetente da fetensia du leame… (Povera stella, non era abituato a quella puzza! Ma c’era qualcosa di assai peggiore del fetore del letame…) Qualche volta Rolf e Marianne si soffermavano a pensare ai loro genitori. Gli mancavano, e allora il magone stringeva loro la gola, ma poi ricordavano la loro fortuna nell’aver trovato della gente meravigliosa, disposta ad aiutarli e proteggerli, e allora il sorriso tornava a illuminare le loro labbra. A Creppo, insieme a Catìn e alla sua famiglia, vivevano momenti spensierati, qualche volta la loro vita somigliava a quanto di più simile ci fosse alla parola “normale”, ma poi la guerra tornava a fare paura, mettendo a tacere le risate e facendo preoccupare per gli affetti, come quando giunse a casa della brava Catìn la polizia tedesca…»

La coda e i baffi mi tremavano sempre in quel punto della storia. Trattenni ancora una volta un gemito e un’esclamazione, permettendo a Nonna Desia di andare avanti senza interruzioni.

«La perquisirono e chiesero a Catìn di chi fossero i bambini che si trovavano sotto il suo tetto, insieme ad altre domande. Catìn fu ferma nelle sue risposte e riuscì a convincere i nazisti che quelli erano tutti figli suoi. I tedeschi alla fine se ne andarono e tutti tirarono un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Rolf e Marianne erano grati a Catìn per tutto quello che faceva per loro, rischiando la sua stessa vita e sacrificandosi per il bene di quelli che, ormai, erano diventati come due veri figli per lei e suo marito. Dopo tanti patimenti e sofferenze, un giorno la campana della chiesa di Creppo suonò a festa: la guerra era finita, finalmente, e tutto il borgo era allegro e gioioso. I crepaoli (abitanti di Creppo) avevano dimostrato l’importanza dell’amore e che è possibile volersi bene, anche quando non si è fratelli o non si nasce nello stesso paese o sotto la stessa bandiera. Rolf e Marianne restarono a Creppo dal settembre 1943 all’aprile 1945, poi François li ricondusse da Angelo Donati, che decise di adottarli. Riacquistarono i loro nomi di battesimo con un’aggiunta importante, Rolf e Marianne Spier-Donati, e non dimenticarono mai la generosità di Creppo e l’amore che lì avevano trovato.»

Quello che Nonna Desia non mi raccontò, ma che scoprii da me, è che nel 1999, molto tempo dopo le vicende di cui lei si faceva sempre portavoce quando glielo chiedevo, Francesco Donati – François – ricevette l’alta onorificenza di Giusto fra le Nazioni dall’istituto Yad Vashem di Gerusalemme in una cerimonia a cui presenziò anche  l’allora sindaco di Triora, insieme al Rappresentante dell’Ambasciata d’Israele.

Nel libro “Ritorno a Erfurt” della scrittrice Olga Tarcali si legge inoltre questo estratto, riportato su una lapide di Creppo a ricordo dei fatti accaduti:

Sapevano che eravamo dei bambini nascosti. Conoscevano il nome di chi ci proteggeva nonché, beninteso, che ciò era rigorosamente segreto. E mai nessuno di quei contadini ci aveva tradito, mai, a rischio delle loro vite e di quelle dei loro familiari. Nessuno aveva trasgredito la ferrea legge di ospitalità degli umili, la grandezza d’animo dei montanari, la silenziosa fierezza della gente semplice. Sebbene fossero poveri, senza mezzi, privi di ogni comodità; sebbene conducessero una vita rozza e austera, un’esistenza aspra e difficile, dettero prova di grande nobiltà d’animo. Essi possedevano l’antico istinto di ciò che si deve e di ciò che non si deve fare.

Questa bella storia, inoltre, è riportata anche in un bellissimo cortometraggio che consiglio a tutti voi topi di vedere, un video realizzato nel 2015 dalla scuola primaria statale P. Ferraironi di Triora e con la partecipazione della locale scuola dell’infanzia, una produzione che ha vinto diversi riconoscimenti.

Con questi bei ricordi e questa storia vera di amore, amicizia, generosità e fratellanza io vi saluto, topi.

Un bacio commosso a tutti!

I Bambini e le Streghe

Oltre al tenersi lontani dalle Streghe, e al cacciarle, gli abitanti di Triora e di tutta la Valle Argentina dovevano porre un occhio di riguardo verso i neonati, obbiettivo principale, a quanto pare, delle famose megere.

