Mettetev
i la giacca a vento topini. Si lo so che fa caldo ma, dove vi porto oggi, tanto caldo non fa. Andiamo in un posto ricco di storia, di testimonianze e umidità.
Un luogo che fa venire i brividi in tutti i sensi. Andiamo nel bellissimo paesino di Sospel, che si chiamava Sospello, situato nel dipartimento delle Alpi Marittime.
Un tempo italiano, Sospel, si trova proprio sul confine francese, sopra Olivetta San Michele che a sua volta è dietro la città di Ventimiglia. Anche lui merita un post tutto suo prima o poi.
Qui si parla il “montenasco”, il dialetto di Mentone, un misto tra ligure e occitano e, sempre
qui, si trova una delle costruzioni più incredibili della nostra storia passata. Un bunker preservato in ottimo stato appartenente alla Linea Maginot che si estendeva dal Mar del Nord al Mar Mediterraneo.
Le prime fortezze furono costruite nelle Alpi Marittime e Fort Saint-Roch, così si chiama dove entriamo oggi, fu costruito tra il 1930 e il 1934 per proteggere Sospel. Pensate topi, solo quattro anni per creare ciò che vi mostrerò in questo post.
Sin da quel tempo, Sospel si trova al centro del dispositivo di difesa dello Stato Maggiore Francese. E tutto ciò che vedrete è originale. Tutte le stanze, le attrezzature, le armi, la ruggine, l’uso
, sono le reali condizioni in cui, durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno vissuto i soldati francesi prima e quelli tedeschi poi. Beh… forse la ruggine è aumentata…
Tutto è rimasto come un tempo. Noterete solo, al posto di vere persone, dei manichini che sono stati messi a dimostrazione di come un tempo si viveva e si lavorava all’interno di questa fortezza, vestiti con le divise originali dell’epoca e con tanto di gradi. C’era infatti il militare medico, il comandante
, il militare cuoco, il militare addetto alle caldaie e agli impianti elettrici, il centralinista, il cecchino, il generale. Il tutto a 12-15 gradi di temperatura e con un tasso di umidità costante del 75%. E allora preparatevi
, stiamo per entrare.
La grossa porta davanti a noi, un vero e proprio ponte levatoio, si apre, e a causa del calore esterno, ci sembra di entrare in un frigorifero. Per chi soffre di claustrofobia non è il luogo più adatto ma per chi invece è affascinato dal passato, da qui, non vorrà più venir via.
L’odore che ci punge il naso è quello di umido, di muffa. E’ stagnante, ma il fresco ci permette di farci presto l’abitudine. Tutto è di cemento e ferro; ogni cosa che si tocca produce un forte “dleng!“. Devo essere sincera. Rimango incredula
, allibita. E’ affascinante davvero.
Nelle cucine, le prime stanze in cui si entra, ci sono ancora addirittura le pentole e la lavagna sulla quale si scrivevano le pietanze della mensa. Un lavandino in pietra. Dai vecchi rubinetti. Cola del liquido arancione arrugginito. Di fronte alle cucine ecco la stanza dei macchinari, sarà una sensazione ma la ventola produce un rumore così forte che sembra di essere
ancora in guerra. Ciò che attrae, e spaventa anche un po’, però è il lunghissimo e buio corridoio che si prospetta davanti a noi e del quale non se ne vede la fine. Buio, che poi buio non è, ma le fioche luci si notano solo dopo una leggera curva poi, tutto dritto, fino… boh, non lo so fin dove. Il flash della mia macchina fotografica non arriva a tanto. Lo vedete? Per terra dei freddi binari. Erano i binari dei carri. Carri che sembravano i carri delle miniere. Servivano per trasportare le attrezzature pesanti, i grandi proiettili delle grandi mitragliatrici fisse o dei cannoni. A condurre alcuni di questi carri un soldato. Sì, potevano trasportare anche le persone, soprattutto in su, dalla ripida scalinata. Ebbene sì topi, perchè
poi scenderemo, scenderemo fin giù, sotto terra, non so nemmeno io di quanto.
Le tubature, in alcuni punti, sono rifasciate da un materiale che sembra carta stagnola e, intorno, altre entrate annunciano i vari locali. I bagni, deprimenti. Delle vecchie turche. Non so in quanti soldati vivessero qui ma di urinatoi/turche ne ho contate cinque. Solo cinque.
Le altre due porte i
n lamiera portano invece a delle docce e un gocciolio perpetuo fa impressione.
Oltre i bagni ecco le camerate: i soldati semplici dorm
ivano tutti
insieme nei dormitori che contenevano parecchi letti e, alcuni, erano – a castello -. Il comandante aveva invece una stanza tutta sua, con il comodino per giunta.
Attaccata ad ogni lettino, dalla testiera anch’essa in ferro come la maggior parte delle cose lì dentro, una borraccia in pelle, un cappello di riconoscimento e una sacca come porta-oggetti e anche porta-armi presumo. Si era costantemente pronti alla battaglia.
E’ vicino ai dormitor
i che c’è una camera nella quale si può notare come si decidevano le operazioni di attacco o di difesa e, attraverso le radio e i telefoni, alcuni a circuito esterno altri interno, si facevano conoscere a tutta la truppa. Si era una grande squadra, un’unica grande squadra, questo è quello che trapela ancora da questo luogo ormai da anni disabitato.
