Via Grande a Molini – la via delle vie

Beh, ecco… prima o poi dovevo pur parlarvi di questa via. E’ assai importante. Importante per tutta la Valle ma soprattutto per il paese di Molini di Triora.

Al di là dell’essere davvero molto carina, antica e caratteristica è la strada in cui, ancora oggi, sorge la casa natia di Beato Giovanni Lantrua ma… chi era costui?

Ve lo spiegherò meglio in un altro articolo a lui dedicato ma posso accennarvi che morì martire in Cina e venne beatificato dalla Chiesa Cattolica il 27 maggio del 1900.

Per i fedeli della Valle Argentina è una figura di grande rilievo che, per questo carruggio, viene ricordato anche attraverso una statua che lo rappresenta. Inoltre, alcuni abitanti di questo borgo, sono suoi discendenti. Ma andiamo con ordine. Partiamo dall’inizio.

Dal centro dell’abitato di Molini, proprio davanti a quella che fino a poco tempo fa era la Bottega di Angela Maria, conosciuta da tutti, si apre un arco in pietra rivestita che mostra una gradinata in salita formata da ciottoli e mattoncini color rosso vermiglio.

E’ Via Grande che, al suo principio, è addobbata da una gigantesca immagine la quale mostra diversi ponti della zona.

L’aria si fa subito più cupa e ombrosa sotto a quella volta ma si può tornare a vedere il cielo continuando a percorrere quei gradini.

Poco prima di giungere a metà percorso, sulla sinistra, una piccola fontanella in pietra, simile a molte altre della mia terra, indica l’inizio di un’altra piccola stradina. Vedrete che sono tanti i vicoli che si intersecano a quello che è il carruggio principale del paese. Breve ma centrale, a formare il centro storico molinese.

Questo è quello che porta alla dimora del fu Francesco Lantrua divenuto poi – Giovanni – una volta fattosi Sacerdote.

Quand’ero solo una piccola Topina, qui ci venivo in colonia e passavo delle estati bellissime. Ovviamente, anche questo stretto vicolo è dedicato al Santo e porta il suo nome.

Quasi di fronte a questo carruggio si trova la grande Chiesa dedicata a San Lorenzo Martire.

Si tratta di una Chiesa dall’impronta gotica e dal portale importante e suggestivo, in ardesia, con scritte scolpite in questa pietra lavagna per noi molto pregiata. Ampi rosoni ne addolciscono lo stile ma resta comunque imponente e spicca con le sue pareti tinte di crema.

E’ molto antica, la sua realizzazione è iniziata intorno al 1486 e regala prospettive bizzarre e tagli del cielo davvero caratteristici se guardati da qua sotto. Questo grazie soprattutto al suo campanile che svetta altissimo al di sopra di tutto.

Mi sento osservata e continuando a guardare la bellezza azzurra che sbuca dai vari edifici noto che qualcuno mi sta guardando.

Sono due Piccioni curiosi, i quali mi suggeriscono di aggirare la Chiesa e andare a vedere cosa si cela dietro di lei.

I pennuti mi hanno consigliato bene. Su un cartello posto contro la parete di una casa, adiacente l’edificio religioso, leggo “Piazza Vittorio Veneto” e mi inoltro.

Davanti a me si spalanca uno spazio molto carino. Sembra di essere nella contea di qualche paese del Nord Europa.

Si vede bene il retro della Chiesa che continua a mostrare ulteriori aperture circolari in mezzo a tutta la pietra che la realizza.

Delle case, dall’aspetto pittoresco e piacevole, la circondano e a terra noto la figura di una torre nera creata con delle grandi piastrelle di marmo.

La stessa torre, che è proprio un simbolo, la si trova sullo stemma del Comune rappresentata anche sul gonfalone concesso al paese dopo il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri avvenuto in data 12 settembre 1953.

Proseguo per la via che oggi voglio conoscere meglio. Come ad essere in un labirinto vedo che tante altre viuzze s’intersecano ad essa. Ne leggo i nomi incuriosita e guardo quello che mi circonda.

Ci sono piante e fiori. Ortensie antiche ed essiccate che comunque suggeriscono bellezza. Vedo i colori dei muri delle case. Il rosa è tra i preferiti, tipica tinta della Liguria, e dove l’umidità la fa da padrona, si scrosta un po’ l’intonaco.

Anche questa è una caratteristica dei nostri carruggi dove il sole fatica a entrare e le notti sono più scure del buio; per questo si possono incontrare tanti lampioni, in diverso stile.

Sono tante le cose che mi colpiscono. Ci sono diversi complementi che adornano questa stradina e le stesse case sono molto carine e ben tenute.

Un’abitazione abbastanza grande sembra prestigiosa. E’ segnalata da una targa che confida chi vi è nato. Un certo Avvocato Serafino Caldani, il quale pare abbia fatto tanto per il bene pubblico del paese e gli abitanti di questo borgo lo ricordano con una scritta inamovibile.

Il cielo intanto si è trasformato. E’ ora un guazzabuglio di nubi mosse dalle correnti che regalano strane scie nell’aria. Affascinano. M’incanto ancora ma, con la coda dell’occhio, noto la famosa statua che vi dicevo prima.

Ecco il Santo in tutto il suo splendore. La statua sembra in bronzo e attorno a lei una cascata di piccoli fiorellini gialli appena sbocciati l’abbellisce ulteriormente. Alcuni petali sono caduti a terra e creano un tappeto fiorito dal colore vivace e intenso che rallegra i grigi ciottoli dei gradini.

Osservando l’espressione del Lantrua, che pare pregare con lo sguardo rivolto verso Dio, noto la costruzione che si para verso la fine di questa via centrale.

Si tratta del Ricreatorio San Giovanni Lantrua. Eh sì, tutto riporta il suo nome.

Questo edificio storico è raccontato dalle diverse targhe appese alle sue pareti che parlano di lui come un oratore. Innanzi tutto si viene a conoscere il fatto che è stato costruito nel 1925 grazie alle offerte donate dalla Compagnia Teatrale Filodrammatica diretta e fondata dalla signora Faustina Balestra.

E si può poi comprendere come, le fontane sottostanti la struttura, furono ben accolte dai molinesi, nel 1899, quando l’Amministrazione Comunale le inaugurò.