Siamo nel XVI secolo e, i bambini in fasce, erano “carne tenera” per le conosciute e temute bazue (streghe) della Cabotina. Esse, non mangiavano propriamente i bambini ma si dice ci giocassero a palla lanciandoli in aria e li donassero a Moloch, divinità malefica, divoratore di creature pure e innocenti.

Quegli esserini appena nati venivano sacrificati al diavolo da queste donne che, ovviamente, per compiere il rito, dovevano prima rapire i piccoli.

Per questo, le mamme di un tempo, mettevano al collo delle loro creature, collane realizzate con teste d’aglio e posizionavano, accanto al davanzale delle finestre di casa, delle scope di saggina che avrebbero distratto le malvagie donne. La scopa era un’ossessione per le streghe. Era il loro strumento preferito, capace di incantarle e mantenerle impegnate facendo loro dimenticare il rapimento del neonato. La strega, infatti, passava molte ore a contare le setole che componevano la ramazza, così come un astronomo passa il suo tempo a contare le stelle, completamente avvolto dalla sua passione. Più rametti componevano la scopa e più quell’attrezzo soddisfaceva la temuta donna.

Era assolutamente proibito lasciare i bambini incustoditi. Si rischiava moltissimo. Le bazue erano sempre in agguato, per accontentare il loro demone amante, e non avevano pietà.

Questa è solo una delle tante motivazioni che hanno indotto la popolazione antica a dare la caccia a donne particolari, le quali, una volta catturate, venivano prima torturate e poi uccise in diversi modi crudeli. La tradizione e i racconti popolari ne riportano testimonianze e ricordi, laddove, prove certe non esistono se non i giuramenti di chi afferma di aver visto con i propri occhi, figure femminile danzare con diavoli e corvi in una radura durante una notte di luna piena.

Eppure, nonostante questo, persino l’Inquisizione si appropriò del loro destino. Vicari di Albenga, Vescovi di Ventimiglia, Doge e lo stesso Governo di Genova si mossero per anni cercando di eliminare chi, con metodi ritenuti poco consoni, viveva una vita giudicata “strana” ai più. Quel particolare rapporto con la natura, quelle prodezze, quei rimedi che funzionavano davvero… quale magia e, quindi, quale inganno si celava dentro a quei corpi che apparivano normali ma vestivano in modo ambiguo? Sono senza dubbio esistite donne cattive, ignoranti e sadiche, tristi, come esistono tutt’ora, ma premeva eliminare prevalentemente chi poteva danneggiare un potere esistente fin d’allora, attraverso un vivere che non richiedeva nulla se non la connessione con il cielo e la Madre Terra.

I bambini, come prede, erano l’ideale per mettere alla gogna tali personaggi. Erano ciò che di più caro c’era al mondo e nella vita di un popolo. Intoccabili. Il tesoro più prezioso. Guai a chi avesse anche solo pensato di torcere loro un capello. Per questo, le streghe, addirittura vennero additate come strangolatrici di neonati o provocatrici di lunghe e penose malattie ai danni delle piccole creature.

Nella Minuta Lettera del novembre del 1588, appartenente all’Archivio di Stato di Genova, secondo fonti storiche, si legge che si macchiarono di crudeli infanticidi istigate dai demoni bramosi di carne pura.

Capitava spesso, a quei tempi, che la puerpera non avesse latte per il proprio figlio. Questo ha creato la figura della balia ossia una donna che, avendo un seno ricco e nutriente, poteva permettersi di sfamare anche la prole di altri, oltre che la sua. Capitava che la partoriente moriva e il bambino veniva affidato alla vicina di casa, capitava anche che la donna non fertile portava via un bambino ad una famiglia per avere anch’essa un pargolo tutto suo. Non era certo come adesso. Non c’erano sicuramente i controlli di ora. Quanti figli persi. Innumerevoli gli individui che non erano geneticamente nati da chi li ha poi allevati. Da qui, nel dipanarsi del tempo, alcuni avvenimenti presero certe pieghe e certe considerazioni, fino al formare quello che ancora oggi è una leggenda per alcuni o verità indiscussa per altri.

Ma una cosa è certa. Come sapete tutti, Triora ricorda, senza problemi, ogni evento del passato che la riguarda. Tra questi, la nota memoria dei bambini e le streghe.

