Il Corvo Imperiale – sentinella intelligente

Un giorno mi trovavo in zone impervie della Valle Argentina. Passeggiavo quasi in mezzo alla nebbia che di tanto in tanto lasciava spazio a un sole tiepido che carezzava col suol calore il mio pelo. Me ne stavo lì a rimirare lo spettacolo di Madre Natura quando all’improvviso vidi un gran numero di Corvi Imperiali attraversare il cielo sopra la mia testa.

Di Corvi ne ho visti, nella mia vita di topina, ma così tanti e tutti assieme, per giunta, era una gran novità! Assieme a loro c’erano persino diversi Gracchi Alpini!

Mentre quei corvi gracchiavano dall’alto, io producevo una raffica di clic con la mia macchina fotografica per immortalare il momento imperdibile, quando da lontano mi giunse una voce a me conosciuta: «Plotoneeee aaaaalt!»

Odoben Malcisento urlava come un ossesso, il suo ululato riecheggiava da un monte all’altro e io attesi che il suo muso comparisse da dietro la collina sulla quale ero appostata, poi lo salutai: «Odoben! Odoben!» lo chiamai, sbracciandomi.

«Maiben? Maiben, dici?! Con tutto il fracasso che stanno facendo, non resterà manco un camoscio da mettere sotto i denti!» mi rispose irritato, fraintendendo le mie parole (“maiben” dalle mie parti ha un significato simile a “che bellezza”, “quanto bene!”).

«Ma no! Stavo solo chiamando il suo nome, Odoben. Ha visto quanti?»

Avvicinatosi a me, aveva finalmente compreso di aver udito male, ma non si scompose a chiedere scusa: Odoben è un generale, e come tale esige sempre rispetto. Non tardò a ricordarmelo: «Dimentichiamo sempre le buone maniere, vedo!» mi redarguì con sguardo tagliente.

Mi tirai una zampata in fronte, urlando: «Mi perdoni, Generale!».

«Così va meglio» disse, poi si rivolse al branco di giovani lupi suoi sottoposti: «Che fate lì con la lingua penzolante? Non siete mica dei cani! Voglio fierezza nel portamento, razza di smidollati! E non statevene lì a bocca asciutta, andate a cercare quei cornuti scala-rocce, non vorrete mica tornare alla tana coi crampi allo stomaco, dico bene? Non perdete tempo! Serrate i ranghi! Tornate vittoriosi, altrimenti ve la vedrete col vostro Generale!» ringhiò.

«Signorsìssignore!» risposero in coro, e si apprestarono a eseguire gli ordini mentre Odoben intonava: «Un-due! Un-due! Un-due!».

Quando i giovani lupi scomparvero alla vista, si rivolse infine a me: «Che hai da guardare, ricotta munita d’orecchie?»

Soffocai una risata per il suo artistico appellativo e dissi: «Mi chiedevo… Generale Malcisento… mi chiedevo se potesse darmi qualche notizia sul Corvo Imperiale, lei che sa tutto degli animali del cielo e della terra che popolano queste zone, signore.»

«Sul Corvo Imperiale? Ah, quello è proprio un gran vecchio volpone! Non s’è mai visto animale più furbo di lui… a parte il lupo, beninteso!»

«Ah, davvero?» dissi per spronarlo a proseguire nel suo racconto.

«Puoi esserne certa, mezza cartuccia vestita da topo! Se il lupo è uno stratega, il corvo è un grandissimo osservatore e studioso… e la sua intelligenza, unita allo studio meticoloso di quello che lo circonda, lo rende un anticipatore delle mosse del nemico, ma non solo! A volte sembra che conosca il futuro, talmente bravo è diventato a studiare la realtà.»

«Generale, vuole dirmi che sa prevedere anche le vostre mosse?»

L’anziano lupo sogghignò: «Ah, quel vecchio furbacchione… sa tutto, vede tutto! Manco fosse il demonio fatto uccello! Tante volte dall’alto del suo volo vede una carcassa… l’animale può essere morto per un incidente, per vecchiaia o per altri motivi, ma quando il corvo lo trova, viene a cercare noi lupi. Qualche volta, se non trova noi, si rivolge alle volpi… e coi suoi forti richiami ci attira fino al luogo in cui giace inerme il corpo dell’animale. Allora il corvo attende.»

