Il profumo di un Natale antico

Topi, ma voi lo sapete com’era vissuto il Natale di un tempo in Valle Argentina? No?! Allora bisogna rimediare. Insomma, per un motivo o per l’altro mi fate sempre lavorare, Santa Ratta! Ah… ma è proprio per questo che vi voglio così bene, in fondo.

Dai, venite con me e non fate i musoni, che oggi vi faccio conoscere le feste così com’erano ai tempi dei nostri topononni. Andiamo indietro negli anni, ad annusare il profumo di un Natale del quale oggi sono rimasti i malinconici e nostalgici racconti dei più anziani.

I giorni di festa di allora non erano come quelli odierni: erano vissuti e attraversati nella  povertà, non c’erano sfarzi né abbondanza e tutto era più pacato, semplice e frugale… ma c’era una ricchezza diversa, quella calorosa che si esprimeva dal cuore e che era in grado di arricchire ogni cosa. Là dove oggi abbiamo la frenesia di regali, addobbi e acquisti sfrenati, anni fa c’era raccoglimento e pace nell’animo, uniti alla convivialità che in questi freddi giorni di fine anno diventava particolarmente generosa.

Per rispecchiare l’idea di quel Natale e quei festeggiamenti che furono, anche le immagini con le quali ho corredato l’articolo sono semplici, dai colori tenui e mai troppo appariscenti, con soggetti tutt’altro che sfarzosi. Perché, in fondo, anche se lo abbiamo dimenticato, un tempo il Natale era così (per lo meno nelle zone montane e nei paesi costieri): povero, essenziale e modesto.

I nostri topononni non accendevano festoni luminosi nelle loro tane, né per le strade dei loro topo-borghi esistevano le luminarie che oggi abbelliscono viali, corsi e edifici.

Ma non fraintendetemi: le luci c’erano, eccome! C’erano le candele, tante anche, a rendere calda e dorata l’atmosfera, un ambiente unico e magico, che poteva essere respirato e percepito solo in questo periodo dell’anno. Ad arricchire i borghi erano gli auguri che gente si scambiava tra sorrisi e aiuti reciproci.

Oggi abbiamo meno candore intorno, le temperature si sono alzate rispetto a quelle degli inverni vissuti dai nostri anziani. E così ecco che la neve viene a trovarci più di rado, ma un tempo non era così: a Natale le nostre Alpi Liguri erano innevate e il Saccarello, insieme alle altre cime che tiene per mano in un girotondo di roccia, pareva proprio lo sfondo perfetto per un Presepe.

La coltre nevosa rendeva tutto ovattato e quieto e così anche i ritmi di vita, inevitabilmente, rallentavano. Le lunghe ore di buio si trascorrevano tra le mura domestiche, raccontando storie antiche davanti alla stufa o al camino, mentre si mettevano a essiccare le bucce degli agrumi che spandevano così il loro profumo festoso per tutta la stanza.

Nel silenzio che subentrava al calar della notte, si udivano riecheggiare dolci filastrocche e mentre gli adulti non smettevano di preparare buon cibo, i topini chiedevano storie riguardanti il Natale.

E in quelle sere gelide si apprezzava assai lo stare in compagnia, la famiglia riunita nel cuore pulsante della tana. Chi filava, chi ricamava, chi intagliava, chi si riposava dalle fatiche del giorno e chi si metteva in ascolto dei racconti degli adulti con gli occhi adoranti e le orecchie attente. Stare insieme era la ricchezza più importante e apprezzata, in quei tempi in cui si possedeva poco, anche se le necessità erano tante, e si ringraziava di avere i membri della propria famiglia accanto, ricordando quelli che, invece, non c’erano più e avevano lasciato grandi assenze.

In questo contesto, topi miei, persino i piatti che si cucinavano avevano sapori semplici, non si faceva gli schizzinosi né si andava tanto per le lunghe per decidere quali piatti avrebbero reso più gustoso il giorno della nascita del Bambin Gesù. Le pietanze corroboravano e ritempravano già solo con i loro profumi, arricchiti da una terra aspra dall’aria salubre e salmastra.