Un bacio leggendario a voi!

Sere magiche d’inverno di ieri e di oggi

E alla fine, anche quest’anno è arrivato quel periodo fatto di sere magiche e speciali, in cui si sta con il fiato sospeso.

C’è chi attende i regali sotto l’albero, chi se ne sta con il naso incollato alla finestra, nell’attesa di vedere una magica slitta solcare il cielo. C’è chi corre tra le vie della città per fare gli ultimi acquisti frenetici, prima di rintanarsi a casa, chi aspetta la neve con ansia…

E poi ci siamo noi creature del bosco, che questo periodo dell’anno lo viviamo in modo diverso dagli esseri umani.

A prescindere da quello che siamo, però, c’è qualcosa di cui vorrei raccontarvi. Sì, perché sono davvero notti particolari, quelle che ci apprestiamo a vivere, notti che hanno sempre avuto un significato speciale fin dall’alba dei tempi.

E così, a riprova di quello che vi sto dicendo, una sera è venuta a farmi visita Maga Gemma, portando con sé squisiti dolcetti speziati e uno dei suoi mille interessanti racconti.

biscotti

«Gemma, tu lo sai perché in questo periodo dell’anno gli esseri umani si scambiano doni? Per noi animaletti è un momento un po’ gramo, ma so che per gli umani non è così, o almeno non più…»

«Mia cara Pruna, è una tradizione molto antica, anche se è cambiata col tempo. Una volta il regalo principale erano le candele, riesci a immaginare perché?»

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Riflettei: «Be’, il Sole rinasce proprio il 25 dicembre e una candela porta la luce nel buio dell’inverno. Si riaccendeva così la speranza nella bella stagione che sarebbe ritornata, con la sua abbondanza.»

candela centrotavola

«Brava, proprio così. E questa usanza continua a ripetersi ancora oggi, ma le luci non si regalano più… si accendono! Per le strade, sui terrazzi, sopra gli alberi addobbati… tutto è un brillare di luci che sfavillano. E a guardarle pare quasi che si illumini anche il cuore.»

 

«In effetti, il cielo di questo periodo dell’anno sembra più buio, più cupo…»

«Sì, ecco perché sono nate storie di ogni sorta per esorcizzarlo. E, ti dirò di più: spesso queste storie avevano come protagoniste figure femminili.»

«Questa è una cosa curiosa, davvero!»

«Tornando al discorso dei doni, però… vedi, Pruna, oggi è tutto diverso, più consumistico, ma un tempo i doni che si facevano erano altri. Ai bambini si regalavano dolcetti fatti in casa, semi e granaglie. Non c’erano giocattoli e il compito degli adulti era quello di far festa, cucinare e preparare provviste. I bimbi erano la speranza della vita, il ritratto della purezza, e i doni che venivano fatti loro simboleggiavano il nutrimento dei nuovi progetti, i germogli che sarebbero spuntati a primavera, dando inizio a un nuovo ciclo. Era importante che a custodirli fossero le mani dei bambini, magici per natura e semplici nel loro modo di rapportarsi al mondo.»

mani bimbo

«E i bimbi erano quelli che potevano e dovevano mangiare un po’ di più, dico bene? Ecco perché gli si regalavano alimenti nutrienti come quelli che hai elencato.»

semi

«Proprio così, Pruna: giusta osservazione. Se i più piccoli sopravvivevano all’inverno, la Vita lo avrebbe fatto con loro. E ora c’è un’altra cosa su cui vorrei che tu ponessi attenzione… In un momento così freddo, cosa c’era – e c’è – di meglio che starsene al caldo, intorno al focolare a raccontarsi storie?»

 

«Oh, lo so bene! Mi si gelano sempre i baffi e la coda in questo periodo…»

«Bene, mia piccola amica dal cuore grande. Era in questi ultimi giorni dell’anno che si narravano storie in cui giovani eroi prendevano il posto di eroi anziani. C’erano racconti di nuove nascite prodigiose, di belle fanciulle impegnate in eroiche gesta, storie di filatrici, di veggenti e povere vecchine vestite di stracci. Ti dicono niente, tutte queste cose?»

befana

Ancora una volta mi portai una zampina al mento e corrugai la fronte, poi dissi: «Il vecchio e il nuovo, come l’anno che sta per finire e quello che arriverà. E poi erano le donne a scandire i ritmi della giornata, impastando, filando, rassettando, curando la casa e la famiglia…»

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«Esattamente. Ma vorrei farti notare un’altra analogia con un altro elemento femminile, un elemento di cui tutti facciamo parte: esseri umani, animali, piante…»

«Madre Natura, ma certo!» come avevo fatto a non pensarci prima?