Il Generale fece una pausa a effetto: gli piaceva raccontare storie come quella e saggiare l’attenzione dei suoi ascoltatori, e io l’accontentai: «Cosa attende, Generale?»

«Attende che noi lupi diamo inizio alle danze, sventrando la bestiola, cosicché anche lui possa cenare attingendo alle parti molli e nutrienti dell’animale… ma lascia fare il lavoro sporco a noi, mica scemo!»

«E voi glielo lasciate fare? Gli lasciate mangiare quella carcassa?»

«Certo che sì, razza di stracchino coi baffi! E’ la legge del bosco, ci si aiuta a vicenda! Il corvo fa un favore a noi, e noi lo ricambiamo.»

«Davvero interessante, Generale Odoben Malcisento, molto interessante!»

«Ma non ti ho ancora detto tutto. Tutti credono che il corvo sia in grado di emettere solo suoni striduli e gracchianti… in verità qualcuno nel bosco dice di averlo sentito cantare con voce melodiosa. Pare lo faccia solo quando sa di non essere osservato.»

«Veramente? Chi è stato a raccontarglielo?»

«Quel ficcanaso, beccolungo e trapana-timpani del picchio, chi altri, sennò? Ma sai, non penso abbia detto una bugia: in fondo il corvo è in grado di imitare il canto e i richiami di molti uccelli, spesso impara anche parole del linguaggio umano. Lo fa per allontanare e ingannare possibili rivali, oppure per attirarli in una trappola e affrontarli impreparati. Astuto, lui!»

«Generale Odoben, lei è sempre una garanzia!»

«Arriva la fanteria?!»

«No! Ho detto lei-è-sempre-una-garanzia!»

«Ah! Potrei stare qui a raccontarti del corvo all’infinito! Per la sua intelligenza e il saper anticipare gli eventi, viene considerato un profeta con dono della preveggenza. E’ stato grazie all’osservazione del volo dei corvi che gli umani hanno scelto i luoghi in cui far sorgere antiche città, tale era l’importanza di questo uccello. E’ da sempre considerato un messaggero del cielo, il che nel mondo umano è sempre stato interpretato come tramite tra il divino e il terreno. Che dire, poi, delle sue piume nere? Paiono uscite dall’oscurità più cupa della notte, dall’assenza di luce, ma in verità non è un animale così oscuro come sembra. Ho sentito molti cacciatori chiamarlo “uccellaccio del malaugurio” per il fatto che si nutra di carcasse… ma in fondo, dico io, quale animale non si nutre di morte? Lo facciamo tutti, dico bene?»

Trovai quella riflessione assai profonda e non riuscii a proferire parola per qualche interminabile secondo. Non potevo che dare ragione a Odoben.

«E’ un ciclo, sorcina. Un ciclo infinito, dove il confine tra la vita e il suo opposto è assai labile. Qualcuno muore per consentire ad altri la vita, e quella stessa vita verrà restituita a qualcun altro a tempo debito. Non c’è nessun malaugurio in tutto questo, ma solo pura, semplice sopravvivenza.»

«Ha ragione, Generale Odoben. Ha ragione» conclusi.

Restammo ancora lì a guardare insieme lo spettacolo di Corvi Imperiali che volteggiavano sulle nostre teste, mente Odoben riposava le zampe stanche e io scattavo foto a più non posso.

E ora vi saluto, topi miei. Vado a scrivere un altro, gracchiante articolo per voi!

 

 

Santa Rita – tra le due Neviere

Il Cammino del Ghiaccio, dotato di segnaletica in legno, era un’antica mulattiera che permetteva agli abitanti di Taggia e dintorni di raggiungere le Neviere, costruzioni in pietra che raccoglievano la neve, e potersi rifornire di ghiaccio durante le estati o per la conservazione degli alimenti. Un giorno vi parlerò della Neviera dell’Albareo e della seconda grande Neviera.