Questa è l’ultima grande casa di Via Grande, da qui inizia Via Case Soprane ma, per arrivare sin qui, ho incontrato anche: Via Giulietti, Via del Canto e Via Aia di Pe’, oltre a quelle che vi ho citato prima.

Bene Topi, non mi resta che riscendere e andare a fare nuove scoperte.

Quante storie si nascondono nei dedali dei miei borghi e quante belle cose interessanti da conoscere ci sono, non vi pare?

Allora io vi saluto con un bacio storico e vi aspetto al prossimo articolo.

La lunga storia dell’Oratorio di San Giuseppe di Stornina

L’antico Oratorio di San Giuseppe di Stornina sarebbe la chiesa di Perallo, dedicata alla Madonna di Laghet e venerata anche ad Arzene, altro borgo della mia Valle (frazione di Carpasio) e persino a Nizza la domenica della Santissima Trinità. Si chiama così perché Perallo sorge alle appendici del monte Stornina e San Giuseppe proteggeva tutto il circondario, comprese le frazioni vicine.

Davanti al suo portone si presenta un panorama speciale che mostra i borghi di Andagna, di Molini e soprattutto di Triora, quest’ultimo in alto a sinistra, arroccato sulle rocce.

Un tempo, intorno al 1686, il vero Oratorio di San Giuseppe era un’altra chiesa, più vecchia ancora, poi abbattuta e conosciuta anche come chiesa della Beata Vergine della Misericordia. La dedica nei confronti di San Giuseppe passò poi a questa chiesa, oggi ancora eretta, e il nome Beata Vergine della Misericordia finì in disuso. Vive solo nel ricordo dei pochi abitanti rimasti.

Questo edificio religioso, bellissimo al suo interno, gode di una lunga storia che vede protagonisti Vescovi, Notai, Pittori e Devoti. Ma andiamo con ordine.

L’edificio venne benedetto nel 1762 dal Prevosto di Triora, Giò Francesco Panizzi, per ordine del Vescovo di Albenga Costantino Serra, come si può leggere negli opuscoli di Augusto Mirto scritti grazie alle informazioni fornite da Gianluca Ozenda per non dimenticare la storia che ci ha preceduto.

Alla chiesa vennero donate Lire 500 per diversi restauri e, più avanti, nel 1798 il nuovo Vescovo di Albenga, Paolo Maggiolo, volle la costruzione della predella, la fasciatura alla Pietra Sacra dell’unico altare e vari restauri alla Sacrestia. L’ultimo ampliamento di questo edificio religioso avvenne nel 1901 con tanto di cappelle laterali.

Anche il campanile a base triangolare è stato rifatto; infatti, mentre un tempo terminava a cupola, adesso finisce con un’appuntita piramide contenente due campane della prima metà del ‘900.

È una chiesa molto bella, illuminata e piena di statue e quadri. Naturalmente non mancano la statua di San Giuseppe, acquistata nel 1890, e quella della Madonna di Laghet che tiene in braccio il Bambin Gesù in un gesto particolarmente affettuoso.

Ogni anno, a Perallo, verso fine maggio, la cerimonia per onorare questa Madonna prevede una passeggiata fino al camposanto e il ritorno in chiesa dove la statua viene portata a braccia e venerata con fiori, canti e preghiere.

C’è anche la statua rappresentante la Madonna di Lourdes.

Lo sguardo viene attratto dal soffitto a volte, pitturato in modo meraviglioso e con tinte accese. Degli affreschi lo abbelliscono, uno dei quali rappresenta la Sacra Famiglia ed è stato dipinto da Francesco Maiano nel 1923, mentre gli altri da un noto pittore perallese detto Bernà u Pitù (Bernardo il Pittore).

All’entrata, alla mia destra, una scala troncata oggi dalla parete, portava un tempo al secondo piano, che non esiste più, ed era la postazione dell’organo.

Sotto di essa, c’è una bellissima fonte battesimale protetta e custodita all’interno di una rientranza nel muro. Un muro in pietra, molto spesso. A sinistra, invece, troviamo un antico confessionale piccolo e consunto.

Le panche in legno riempiono la parte principale osservando l’altare ricco e luminoso. A proposito di luci, qualche anno fa vennero trafugati due eleganti lampadari a goccia che illuminavano l’altare e il quadro rappresentante la morte di San Giuseppe appeso dietro l’altare maggiore. La signora Anna, moglie di Augusto, la quale tiene questa chiesa come una bomboniera, ne fece rifare un altro collocandolo nella postazione del Coro, ma il dispiacere fu grande, perché questi oggetti rappresentavano le ricchezze di Perallo e parte del suo passato.

Per i pochi abitanti di Perallo e per gli affezionati di questo borgo, questa chiesa non è solo un punto di ritrovo, ma anche un sentito passatempo da curare con passione. La puliscono, la abbelliscono, la rinnovano… cosicché possa sempre mostrare il suo splendore acceso a qualsiasi viandante voglia lasciare un saluto alla Madonna. Basta chiedere le chiavi al signor Augusto, che sarà lieto di mostrare quello che definisce il suo gioiello.

Mi sono state recitate preghiere inventate appositamente per la Vergine Maria festeggiata in questa cattedrale in miniatura, mi sono state raccontate storie e aneddoti di persone che per lei lasciavano tutto, anche il lavoro nei campi, quando giungeva il momento di renderle grazia. Tutto si svolgeva attorno a lei, l’intera vita di un piccolo villaggio.

E ora, topi, usciamo: ci aspettano altri magnifici luoghi della mia Valle. Lasciamo i fedeli raccolti nel loro silenzio a evocare ciò in cui più credono.

Un caro saluto a tutti.

San Giuseppe sul mare di Arma

È come un simbolo, per il paese di Arma. Il suo campanile permetteva di vedere l’orario quando, ancora topini, facevamo il bagno al mare: a una certa ora dovevamo pur tornare in tana!

La sua copertura tondeggiante svetta tra i bar e le gelaterie, e i colori rosa e avorio delle sue pareti la rendono unica, sebbene siano le tipiche tinte dei borghi costieri della Liguria.

La piccola chiesetta di San Giuseppe è molto amata dagli abitanti di Arma e, quando la si trova aperta, non si perde occasione per entrarci e far visita alla piccola nicchia. Sì, è davvero minuta. Nonostante il poco spazio, tuttavia, sono diverse le statue di santi che l’arredano.