«Tutto riconduceva a lei, Pruna. Lei che, grazie al ciclo del Sole, si rinnovava dopo essere simbolicamente invecchiata. Lei che a Primavera sarebbe stata una giovane pronta a dare frutti e che in Estate, invece, sarebbe stata gravida di doni per il mondo. Siamo figli suoi, figli di quella Terra che oggi appare spenta, dormiente, spoglia, ma che domani ci darà ancora la vita. Ma adesso mettiamo da parte questi discorsi e prendi quella latta di dolcetti: li ho portati a te, che sei l’esserino più vicino a un bimbo che io conosca. Mangiamoli, Pruna, te li dono con l’augurio che anche grazie a te nascano presto nuovi progetti.»

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Che altro aggiungere, topi? Io son rimasta a bocca aperta!

Un dolce bacio a tutti voi.

La Preghiera del Marinaio

Ad Arma di Taggia esiste un luogo dove non si dimentica. Un luogo che permette di ammirare, oltre che tornare indietro con la mente. E’ il posto dell’infinito, dove uomini determinati partivano per compiere lunghi viaggi.

Il luogo che non ha fine ai nostri occhi è il mare, gli uomini determinati e coraggiosi i Marinai, i nostri Marinai, liguri e di tutta Italia. Oggi vi porto in un angolo che li ricorda simboleggiato da quella che sembra una Madonnina ma è in realtà Santa Barbara, all’interno di una teca di vetro, posizionata su una colonna nella nuova Piazza – Caporale Tiziano Chierotti -, esattamente di fronte alla piccola chiesetta di San Giuseppe e di fronte all’ampia distesa blu.WP_20150226_004“AI CADUTI IN MARE” si legge chiaramente su una lastra di marmo del 1988. A tutti quegli uomini che, per scoperte ma soprattutto per la guerra, hanno lasciato la loro vita in balia di quelle onde che non le hanno più permesso di tornare a riva. La loro esistenza è rimasta là ma anche nei nostri ricordi.WP_20150226_003Marinai, e ancor prima naviganti. A battersi sull’acqua per proteggere la terra e ciò che essa custodiva.

Il mare splendente, in tutta la sua bellezza, è ciò che in sé trattiene: i corpi dei nostri cari. Uomini giovani, valorosi, che partivano per non fare più ritorno. Grazie a loro abbiamo immagini di tempi non conosciuti. Grazie a loro abbiamo individuato nuovi regni. Grazie a loro possediamo oggi ciò che ci circonda.

Qui, dove sorge questo monumento, uno spicchio di spiaggia è utilizzato come parcheggio per piccole imbarcazioni a vela. Minuscole barchette e catamarani assopiti ad aspettare l’arrivo della bella stagione, ad aspettare anch’essi, di potersi tuffare in quell’acqua cristallina.

I gabbiani e il vociar della gente contornano quel punto di silenzio.

E che bella la statua della Santa, pare in bronzo, e la sua espressione è dolce. Le sue braccia aperte.WP_20150226_009 Una lucetta la illumina anche di notte. E’ su, in alto. E dall’alto guarda tutti i passanti benedicendoli come ha benedetto i nostri Marinai prima dei loro lunghi viaggi. Una preghiera in loro onore è stata posizionata ai suoi piedi, una preghiera toccante, dedicata alla protezione di Dio sui Marinai e su tutti gli Ufficiali della Marina Militare Italiana. WP_20150226_006Incastonata invece tra mattoncini color vermiglio, risalta nel suo blu cobalto, la scritta riportante la testimonianza della Medaglia d’Oro al Valore Militare. Un glorioso sacrificio, a quanto si legge, di queste vittime di sistemi più grandi di noi. WP_20150226_005Le quattro stellette agli angoli e la cornice intorno sono dorate.