L’inizio di questa strada si trova nella parte alta di Taggia, in piazza Santa Lucia, proprio dopo i due ultimi bastioni. Il primo tratto offre una vista spettacolare su tutta la mia Valle che da qui sembra davvero immensa: si può vedere senza difficoltà tutta Arma, laggiù sul mare, e poi Taggia, Castellaro e i monti di Colle D’Oggia ancora baciati dal sole. Poi ci sono le montagne che  racchiudono con un abbraccio tutto il paesaggio e il fiume che scorre giù in basso. L’orizzonte, se lo si osserva a lungo, assume diverse sfumature. Ci circondano le pratoline e gli asparagi selvatici. Le distese di ulivi sono infinite e le fasce sono ordinate.

Giunti qui, sulla cresta sopra Taggia, possiamo scegliere se salire verso destra, verso i Beuzi, e scendere a Bussana, oppure dirigerci a sinistra, verso l’eremo di Santa Maria Maddalena del Bosco.

Saliamo a sinistra. E’ un luogo magico, sembra di poter parlare con la foresta. Ci sono ancora le auto dei cacciatori, i cani che ululano correndo, avanzando. Si sente grufolare, o almeno così pare, i suoni sono tanti ed è difficile distinguerli con precisione.

Prima di inoltrarci nel bosco di querce e castagni, ricco di ghiande ancora acerbe, ammiriamo la via che stiamo percorrendo. E’ una strada di confine. La vecchia Podesteria di Badalucco e quella di Taggia se la sono sempre contesa. Dall’archivio di quest’ultima, si apprende che una piccola traversa di essa portava con ogni probabilità al castello di Campo Marzio, dove poco tempo fa sono ricominciati gli scavi archeologici.

Allontanandosi dal bivio Beuzi-Albareo, dove c’è il vecchio agriturismo, si raggiunge la località di Santa Rita. E’ una zona fresca e ombrosa. In estate è d’obbligo fermarsi e sorseggiare un po’ d’acqua fresca. Anche gli animali del bosco vengono a dissetarsi qui.  E’ un luogo prediletto dai Boy-Scouts, che aiutano a tenerlo ancora più pulito. Troviamo un pergolato, dei tavolini, alcuni di pietra, altri di legno, e poi delle panche, un barbecue davanti all’edicola votiva con la statuetta della Santa. Il suo vestito è nero e tra le mani stringe un crocefisso di legno. Questa zona le venne dedicata per volontà di due partigiani che, rifugiatisi proprio in quel punto in tempo di guerra, per salvarsi la vita  si erano affidati a lei in quel momento di difficoltà. Scampati al pericolo, hanno innalzato il piccolo monumento religioso dedicandolo anche a chi non era stato fortunato come loro. Sulla lapide in marmo bianco è scritto infatti: ” Nel ricordo di chi non è più a perenne custodia di questi monti “.

In basso a sinistra è visibile la frazione Campi, raggiungibile da un sentiero non segnalato e qui i Lecci sono verdi come l’Alloro e i Corbezzoli, finalmente maturi, la fanno da padroni. Sono dolcissimi. E’ una zona ricca di funghi di ogni tipo. In alcuni tratti, il Brugo è l’unica pianta rimasta verde, un manto di foglie rossicce ci fa da tappeto e i rami o sono spogli, o color dell’oro.

Ecco il sentiero della Grande Neviera, qui a sinistra, dopo la statua, da percorrere a piedi. Si scende. La strada è sterrata e siamo all’inizio dell’Entrà, un termine dialettale che intende definire la fine delle campagne e delle coltivazioni e l’entrata nel bosco. Non potremmo più godere del panorama come prima, ma quello che incontreremo, proseguendo questa strada, è una sorpresa per la prossima puntata. Non perdetela! Un fresco bacione a tutti.

M.

La piccola Valle di Gavano

Val Gavano è una piccola gola della Valle Argentina. Gavano, il paesino principale, è affiancato da altri piccoli borghi, rimasti ancora tutti come un tempo. Si dice che uno di questi, Ciagin, sia stato creato dagli abitanti di Piaggia (“Ciaggia” in dialetto), decisi a costruire un nuovo paese, ossia Piaggino (“Ciagin” appunto).