Ci sono San Giuseppe, ovviamente, riconoscibile dal Giglio che tiene in mano, e Sant’Erasmo, che i fedeli festeggiano in estate con tanto di processione e fuochi d’artificio.

Sant’Agnese ha in mano un agnello, emblema di castità, e poi dietro al candido altare c’è Gesù, il quale indica il suo sacro cuore con la mano sinistra.

Molte statue, proprio come quella di San Giuseppe, un tempo venivano scolpite nel legno di fico, che veniva poi colorato. Il Giglio è da sempre il fiore religioso per eccellenza, mostrando purezza e maestosità. Una leggenda, infatti, racconta che la Vergine Maria scelse proprio Giuseppe come suo sposo perché lo vide camminare con un bastone ricoperto di Gigli.

Quadri bellissimi rappresentano Sant’Antonio con in mano il Bambin Gesù e ancora Sant’Erasmo, protettore della gente di mare, che sembra benedire le acque con un gesto della mano. Sant’Erasmo viene persino portato in mare durante la sua celebrazione, posto sopra un gussu (gozzo), tipica imbarcazione di questi luoghi.

L’edificio è riuscito a superare molti periodi difficili, rimanendo miracolosamente quasi del tutto integro. Le due Guerre Mondiali e il terremoto del 1887 sono stati i suoi momenti più terribili, ma lei ha resistito e tuttora è lì, a osservare ogni giorno le onde e a essere punto di riferimento per i pescatori che la osservano dal mare. Un tempo la chiesa di San Giuseppe doveva vedersela quotidianamente con onde e tempeste, affacciandosi direttamente sulla distesa blu del Mar Ligure. Oggi tra l’edificio religioso e l’acqua ci sono la spiaggia, i locali, la passeggiata mare e la strada, ma un tempo non era così.

È più antica del grande Duomo, eretto in seguito. Fu eretta nel 1817, o meglio, in quell’anno iniziarono i lavori per costruirla in seguito alla risposta positiva del  Consiglio degli Anziani alla richiesta di edificare una chiesa ad Arma.  Solo a Taggia, borgo più antico di Arma, c’erano edifici religiosi nei quali pregare, ma nessuna chiesa poteva accogliere chi decise di trasferirsi sulla costa. Per questo coloro che divennero gli “armaschi”, vollero il loro santuario.

Al suo interno il pavimento nero e lucido come l’ossidiana fa risaltare le candide pareti e il soffitto affresco da un grande dipinto circolare realizzato da Don Angelo Nanni, Curato di Arma, nel 1940. Si riconoscono in questa raffigurazione: Giuseppe che svolge la sua professione di falegname, un giovane Gesù che parla con il padre e Maria che, seduta, ricama. C’è tutta la quotidianità della Sacra Famiglia.

I toni sgargianti lo rendono vivido e attirano lo sguardo. Tutta la volta viene valorizzata, spingendo a osservare anche la postazione sopraelevata che probabilmente serviva per l’organo.

Le poche e piccole panche in legno sono ordinatamente sistemate davanti all’altare e dietro di esse, a sinistra dell’entrata, c’è la piccola acquasantiera in marmo bianco.

L’atmosfera è intima e raccolta, silenziosa, nonostante a pochi passi bimbi e ragazzini schiamazzino divertiti sulle spiagge, e i gabbiani, in coro, offrano le loro migliori prodezze canore.

Fuori ci sono il viavai della gente, i dehors pieni di persone e musica, ma dentro si  respirare la quiete.

Ehi, dobbiamo uscire adesso. Lo so che si sta bene grazie al silenzio e alla frescura concessa dalle spesse pareti, ma ci aspettano tanti altri luoghi da visitare.

Forza, andiamo!

Un bacio e alla prossima.

Al Santuario della Madonna della Montà tra dragoni e pipistrelli

Vi ho già parlato dei numerosi santuari sparsi nella mia Valle, ma ancora non vi ho fatto vedere lei, la Madonna della Montà, di una bellezza antica e austera, con le sue pietre poste l’una sull’altra ancora a vista. Al suo interno nasconde veri e propri tesori, entriamoci insieme, vi va?

 

Ci troviamo a Molini di Triora e con noi c’è Gianluca Ozenda a svelarci tutte – o quasi – le bellezze di questa chiesa.

La Madonna della Montà ha due entrate, rispettivamente l’una a destra, l’altra a sinistra, e ha tre navate. Le due porte di accesso rappresentano le due comunità religiose di Molini e Triora. Questo edificio religioso, infatti, rappresentava un tempo un punto di incontro per i fedeli dei due paesi, le feste si celebravano insieme, e la Madonna della Montà era la chiesa più importante del territorio molinese. Le due porte, ci spiega Gianluca, sono diverse tra loro. In effetti non è difficile notarne le differenze, a uno sguardo più attento. La porta rappresentante la comunità di Molini di Triora è spoglia di decorazioni, più semplice e dimessa, mentre quella dedicata a Triora è ornata, ha curve più armoniche e sinuose… questo perché si doveva sottolineare l’importanza che la città rivestiva in tutto il territorio e fino a Genova.

 

Le due comunità, a ogni modo, si riunivano alla Madonna della Montà per diverse celebrazioni religiose, tra le quali Gianluca cita quella delle Vergini, fissata intorno al 2 di novembre. In questa occasione, le giovani giravano intorno al santuario recitando preghiere.

Dicevamo che questa rappresentò la prima parrocchia di Molini, era un centro spirituale molto importante, ed è risalente al XIII secolo. Anche riguardo le sue navate laterali esiste una curiosità. Infatti, tra le due, esiste uno scarto di qualche centimetro: la navata di sinistra appare così leggermente più piccola di quella di destra. E’ un fatto strano, se si pensa a quanto ci tenessero, un tempo, alle proporzioni armoniche delle costruzioni religiose.

Veniamo, ora, alla vera perla di questo Santuario: il ciclo di affreschi rappresentato nel presbiterio.