Ma in basso, contro questa colonna, non ci sono solo scritte. Un simpatico timone e una pesantissima ancora, verniciati di nero, sono la rappresentazione tipica della navigazione. Se ne stanno appoggiati lì, dietro ad una catena che li protegge. A farsi guardare. Ad aspettare chissà cosa. WP_20150226_007Sotto al sole e sotto la pioggia di fronte alla piccola e antica chiesetta di San Giuseppe anch’essa affacciata sul mare. WP_20150226_008Persino le persone amano starsene sedute sulle panchine in questo luogo pacifico. Rilassandosi, mentre i bambini giocano e i piccioni sono costantemente alla ricerca di qualche bricioletta di pane.

Non sanno mica, spensierati, cosa è successo in quel mondo azzurro che hanno davanti. Ma chi può saperlo? Solo i naviganti potrebbero raccontare ma, quelli ai quali tutto ciò è dedicato, non ci sono più.

Non fa niente, non importa, rimaniamo ugualmente qui a non dimenticare. Rimaniamo a rivolgere uno sguardo e un sorriso a questo luogo dedicato a loro, costruito nel nostro paese.

Un saluto topi, alla prossima!

M.

La favola di Pinocchio raccontata da Pigmy

E oggi è giorno di puro divertimento topi! Oggi ci raccontiamo una bella favola!

All’inizio di questa avventura virtuale, e stoSONY DSC parlando di questo mio blog, avevo citato, solamente accennandolo, un luogo nel quale io e topino siamo stati,  veramente bello. Rivedendo quel povero e breve post, accompagnato da un’unica immagine, mi sono detta che, forse, quel luogo incantato meritava di più e a voi poteva sicuramente interessare.

Quel vecchio articolo, di quasi due anni fa, l’ho cancellato ma SONY DSCho tenuto caro il commento della mia prima amica-follower carissima topina di città, nonchè investigatrice, Miss Jessica Fletcher. Aggiungete “Dear” a questo nome e vi ritroverete catapultati in un bellissimo blog che racconta di Genova e di altre meraviglie, la quale mi confidava, in quel commento, di aver risvegliato in lei un bellissimo ricordo di quand’era bambina. E’ stato questo che mi ha spronato a pensare che anche a qualcun altro potevo far rivivere magiche giornate di un tempo, oppure, far crescere la voglia di andarci. Perchè merita topini.

Sto parlando del paese di Collodi e del meraviglioso mondo di Pinocchio e la sua favola che si svolge in un parco, dove il divertimento è assicurato. E allora che ne dite? Volete venire con me? Partiamo.

A COLLODI, TRA UNA BUGIA E L’ALTRA

Là, dove il compagno di tutti i piccoli topini vive ancora beato nel parco a lui dedicato. Siamo a Collodi, un piccolissimo paesinoSONY DSC toscano aggrappato ad un altrettanto piccola collina. Oltre al suo parco stupendo, ricco di fiori, cigni e statue gigantesche, oltre alle sue stradine piene di botteghe e verde tutt’intorno,SONY DSC esiste l’ambientazione del paese del giovane burattino. Sembra di essere davvero in una favola dove son concessi i giochi, gli scherzi e perchè no, anche qualche bugia. I negozi e le trattorie hanno tutti nomi tipo: “La bottega di Mangiafuoco” o “Trattoria Fata Turchina” e tutti i personaggi del racconto di Carlo Lorenzini, detto “Collodi”, vengono nominati: Geppetto, il Gatto e la Volpe, Lucignolo…

Il parco giochi, adatto ai bambini ma stupendo anche per gli adulti, è un parco come quelli di una volta, ricco di idee davvero originali come ad esempio la scacchiera gigante, la balena che spruzza l’acqua, le miniature, i mosaici.SONY DSC La maggior parte dei giochi è realizzata in legno per mantenere quel non so che di artigianale e di un tempo. Inoltre Pinocchio era una marionetta e, in quel luogo, che odora di bosco e di fiori, ti senti anche tu un burattino di legno. Ad ogni angolo ci sono statue in bronzo realizzate dallo scultore Emilio Greco che ti accompagnano per tutta la giornata raccontandoti anche loro la famosa fiaba. Sono stati posizionati anche dei registratori, SONY DSCnascosti nelle siepi, dai quali esce il verso di alcuni uccelli e vari rumori della natura e pare proprio di essere immersi in un luogo incantato. Finalmente un posto nel quale mentre i piccoli giocano, i grandi topi possono rilassarsi un po’, sotto le fronde degli alberi, senza perderli di vista.