Gli altri borghi si chiamano Galei, Baladi e Cornò ma qui www.valgavano.it troverete tutto quello che vi interessa sapere e delle curiosità davvero divertenti su tutta questa zona, quasi inanimata, e verdeggiante.

Complimenti però a chi ha realizzato questo sito perchè è veramente bello.

Come vi dicevo, Gavano, una frazione del Comune di Molini di Triora, è ancora oggi come una volta.

Forse, data l’assenza della maggior parte degli abitanti, il bosco ha preso più sopravvento, ma è comunque bello passeggiare per la sua strada in mezzo agli alberi.

Ma come arrivarci? E’ semplice, salendo verso Molini, ad un certo punto incontreremo l’apposito cartello, gireremo quindi a sinistra e attraverseremo un torrente Argentina che, in certi punti, si presenta davvero curioso e fantastico assumendo forme ammirevoli.

Pare, a volte, di essere in un ambiente primitivo e l’acqua, è l’unica fonte di vita.

E’ per questa strada che troviamo un percorso equestre e un percorso per mountain bike.

A tener pulito questo sentiero ci pensano oggi i cacciatori. Qui esercita, con battute al cinghiale, la squadra n°49.

Siamo sotto a Colla Bracca e, per raggiungere il paese, dovremo poi girare verso destra ma non ci si può sbagliare.

Continuando dritti, raggiungeremo invece le vecchie caserme, costruite dopo la prima guerra mondiale, ora abbandonate. Ma questo sarà un altro post.

Le case giocano con noi a nascondino tra i secchi rami degli alberi.

Siamo a soli 25 km circa dal mare ma, quando scende la neve qui, ricopre ogni cosa.

Il bello della mia valle è proprio questo, offre mare e monti!

Sorpassiamo le prime dimore e attraversiamo il bosco.

La nota negativa di questi luoghi è che, rimanendo chiusi tra le montagne, godono poco del sole.

Guardate che strada. I tronchi caduti dalle forti piogge sono stati tagliati e tolti dalla via, infatti, ad un certo punto, dobbiamo fermarci. Un grosso albero abbattuto non ci lascia passare. Ma riusciamo comunque a raggiungere la chiesa e la località di Ciagin. Più in su avremmo trovato anche il cimitero.

Un tempo, questi luoghi, erano pieni di gente, oggi invece, si animano solo nel periodo estivo e, il 22 gennaio, quando si festeggia il patrono del paese, San Vincenzo.

La località che incontriamo ci accoglie come un paese abbandonato. C’è una chiara impronta che ricorda il lavoro nei campi. La raccolta, la semina.

Ci sono le stalle degli animali, anch’essi gran collaboratori e il lavatoio utile a lavare gli indumenti.

A proposito di animali, non potete immaginare quanto siano protagonisti nella mia Valle e quanto lo siano stati. Non solo per aiutare l’uomo nei suoi lavori, ma sono presenti soprattutto nei proverbi e nelle credenze popolari. L’animale, così come le rare ma vere, condizioni climatiche.

Sì, oltre a credere che la Civetta, o l’ululato notturno di un Lupo, erano fonte di malaugurio, anche un diverso modo di piovere o delle nubi in cielo che formavano strane forme, dettavano paure e timori negli abitanti riguardo la disavventura e la malasorte.

La maggior parte delle persone che vivevano qui erano contadini o allevatori di bestiame.

Di terre, non più coltivate, ma che producevano tanti anni fa, se ne vedono tantissime ancora oggi nonostante il bosco intorno che, si direbbe, non voglia lasciare spazio. Invece, eccoli ancora i muretti di pietra a dividere i bastoni piantati nel suolo, a tener su una rete, e gli scalini ricavati da una roccia per raggiungere il campo. E poi anche lo scheletro di uno spaventapasseri ormai inesistente.

Questa è Gavano. Quest’estate tornerò a mostrarvela magari più ricca di vita, questa volta mi sono goduta il paesaggio. Un abbraccio Pigmy.

M.