Furono dipinti nel 1435 da Antonio da Monregale (Mondovì), conosciuto come “Il Dragone”. Topi, se ne legge anche la firma! Fu proprio tale sigillo apposto sull’opera a svelare agli storici dell’arte il mistero del Dragone. Il pittore, infatti, fu molto attivo nel basso Piemonte, tuttavia non firmava mai con il proprio nome, bensì con la piccola effige di un drago nero, caratteristica che gli valse l’appellativo di Dragone. Qui a Molini, invece, compare per la prima volta il suo vero nome per esteso, seguito dal simbolo con il quale l’artista era stato conosciuto. Questo permise agli studiosi di identificare, finalmente, il pittore.

firma Antonio da Monregale il Dragone

L’affresco fu scoperto nel 1918, pensate un po’! Prima di allora, infatti, restò segretamente celato dall’altare ligneo in stile barocco di cui vi parlerò tra poco, realizzato nel 1707. Per tutti questi anni, dunque, il dipinto è rimasto occultato, riemergendo definitivamente solo tre anni fa.

santuario madonna della montà molini di triora affresco

Ma eccovi svelato come accadde il ritrovamento di questo maestoso affresco. Un giorno l’Abate Allaria si trovava da solo nel santuario, intento a pregare. A un certo punto, un pipistrello entrò in chiesa e andò a infilarsi tra le volute dell’altare di legno che faceva da parete alla zona presbiteriale. L’Abate, allora, incuriosito dal comportamento della bestiolina, prese una scala e si arrampicò per vedere dove fosse andata a cacciarsi, poteva avere bisogno di aiuto… Una volta arrampicatosi fino in cima alla scala, con somma meraviglia, vide che dietro l’altare si trovava un dipinto meraviglioso. Di fatto, dunque, l’affresco del Dragone fu scoperto da un pipistrello! Ve lo dico sempre di non sottovalutare mai i poteri di noi animaletti, e questa ne è una prova. Dentro il campanile e il presbiterio del santuario vive ancora oggi una colonia di pipistrelli che sono diventati caratteristici di questo luogo, discendenti – così si dice – dello scopritore del dipinto e, per questo motivo, nessuno li scaccia. Se ne restano lì, a svolazzare tranquilli sopra il piccolo cimitero e nei dintorni in quello che è diventato il loro artistico regno.

campanile Santuario Madonna della Montà Molini di Triora pipistrelli

Torniamo, ora, agli affreschi. Nella parte alta si riconoscono i momenti della Crocefissione. Gianluca ci fa notare che i personaggi che prendono parte alla scena non sono stati rappresentati con gli abiti tipici dell’epoca in cui visse Gesù, ma con i costumi del tempo in cui fu realizzato il dipinto. Questo fa pensare che i volti fossero ritratti di persone realmente esistenti in quel periodo storico, tra le quali soprattutto nobili e personaggi influenti. I nomi dei mecenati del ciclo di affreschi, inoltre,  sono riportati insieme alla firma del pittore.

La parte bassa dell’affresco riporta i santi più importanti per la Valle Argentina, tra i quali Sant’Antonio Abate e San Giovanni Battista.

affresco Antonio da Monregale il Dragone - Santuario Madonna della Montà

Durante i restauri del tetto, fu abbattuta la volta di mattoni non originaria del santuario e ne è emerso un altro affresco, quello dell’Annunciazione.

E’ una chiesa ricca di tesori, ve lo dicevo!

L’altare di un tempo, che oggi è stato posizionato di fronte al presbiterio e al quale il fedele dà le spalle durante le celebrazioni, è stato intagliato nel legno di castagno, un albero importante per tutti gli abitanti della Valle.

altare ligneo Buscaglia Santuario Madonna della Montà

Fu progettato da Giobatta Borgogno, detto il Buscaglia. Era conosciuto con questo soprannome perché in dialetto ligure fare buscaglia significa “fare trucioli”, nomignolo che lo identificava con il suo mestiere, quindi! Giobatta, tuttavia, non vide mai montata la sua opera, poiché morì poco prima che l’altare venisse assemblato. Al centro, troviamo oggi una tela d’altare che è una copia dell’originale, dipinta da Giobatta il Gastaldi di Triora.

Il nostro tour del Santuario è quasi concluso, topi, ma prima devo farvi vedere altre due curiosità: l’Abelan Catainin (letteralmente, Zia Caterina), che altro non è che l’antica bara che veniva usata per i defunti, e l’accesso alla cripta situato dietro l’altare del Buscaglia.

 

Che dite, ve ne ho raccontate abbastanza, per oggi?

Dipingo un saluto per voi e vi do appuntamento alla prossima pipistrello-avventura!

Castellaro, il paese medioevale

Castellaro SONY DSCtopini. Oggi vi porto qui a fare una splendida gita. A Castelà, come diciamo noi.

Il toponimo deriva da “castellari“, fortificazioni costruite dagli antichi Liguri in posizione sovrastanteSONY DSC.

Vi porto in questo paese dall’ancora calcata impronta medioevale e feudale.

Un paese in collina; in cima alle colline affacciate alla costa ligure a poco meno di 300 metri sul livello del mare.

Castellaro che troneggia tra gli Ulivi argentati degli altipianiSONY DSC intorno a noi e le infinite coltivazioni di palme. Due verdi completamente diversi, uno più spento e uno più acceso. Castellaro che è cresciuta e, da un pugno di case, è diventata una cittadella elegante e ben tenuta, variopinta dal grigio della storia e dai colori tenui e tipici della Liguria.

Negli ultimi cinquant’anni, sono aumentati anche i suoi abitanti, da 500 circa, a 1200 più o meno. Se fino a qualche anno fa, su Castellaro, nessuno avrebbe scommesso una lira, SONY DSCoggi si parla della Beverly Hills della Valle Argentina. No, non sto scherzando, mica tutti i paesi, qui da noi, ti aprono la porta d’ingresso, invitandoti ad entrare, con un campo golf da far acquolina a Tiger Woods sapete? E pensate, un prato immenso completamente a ridosso del mare!

Ma andiamo a conoscere meglio questoSONY DSC stupendo borgo. Il suo centro storico, ricco di viuzze, carrugi e pietre poste a formare le strade, mostra ancora tanta storia, risultando meraviglioso e simile a un labirinto. Innanzi tutto, quello che colpisce di Castellaro, già da lontano, quando se ne vede il panorama, è il bellissimo Palazzo Arnaldi del XIX secolo, un’architettura civile edificata in stile neogotico e con una grande piazza davanti. SONY DSCIn questa piazza oggi c’è un parcheggio, una bella fontana e un dipinto dedicato a Maria dove regnano le scritte in onore della Madonna di Lampedusa da parte dei pellegrini che sempre la ricordano e la ringraziano. Osserviamo ancora però il bellissimo palazzo. Un castellaro trasformato dalla famiglia Quaranta in un vero e proprio castello e, attorno ad esso, pian piano, cominciò a svilupparsi tutto il paese. La famiglia QuarantaSONY DSC, prese questo feudo dai marchesi di Clavesana prima che la Repubblica di Genova, nel 1228, lo assegnò ufficialmente a Bonifacio di Lengueglia aSONY DSCssieme ad altri territori circostanti.