E’ molto tranquillo, forse poco conosciuto o, più probabilmente, l’atmosfera che si respira, regala a tutti una dose di educazione e rispettoSONY DSC da mantenere verso gli altri. Non aspettatevi infatti quei mega giardini, pieni di gente, con divertimenti mai visti, mega scivoli e giostre tecnologiche, niente di tutto questo. Sembra il parco giochi dei nostri nonni.

Le siepi curate, il labirinto, la casa della fata turchina, il tesoro nascosto, le macchinine di latta e la fiaba SONY DSCtridimensionale e meccanica che si muove a fatica, affascinano anche gli adulti. Diversi sono anche i giochi d’acqua che, arrivava a noi, tramite spruzzi improvvisi e inaspettati. La stessa grande balena è immersa in uno stagno e, dalla sua testa, esce un getto potente di acqua fresca. Ci si può entrare dentro e sentirsi inghiottitiSONY DSC come il povero Geppetto e il birichino Pinocchio.

Si può entrare nel carro di Mangiafuoco e sentirsi mossi da fili, oppure, si possono ascoltare i saggi consigli del Grillo Parlante. E ci sono i ciuchini, la capretta, i cattivi pensieri e le gioie finali. Ci sono gli insegnamenti e le ricompense. Ci sono stelle, farfalle, i finti nasi di legno da mSONY DSCettersi con l’elastico e le monete d’oro da seminare.

E, nella piccola boutique, si trovano tutti giochini fatti in materiali naturali. Provate a considerarla una possibile vacanza. Sono sicura che vi divertirete un mondo mangiando zucchero filato e lecca-lecca di glassa dolce… oh no! Davvero! Non è una bugia!

E ora topini, per finire in bellezza e sempre sognando, vorrei lasciarvi con una canzone a me molto, molto cara. S’intitola “Lettera a Pinocchio”, e quella che vi propongo è l’originale, cantata da Johnny Dorelli. Ebbene, a me invece la cantava tutte le sere il mio papà quando mi metteva a nanna e, secondo me, è una canzone meravigliosa. Un bacione a tutti e buona vacanza!

M.

La Grande Regata

Fa freddo. Freddo e vento. L’aria punge. E più c’è vento e più loro son contenti. Sono anime libere. Sono i protagonisti della – Grande Regata -.SONY DSC Sono i bambini.

Ebbeni si topi, impavidi, coraggiosi, pronti a sfidare tutte le intemperie, la domenica mattina, non c’è santo che tenga; si naviga! Mi sembra d’aver capito che, gli adulti, quando partecipano alla Regata, hanno le barchette a vela tutte colorate e sono splendide da vedere tutte insieme come una miriade di puntini colorati. Ma… chiamale barchette! Sono lunghissimeSONY DSC. I bimbi invece, hanno le barche bianche e più corte. Ed è meraviglioso vederle stagliate in un mare che sembra un vassoio d’argento. Un mare di stagnola. Che siano adulti a rincorrersi oppure no, è sempre un piacere guardarli e le immagini parlano da sole. Questo alluminio come sfondo non può passare indifferente. Quel sole che sberluccica e rimbalza, fa quasi male agli occhi.

E questa è la Regata della domenica mattina. Una sfida per i concorrenti, un appuntamento per gli appassionati, un divertimento per chi passa e non può fare a meno di soffermarsi un attimo. Di lasciarsi cullare un secondo da tanta maestosità. Da lasciar spazio alla luce e alla pace mandando per un momento via lo stress e la velocità che ci avvinghiano. E chi ha la fortuna di poterli vedere dal proprio balcone, non rientrerebbe mai in casa.

Mi piace pensare a cosa si dicono loro lì sopra, su quelle imbarcazioni che, a volte, s’inclinano così tanto che possono rovesciarsi sull’acqua. Adagiarsi su un mare calmo, nonostante il vento. Pluf… E quanto le fa correre il SONY DSCvento!

Sembra di volare, non ci sono sopra ma lo so. So che è così. E quell’aria salata sul viso, che spettina i capelli e li riempie di salsedine. Si sente l’eco delle loro urla, i richiami,SONY DSC gli ordini, non saprei ma li senti, concitati, divertiti, impegnati.

Fin dal mattino presto guidano quelle esili imbarcazioni venendo verso riva a fare il giro per poi ripartire. E quando ripartono corrono più veloci di prima come a voler raggiungere l’orizzonte, laggiù in fondo, che li accoglie con gli stessi colori del mare.