Non posso fare a meno di immaginarmi al posto di quegli uomini
davanti a questo lavatoio, a lavarmi i denti, seduta a questa scrivania a scrivere una lettera alle persone care, e mi vengono i brividi… poi, un locale particolare, mi incuriosisce molto. E’ l’infermeria e non è solo u
n’infermeria: è una vera e propria sala operatoria che funzionava anche da semplice ambulatorio. Mette i brividi. Sugli scaffali, ordinati, tutti gli attrezzi del mestiere, così, senza pietà, in bella vista. In fondo, la realtà era quella. Bisturi, ganci, aghi, coltelli, pinze, garze, lacci, tutto mi dipinge un’espressione seria sul viso. Guardo quella branda lurida ormai. Eppure qualcuno c’è stato lì sopra. Immagino il vero medico al posto del pupazzo in lattice, è incredibile, mi sembra di
sent
ire l’affanno del militare ferito che non può e non vuole urlare, mentre l’etere, o il cloroformio, s’impossessa di lui. Ci sarà stato almeno un modo per anestetizzare? Mah, non ci voglio pensare.
La cabina di comando è invece piena di roba. Ognuno aveva una scrivania personale, un telefono, un notes e una marea di bottoni da cliccare. Non ci si
capisce nulla. Solo su alcuni altoparlanti ci sono dei pulsanti che riportano la scritta “ecoutè” e “start“.
Delle agende permettono di vedere dei conteggi. Sfido
chiunque a comprenderne il significato ma sembrano le quantità delle munizioni e del cibo. Può essere.
Dentro a delle bacheche in vetro, dei cimeli preziosissimi: passaporti, documenti, tesserini che riportano i dati anagrafici di chi ha vissuto lì e posso vedere anche qualche viso in vecchie foto color seppia.
Il ver
de militare è ovunque e poi bandiere, cappelli, svastiche, medaglie, proiettili da qualsiasi parte io mi giri.
A prendere tutta una parete, oltre alle solite armi da portata come pistole e fucil
i, l’ala intera di un particolare aeroplano, completamente devastata dai proiettili e staccata dalla matrice.
E qui si scende, si va giù grazie ad una scala che porta a un cinema dove dei filmini dimostrano, in bianco e nero, come si viveva in quel tempo.
Dai lati di questo posto si può andare sia a destra sia a sinistra, nel centro ci sono accatastate delle grosse munizioni ben stipate dentro a delle gabbie.
Delle piccole e strette scalette, da ambedue le parti, mandano alle torrette
di appostamento dove, comodamente seduti, si poteva sparare al nemico vedendolo arrivare attraverso delle feritoie.
Fa ancora più freddo. Sopra le nostre teste, non potevamo vederlo, ma c’è un prato, il prato della Provenza, quella magnifica distesa di lavanda e origano
che incontriamo spesso nella mia entroterra. Lo si vedrebbe se si potesse sorvolare con un aereo. Si sarebbe visto solo una gran meraviglia ma, sotto, tutto era ben diverso. Questa montagna dentro è un Gruviera. Dal cinema intanto continuano a provenire i rumori soffocati e lontani dei bombardamenti aerei e degli spari di fucile.
Siamo nelle campane di questa casamatta e mi accorgo che davvero nessuno può vederci. Siamo in una delle prime fortificazioni della Linea Maginot, un compless
o integrato di opere militari che il Ministro francese, Andrè Maginot, obbligò a costruire su tutto il confine Est della Francia e, la cosa straordinaria, è che queste mega strutture, distanziano da loro di 5 km circa ma, all’interno, sono tutte collegate. Incredibile.
Non possiamo passare alla prossima. Dei pesanti portoni blindati ce lo vietano anche perchè non tutte sono mantenute bene come questa che, per 5.00 euro, si può visitare per
tutto il tempo che si desidera.
Costruzioni da record e vennero fatte in soli 12 anni. In Alsazia, l’opera di Schoenenbourg, pare essere la più grande di tutte. Alcune,
sono sotto il Demanio francese, e quindi visitabili come questa, altre invece, appartengono ancora al territorio militare percui è impossibile accedervi.
Scendo dal mortaio 81 mm, mi ci ero arrampicata per vedere fuori: il bosco, gli uccellini, il cielo azzurro, c’era aria di buono là fuori, c’era il sole. A questo punto, posso tornare indietro. Via da quel cemento e quell’acciaio.
Ripercorro all’indietro tutti quei metri. Mi ci è voluto quasi un intero pomeriggio per godere di questa avventura. Sono rim
asta meravigliata e ho tante emozioni contrastanti. Qui, in questo bunker che doveva proteggere i francesi, hanno poi preso piede le forze militari tedesche Wehrmacht. Qui, in un luogo che mi fa sentire fredda e appiccicaticcia, ho potuto vedere molte cose e ne sono stata contenta. Ora però ho voglia di sole, di caldo, di aria sana.
Esco e il vecchio custode
mi saluta senza quasi nemmeno alzare lo sguardo. E’ intento nella lettura di un fumetto pare. E allora topi, che ne dite? E’ un luogo comunque interessante, una tana particolare. Basta cunicoli per un po’ però. Vi mando un bacio e vi aspetto per il prossimo tour. La vostra Prunocciola.
M.
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