Nella seconda metà del Cinquecento, lasciato senza difesa dagli Spinola, nuovi signori del borgo, ma residenti a Genova, fu attaccato dai pirati Saraceni che lo saccheggiarono e ne uccisero o rapirono gli abitanti (non se ne conosce la fine precisa ma rimase senza proprieSONY DSCtari) tant’è che, nei secoli, fu oggetto di aspre contese tra gli eredi degli Spinola fino alla fine del Seicento, periodo in cui passò nei domini di Marcantonio Gentile e di sua moglie Maria Brigida Spinola e vi rimase fino SONY DSCalla conquista da parte di Napoleone nel 1797.

Esso oggi è il luogo in cui si effettuano le conferenze, le riunioni ed è anche un centro polivalente comunale.

E che belli tutti gli araldi e i simboli che lo abbelliscono, non solo di Castellaro e della RepubblicaSONY DSC di Genova ma anche di tutte le altre terre attorno.

Di fronte a lui, su una casa rosa, c’è dipinta una meridiana e, una lastra di marmo bianco, porta i ringraziamenti a Vivaldi Domenico, primo Presidente della Società di Mutuo Soccorso della zona di Castellaro.

Non è il caso di mettersi i tacchi per venire a visitare questo borgo, i tacchi non sonoSONY DSC adatti a nessun paesino ligure che mantiene le viuzze inerpicate un tempo utili persino per difendersi meglio dai nemici.

I muri delle case sono freddi, in certi punti qui non ci batte mai il sole. Le case sono unite da piccoli archi di pietra ad unica volta e, i panni stesi, ricordano i tempi antichi.

La stradina che sale verso la Chiesa Parrocchiale di San Pietro in Vincoli è molto bella, permette di vedere laggiù, fino al mare, gran parte della Valle, e ancora fino a Pompeiana, un altro paesino della mia provincia. SONY DSC

Siamo sul puntale ad Est della Valle Argentina, un angolo meraviglioso e quello che vediamo ci toglie il fiato.

Aperto. Infinito. Appagamento totale per i nostri occhi.

Bellissima è anche questa chiesa eretta nel 1619 che, un giorno, vi farò conoscere meglio. Sono tante le Chiese qui in Castellaro senza contare quella di Nostra Signora di Lampedusa, la più importante e significativa di tutta la zona non solo del paese, che vi avevo fatto vedere SONY DSCqui, in questo post https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2011/12/28/la-chiesa-di-lampedusa/ .

Spuntano campanili ovunque in questo villaggioSONY DSC. Rimango un pò qui, il sole batte sulla facciata principale di questa Chiesa donandole un colore ocra vivo. Un bagliore che esalta la tinta con la quale è stata pitturata. La sua porta è chiusa. Non possiamo entrare. I pini marittimi, la incorniciano in un verde cupo. Tutta la parete è piena di arte.

Quanta arte qui a Castellaro, quanto gusto c’è. Un giorno vi farò conoscere anche le opere di un artista che ha reso il paese SONY DSC molto colorato con le sue belle idee ma, oggi, vogliamo continuare a scovare luoghi che parlano di storia.SONY DSC

Ecco le prigioni ad esempio, (purtroppo chiuse, mi sarebbe piaciuto vederle) e la torre. Che fascino topini! Stiamo parlando di prigioni davvero in uso nel medioevo e di una vera torre di camminamento del castello della famiglia “Linguilia già dei Quadraginta” (i nomi che vi ho detto prima in lingua ancora più antica) del secolo XI. Questa torre è stata restaurata non molto tempo fa, nel 1999, ed era a pianta semicircolare. Che fascino! Sembra davvero di essere in quel tempo!

Si fanno ammirare anche le altre grate che trovi qui e là in vari edifici di tutto il paese, viene da chiedersi chissà chi c’è stato SONY DSCdietro a quelle sbarre. Da lì esce aria fredda e, guardandole, ci si ritrova avvolti da un’atmosfera misteriosa. Al loro interno è tutto buio. Buio pesto. Non si vede nulla, si può solo immaginare. Davanti alle barre di questa struttura, per non annoiarsi assolutamente, si trovano la Biblioteca Civica dedicata a Ivan Arnaldi e il Palazzo dei MarchesiSONY DSC Gentile e Spinola, risalente al secolo XVII. Un altro bellissimo edificio. C’è davvero tanto passato intorno.

E’ piacevole camminare per Castellaro, questi scorci lasciano a bocca aperta e, per qualsiasi bisogno, all’inizio del paese, “L’Osteria della Braia”, sarà un valido punto d’appoggio. Pizze, bevande e buon cibo. Potete camminare tranquilli topini.

Le mura di cinta, tutte rigorosamente in pietra, fanno un certo effetto. Non ne sono rimaste molte ma le poche restanti portano ancora la loro altezza e le fessure dalle quali le guardie e i soldati sparavano verso il nemico. Nessuno poteva avvicinarsi a quel mondo a sé. Le antiche mura, un orgoglioSONY DSC per i castellaresi. Li difesero dalle continue invasioni da parte dei Saraceni fino al 1797SONY DSC, anno in cui Napoleone Bonaparte, conquistò e abolì tutti i feudi liguri che iniziarono a far parte del Nuovo Governo Franco – Genovese della Repubblica Ligure.

Su Castellaro si potrebbe scrivere per ore e ore e passeggiando in lui si passeggia sempre con il naso all’insù.

Quest’oggi, le sue stradine a ciottoli sono deserte, ma due importanti feste raggruppanoSONY DSC le genti in questo paese in altri periodi dell’anno. La prima è quella dedicata alla Chiesa di cui vi parlavo prima, San Pietro in Vincoli, e la si festeggia il primo di agosto. L’altra invece, per Nostra Signora di Lampedusa, con tanto di SONY DSCprocessione, si effettua la domenica successiva all’8 di settembre. Queste sono due feste conosciute anche in gran parte del resto della Valle e, i partecipanti, sono sempre tantissimi.