Chi arriverà per primo? Questo spettacolo va avanti fin verso le due del pomeriggio, dopodichè, si capisce, tirate giù le vele, che con più calma, fanno ritorno a casa. Ora sembrano passeggiare a braccetto e raccontarsela.SONY DSC Non sembrava si superassero alternativamente e con vigore pochi minuti prima.

Tutt’intorno silenzio, solo qualche gabbiano li saluta e gli dà appuntamento per la prossima settimanaSONY DSC. Si divertono anche loro. Gli volano intorno gridando e starnazzando, facendo il tifo, e trasformando quella barca in una bellissima modella per un dipinto.

Anche le nuvole incorniciano quei momenti e ammirando questo paesaggio, respirando aria salmastra, mi chiedo se in quel momento, ci può essere qualcosa di più bello al mondo.

E chissà loro, laggiù in mezzo al mare a far tanta fatica, ma a provare anche un’estrema SONY DSCfelicità. Quello è il loro momento, dove la passione è la protagonista indiscussa. Quella è la loro strada e nulla SONY DSCpotrà fargli cambiare idea. Quella, in quell’attimo, è tutta la loro vita. E a noi tengono compagnia, fanno brillare gli occhi e il sorriso ci dipinge il viso. Questo ci offre, a volte, il nostro mare.

Un forte abbraccio topi, alla prossima puntata marinaresca.

M.

Vita vera: Triora-Realdo 1954

Cari topi, siamo nell’anno 1954 e siamo, come sempre, nella mia Valle. Grazie a Zemiafilm (una unità di produzione di video-documenti con particolare attenzione alle realtà locali e ai contesti trascurati dai media -vi posto qui il loro indirizzo del blog zemiafilm.wordpress.com-), che ha postato su YouTube questo particolare video, possiamo vedere come vivevano i nostri nonni in un periodo cruciale della loro vita. Il Dopoguerra. La rinascita.

E il filmato che vi metto qui sotto è proprio una ripresa di quella che era una strada, un sentiero in mezzo ai monti, percorso per andare dal paese di Triora, o di Molini di Triora, in quello di Realdo. Si passava da Loreto, si passava anche “dal Pin”, come diciamo noi, un punto panoramico bellissimo. E credetemi, a piedi, non è per niente breve come tragitto!

Come già vi avevo accennato in questo mio post – Sir-Realdo – erano in tanti a spostarsi, spesso anche a piedi, per andare a lavorare in altri paesi nei dintorni. Donne e uomini, non c’era differenza.

In questo video si capisce chiaramente la vita lavorativa di un tempo. Il pastore, il contadino, le donne che cucivano sedute in una piccola corte e quel camminare che pareva non esser mai una fatica.

E guardate gli abiti, i cappelli, i foulards delle signore tipici di un tempo che noi chiamiamo, i “mandiji pà teista”.

I muli che s’inerpicano, stracarichi di roba, alcune case che esistono ancora, le braccia che lavorano, i furgoni d’altri tempi. I bimbi che giocano (la più piccolina, tra l’altro, fa una tenerezza incredibile) e che avvisano, tutti i lavoratori. Piccole vedette. “Presto! Presto! Sta arrivando qualcuno!”.

A segnalarmi l’esistenza di questo video è stato il signor Silvano, anch’esso amante della Valle Argentina come me, e lo ha fatto per due motivi: uno per far conoscere anche a tutti voi una parte di questi luoghi meravigliosi e i suoi abitanti e l’altro perché, questo video, fa parte di un progetto nato tra Zemiafilm e il Parco delle Alpi Liguri. Un progetto importante nel quale si cercano altri video, o filmati d’epoca come questi, per poter segnalare, esaltare e soprattutto ricordare, quello che non deve andare perduto, come la bellezza di posti spesso sconosciuti o una vita passata che troppe volte tendiamo a scordare.

A me non rimane altro che augurarvi la buona visione di quello che è, a parer mio, un documento eccezionale e reale e anche una meravigliosa passeggiata.

L’unica cosa, se posso dirlo, la colonna sonora, è un’opinione prettamente personale ma esalta poco il contenuto visivo. Ecco, l’ho detto.

Un bacio a tutti quanti. A quelli di adesso e a quelli di ieri.

M.