Ma Castellaro è bella anche dal punto di vista geografico. Sì, da qui si può vedere dall’alto tutto il panorama di Taggia e lo scorrere fino al mare del Torrente Argentina, da qui si vedono anche, in lontananza: Colle d’Oggia e i Prati Piani dietro a Carpasio, il monte dei Vignai attraversato dalla strada dedicata a Don Aldo Caprile e, dietro la colla, c’è il Monte delle Sette Fontane. Esso è un monte che fa parte delle Alpi Liguri alto 781 metri. Il suo nome è dato dalla presenza di varie sorgenti che, insieme ad una morfologia quasi pianeggiante della sommità, ne fanno un habitat ideale per la pastorizia. Su questo monte inoltre ci sono moltissime “caselle”, delle costruzioni circolari in pietra a secco SONY DSCche, in passato, servivano da ricovero durante il lavoro nei campi e la stagionatura dei formaggi. Sono costruzioni tipiche della nostra zonaSONY DSC anche se ormai rare e vengono chiamate in dialetto “casui“.

Bella inoltre tutta la cresta ad Ovest delle montagne; le montagne della Maddalena, di Monte Ceppo e, più in su, di San Faustino. Per non parlar, come ho già detto prima, della splendida vista.

Le grida dei bambini che giocano ci rimbalzano nelle orecchie. Giù in fondo, all’inizio del paese, c’è un campetto da calcio e, per la strada che va’ a Pompeiana, si trovano anche i giochi per i più piccini.

Qui a Castellaro c’era anche un orfanotrofioSONY DSC tempo fa, trasferitosi mi pare più in giù, nel paese di San Remo.

A me non rimane più molto da dirvi se non quello di farvi ammirare alcune chicche che abbelliscono questo borgo come le statuine appese fuori dalle porte, i battacchi particolari e le cosine in creta, fatte a mano, create per abbellire gli ingressi. SONY DSCTanti i Soli e le Lune. La gente ci tiene a far bella figura.

Castellaro è ricco di dettagli che lo distinguono. Una vera meraviglia. Non c’è porta che non abbia un vaso di fiori colorato davanti. Avrei voluto fotografarveli tutti. Guardate i piloni, le targhe, le aiuole, i campanelli, tutti ricercati. Particolari. E come se non bastasseSONY DSC, per abbellire ancora di più la loro dimora, ecco la costruzione di divertenti miniature che fanno soffermare per essere osservate, messe lì, “puf!“, come un tocco artistico.

Mi ha colpito molto anche il lampione del palazzo che vi ho mostrato prima, Palazzo Arnaldi. Così antico, così arrugginito. Non ci vedo bene da qui ma sicuramente ci sarà anche qualche ragnatela. Sembra lì dai tempi dei tempi. E chissà, forse è davvero lì da quel passato. Quel passato che ancora oggi si può toccare con mano. Quel passato a volte scomodo, a volte no. Quegli stemmi, che ci ricordano a chi siamo appartenuti e a chi dovevamo obbedire. Che ci ricordano il nostro onore, le nostre battaglie e la ricchezza che oggi abbiamo dentro. SONY DSCPezzi di storia affiancati all’estroSONY DSC più moderno di chi vuol far apparire Castellaro come un bellissimo paese, originale, da scoprire angolo dopo angolo. E c’è riuscito.

Ora sono un po’ stanca. Se volete continuare a girare voi fate pure, io mi metto comoda, sopra a questa panchina di cemento e mattoni e mi godo il fresco, ciò che si mostra ai miei occhi e l’atmosfera che mi circonda. Socchiudendo le palpebre mi sembra di sentire anche i suoni e i rumori del tempo che fu. Il medioevo… e immagino mantelli sventolare al vento e sento il tintinnare di spade e ferraglie.

Sono contenta di eSONY DSCssere qui. Sono contentaSONY DSC di avervi fatto conoscere questo paese. Ora me lo godo in pace.

Vi saluto, aspettandovi per la prossima avventura, non mancate, mi raccomando.

Un bacio, la vostra Pigmy e un po’ di profumo da questa viola del pensiero che è qui vicino a me.

M.

 

Un luogo in miniatura

Vedete la chiesetta in cima al monte, nella foto? Ecco, oggi dobbiamo andare proprio fin lassù.

 È la piccola chiesa della Regina di tutti i Santi, e si trova in un luogo chiamato Pallera.

Abbiamo sorpassato Argallo, il paese che vi ho fatto conoscere qualche giorno fa. Da qui si potrebbe andare dritti, dritti a Case Rosse o a Zerni, oppure ancora raggiungere Monte Ceppo, che ormai conoscete anche voi.

Questa chiesa è molto apprezzata dalle persone che vivono in questa zona, ma anche i giovani, che sono andati a vivere in città e che qui hanno ancora la famosa casa dei nonni, non cambiano luogo per festeggiare battesimi o matrimoni.

Don Rubino ha spesso un gran da fare. In estate, inoltre, il suo portico e il suo piazzale circondato da panchine in ardesia offrono davvero una collocazione ideale per stare tutti in allegria godendo anche dell’ombra delle acacie tutt’intorno. Siamo a circa 700 metri sul livello del mare e ci troviamo nel comune di Badalucco. Dalle grate davanti alle finestrelle provo a fotografare l’interno dell’edificio. Solo grazie al flash riesco a vedere qualcosa. È tutto buio, ma… che meraviglia! L’ambiente è ordinatissimo, vedo un vangelo sul leggio e un campanello da suonare appeso al muro e, dietro il crocefisso, un grande dipinto che ritrae la madonna con il bambino. Maria è presente anche sotto forma di statua in tanti altri angoli di questa chiesa, ma, se non scatto foto, non riesco proprio a vedere nulla.

Ah, i santuari di montagna! La cura con la quale è stato fatto questo rifugio religioso è davvero particolare, se lo si nota in tutti i suoi dettagli e lo si osserva attentamente. Il campanile, ad esempio, è reso unico e ravvivato da mattonelle pitturate di bianco, giallo e rosso intorno alle campane e, in cima, come a voler toccare il cielo, c’è un’ulteriore croce, piccolissima, in ferro. Non solo: sul davanti, a contornare il tetto e il portico, sono stati messi mattoni pieni e pietre dorate. Come tocco finale, invece, a colpire il mio sguardo, c’è un’altra croce, completamente formata da pietre tonde incastonate nell’intonaco. Un simbolo fatto così non l’avevo mai visto sulla parete di una chiesa. Solitamente, da noi, nei centri storici dei paesi, usano fare queste lavorazioni sulle pavimentazioni stradali dei quartieri pedonali.

Andiamo a scoprire, dunque, che cosa nasconde questo Santuario.

C’è una stradina che lo circonda e dietro ecco il cimitero. Non esagero nel dire che è sicuramente il camposanto più piccolo ch’io abbia mai visto. Nella foto sembra lungo, ma vi assicuro che non lo è per niente. Qui tutto è minuto! Si presenta molto ordinato anche lui e, sotto la neve, leggo sulle lapidi date storiche, antiche: 1882, 1890, 1901… Quanti anni! Che dire ancora? Nulla, se non che anche questo è un altro posto magico della mia Valle. Vi saluto, quindi, e vi preparo un’altra gita.

Alla prossima, topini!

M.

Scioglilingua dialettale

Per questo scioglilingua dialettale devo anticiparvi, e ammettere, che riuscire a capire cosa o chi sia il protagonista di questa specie di filastrocca è stato davvero arduo.

In conclusione, mi è parso di capire si tratti di un uccello. Un uccello che, se esiste anche dalle vostre parti, lo noterete giocare con una pietra facendola rotolare. Ah! E’ anche ghiotto di fichi! Proprio come me. Queste le ultime novità dagli anziani della mia vallata:

Sciù u campanin de San Muissiu, ghe tre prè de papa figu. Nun sun mae stae papapichestrae. U vegnià u papapichestraù cu e papapichestreà.

Ehm… ok, provo a tradurla:

Sul campanile di San Maurizio ci sono tre pietre di “papa figu” (il famoso uccello del quale non conosco minimamente il nome scientifico ma “figu” mi sembra essere la pianta del Fico). Non sono mai state “usate” da questo volatile. Verrà un altro “papa figu”, un  altro uccello che le “userà”.

Vi prego, se qualche ligure delle mie parti, decide di commentare, si metta una mano sulla coscienza che sono una fragile e tenera topina, grazie. Anzi, se fosse così buono da darmi una mano…

Vostra Pigmy.

M.

Filastrocche per i più piccini

Queste topini sono filastrocche brevi che si cantano dalle mie parti ai più piccolini, magari facendoli dondolare sulle gambe o cullandoli in braccio. Ovviamente sono da canticchiare in dialetto in quanto, in italiano, sembrano proprio non avere alcun senso!

1- Sinche e sinche deje, in cavagnu de cieje. Sinche e sinche dusse, in cavagnu de fighe busse.

2- Careghetta d’ou ca pesa ciù che l’ou; l’ou e l’argentu i pesan ciù che u ventu; ventu e ventun careghetta a va in prijun.

3- Picu pichettu me fiu u l’è in bambinettu, dundu u l’è andau? Sciu u campanin di i frati a seculà e pruji ai gatti.

4- U ciove e u bajina e tuti i gatti i van a mainna, se portan u pan panè e tuti i autri ghe van de darè.

Traduzione (o meglio ci provo): anche queste mi sono state raccontate da una nonna, anzi, una bisnonna, e chissà quante volte le ha canticchiate prima ai suoi figli, poi hai suoi nipoti e poi ancora ai pronipoti. Ora provo a tradurle in quanto vengono spesso usati nomignoli dati a ricette o a animali veramente intraducibili.

1- Cinque e cinque dieci, un cestino di ciliegie. Cinque e cinque dodici, un cestino di fichi acerbi.

2- Cariolina d’oro che pesi più dell’oro; l’oro e l’argento, pesano più del vento; vento, ventuno la cariolina va in prigione.

3- Picco, picchetto mio figlio è un bambinetto, dov’è andato? Sul campanile dei frati a scrollare le pulci ai gatti.

4- Piove, pioviggina i gatti vanno al mare, si portano da mangiare e tutti gli altri gli vanno dietro.

Vi sono piaciute? Spero di sì.

M.

La piccola chiesa di Gavano

Se entrando in Val Gavano, giriamo a sinistra, trovandoci davanti al primo bivio della strada principale, riusciamo a vedere la chiesa.

Essa se ne sta lì, proprio nel bel mezzo di un tornante, e può ammirare tutto il giorno i monti soleggiati di fronte a lei.

Essendo posizionata al centro della conca, tra due montagne, non gode purtroppo della luce diretta del sole ma la zona è aperta e ampia e, davanti a lei, una piccola piazzetta, permette in estate, funzioni religiose all’aperto.

Sul suo muro laterale, sopra ad una lapide in marmo, dopo l’elenco dei caduti in guerra, una breve preghiera invita a pregare per loro chiunque passi di lì: “Pellegrino o viandante fermati: rivolgi un tuo pensiero ed una prece ai nostri caduti e dispersi”.

Su quasi tutte le chiese della mia Valle ci sono delle scritte o gentili richieste come questa, soprattutto quando si tratta di ringraziare la Madonna o per non passare davanti ad un luogo sacro con indifferenza.

Sotto al tetto, sulla facciata principale, è stata messa in bella mostra la cosiddetta Stella di David che, nella religione cristiana, troviamo molto raramente, dagli inizi del novecento (penso sia l’unica chiesa qui, ad avere questo simbolo) e, se non erro, questa chiesa è stata costruita nel 1904, salvo poi le varie ristrutturazioni.

E’ in pietra. La nostra classica pietra. Ma, la facciata principale, con le recenti ricostruzioni, hanno preferito intonacarla per proteggerla e renderla più solida. Purtroppo non è sempre facile mantenere l’Arenaria o l’Ardesia in bella vista e in perfetta “forma”.

Non posso entrare. Come tutti i santuari semi-sperduti, è chiusa a chiave. Viene aperta solo ogni tanto, la domenica, per la messa, e durante la festa del Patrono che si è celebrata proprio in questi giorni. San Vincenzo.

Attraverso un vetro però riesco a fotografare e guardare l’interno.

Parecchi oggetti sono fasciati e protetti da lenzuola e, alcune cose, addirittura, sono messe dentro agli scatoloni.

Sulle sedie c’è tantissima polvere e giù in fondo, vicino all’altare, una scopa e un bastone per lavare i pavimenti aspettano di essere utilizzati.

Il suo soffitto bianco è altissimo. E’ tutta bianca e piena di luce.

Il prete, dal pulpito, può tranquillamente vedere chiunque.

E, posizionato in primo piano, un quadro del Sacro Cuore di Gesù.

Il suo campanile è piccolo quanto lei ma, attaccato a lei, pare ancora più minuto. Due piccole campanelle ossidate, penzolano affacciandosi dai piccoli davanzali di quell’altezza. E’ sotto di lui che trovo un’altra scritta, questa volta una dedica rivolta ad un certo Gianni Zappia. Non so chi sia ma, sicuramente, doveva essere una persona buona e socievole perchè la lastra recita queste parole – A Gianni Zappia / Gavano. Buono, onesto, sempre disponibile con tutti. In memoria la famiglia e gli amici – e poi, ovviamente, le date di nascita e morte. Nei piccoli paesi si usa così.

Come avrete notato vi ho nuovamente portato in Val Gavano. E’ un posto ricco di storia e cultura inerente alla mia Valle e ho quindi voluto farvela conoscere in tutto il suo splendore.

Oltre questa chiesa, il sentiero si perde nel bosco, su per i monti e inizia a calar la sera. E’ ancora periodo di cinghiali in circolazione, meglio tornare nella mia tana. Un abbraccio. Vostra Pigmy.

M.

Una passeggiata a Bosco

Sì, non nel bosco, ma a Bosco.

Bosco è un piccolo paese che conta una ventina di anime. È una frazione di Casanova Lerrone. Oggi andiamo un po’ più verso Levante, in provincia di Savona. Siamo vicini a Ortovero, a due passi da Albenga. Bosco, dalla cima della sua collina, domina su tutta la valle. Circondato da tantissimi ulivi, rimane proprio davanti ad un bosco e la tranquillità che si respira tutto intorno è unica.

Siamo a 320 metri sul livello del mare e siamo sul versante sinistro del torrente Lerrone, che dà il nome anche all’omonima valle.

Il paese, come tutte le altre piccole frazioni dei dintorni,  basa la sua economia su olio e vino, insieme alla coltivazione di ortaggi e frutta come pesche e susine.

Ad accoglierci è una Madonna,”custode e regina del luogo” come indica la targa in marmo sull’edicola votiva.

A Bosco la vita scorre tranquilla.

Gli abitanti, per lo più contadini, svolgono le loro attività e c’è anche chi ha deciso di aprire un agriturismo e una fattoria didattica nella quale gli animali – capre, asini, pavoni, tacchini e galline – sono mantenuti divinamente. Si vogliono mettere anche in posa per fare le foto e guardate come sono belli! I capretti di 40 giorni, appena svezzati, hanno il pelo candido, le loro corna, poi, sono davvero simpatiche. Bambi e Fiocco, così sono stati battezzati i due fratellini, saltellano come trottole e ancora cercano la mamma. Le capre sono più di una ventina e ognuna ha un nome. Mentre saliamo in paese per arrivare fino all’agriturismo che si chiama “Pè pasciun” (letteralmente, per passione), incontriamo Bim Bum Bam, un simpatico micio di tre mesi che non si stacca da noi. Non vuole sapere di essere fotografato,  per cui accontentatevi del suo lato posteriore e credetemi sulla parola se vi dico che era affettuosissimo e aveva un pelo che pareva cotone, grigio con sfumature quasi rosa.

Nella mia valle, quando al mattino ci sono circa 5°/6°, a Bosco ce ne sono sempre 3 o 4 di meno, fa un po’ più freddo e, respirando, si sente l’aria gelida e pura che entra nei polmoni. L’acqua, però, in questa zona è buonissima e lo si capisce anche dal pane che viene fatto e dalle verdure, che hanno un sapore squisito.

Ci sono ancora tante cose, qui a Bosco, rimaste come un tempo. L’insegna del telefono è vecchia, come anni fa, e mi riporta alla memoria di quand’ero ragazzina, quando ancora si usavano i telefoni con i gettoni nei bar o nelle cabine. In alcuni scorci, bellissime piante rampicanti avvolgono i muri, alcuni appartenenti a vecchie dimore, altri ruderi che rendono questo posticino antico, quasi medioevale. Anch’esso, come la maggior parte dei paesi della mia valle, dal 1250 è appartenuto alla Repubblica di Genova per divenire, poi, della Repubblica Ligure prima dell’800, dopo che Napoleone Bonaparte occupò questi luoghi durante la dominazione francese.

Per essere un borgo molto piccolo, ha ben due chiese, una delle quali, la principale, ha un campanile particolare molto appuntito. Altissimo, svetta sopra ogni cosa e il suo orologio è indietro di mezz’ora, che cosa bizzarra. Davanti al portone principale, inoltre, c’è un bassorilievo rappresentante un santo e un angelo che assume differenti espressioni a seconda di come lo guardiamo. Nell’aria riecheggia ovunque il ronzio delle motoseghe, ma udiamo anche colpi d’accetta: la gente fa la legna da sé, i termosifoni sono un lusso che pochi  possiedono e, in cielo, vola fumo dai camini, profuma di buono.

Il sabato e la domenica si passano così: a fare cataste, a raccogliere rametti per accendere il fuoco o a costruirsi quella parte di muro crollata o inesistente. E per loro sono giorni di festa.

La gita è stata bellissima, abbiamo passeggiato con i nostri cani giù per un sentiero fino al torrente e abbiamo potuto notare la presenza di volpi e tanti altri animali.

Per vivere qui ci vuole passione. Non direi coraggio, passione, è questo il termine giusto. Scordiamoci il servizio del bus o altre comodità e, per chi lavora nelle città come Alassio o Albenga, si tratta di doversi mettere in auto tutte le mattine per raggiungerle (spalando neve in inverno), per loro è come andare in una metropoli.

Quando poi, però, alla sera rientrano nelle loro tane, niente è più pacifico. Queste sono per la maggior parte in pietra e ognuna ha il proprio orticello. Nessuno, qui a Bosco, compra al mercato i doni della terra! Non ci sono ville né castelli, tutte case modeste, ma belle e fatte a mano da chi ci vive, dai padri che si sono fatti aiutare dai figli o dagli amici del paese.

Ci ritornerò, mi sono davvero divertita un mondo. É bello camminare in posti come questo, quindi, seguitemi sempre perché vi ci porterò.

Uno squit a tutti.

Pigmy

M.