E c’erano, poi, i cibi che erano portati in dono da Babbo Natale in persona! Eh sì, cari amici, i regali d’un tempo erano questi. Anche perché niente aveva più valore del cibo per le genti povere delle valli e delle montagne, quando la fame si pativa e sfiancava il fisico e il cuore. E allora quel signore dalla barba bianca vestito di pelliccia portava in dono castagne secche e mandarini a tutti i topini, forse non riuscite a immaginare la loro contentezza e i sorrisi che gli allargavano le boccucce, ma vi assicuro che c’erano!

In pochi sapranno il perché di questi doni, che si scambiavano – e si scambiano ancora – in questo periodo dell’anno. Le radici di tale usanza si perdono nel tempo, ma regalare ai più piccoli della famiglia cibarie e leccornie era un gesto simbolico assai significativo: protagonisti erano spesso semi e frutti, che simboleggiavano la nuova vita che sarebbe rinata a Primavera. I topini rappresentano da sempre la speranza nel futuro, le piantine nuove della famiglia che un giorno fruttificheranno… e allora donar loro un seme, la parte più nutriente di una pianta, significava riporre fiducia nella rinascita, ma anche offrire forza e nutrimento a coloro che più ne avevano bisogno per diventare grandi e portare avanti la discendenza.

I giorni che si avvicinavano al Natale erano anche giorni di intense preghiere, qui in Valle Argentina come altrove. Molto sentita è sempre stata la festa dell’Immacolata Concezione dell’8 dicembre, in cui si onorava in grande stile la Madonna con l’accensione di fuochi purificatori. Si sgranavano rosari, si partecipava alle funzioni religiose e si ricordava la Vergine Maria in ogni parola e in ogni gesto.

Che il culto mariano sia molto sentito  dalle mie parti ve l’ho già detto altre volte, e lo dimostrano gli omaggi dedicati a Maria nelle statue, nelle edicole e in tutte le rappresentazioni sparse qua e là per tutta la vallata.

La si correlava molto anche all’acqua come se fossero state due Madri benedette.

Quando poi giungeva la sera della Vigilia, si giocava e si chiacchierava sgranocchiando noci, fichi secchi e uva passa.

E poi? E poi, topi cari, si andava a dormire col cuore colmo di gioia che già assaporava i doni e le sorprese del giorno a venire… la stessa gioia che mi auguro proviate anche voi nell’attendere un altro mio nuovo articolo.

Un bacio di pan di zenzero a tutti voi!

Microcosmi necessari

So che a parecchi di voi questa immagine potrebbe fare un po’ ribrezzo, eppure vi sto per parlare di un habitat importantissimo e fondamentale della natura.

Il colore verde, che da come potete vedere ha tinto tutta l’acqua e il fondale, è dato da piccolissime alghe e mucillagini che si sono formate grazie alla luce solare. Ecco infatti i protagonisti della vita: l’acqua e il sole.

Le mucillagini sono microorganismi che contengono proteine date proprio dalle piante sia terrestri che acquatiche.

Le bollicine si formano invece attraverso il surriscaldamento e l’attività frenetica dei batteri, molto utili anche loro, i quali si occupano della trasformazione delle cose. In caso di pozza, l’acqua dopo un po’ evapora e attende la pioggia per riempirsi nuovamente o assorbe nuova acqua dalla falda sotterranea che la nutre. Alcune bolle, invece, possono essere create da piccole creature e dalla loro respirazione o dal loro movimento, mentre altri tipi possono essere le uova di certi animali.

In questo ambiente, che si può definire a tutti gli effetti un micromondo, c’è tutto quello di cui alcuni animali necessitano. Ci sono nascondigli, cibo, zone per il relax.

Qui, zanzare, moscerini, trote, salamandre, rane, rospi, pipistrelli, gamberi, bisce, gerridi e molte altre specie trovano da mangiare o sono loro stesse alimentazione per altri, dove un circolo perfetto continua perpetuo.

alghe melma

In Valle Argentina siamo abituati a vedere acqua limpida e fresca sgorgare dalle fonti o correre in discesa, impetuosa nel torrente, ma se si bada bene lo stesso torrente, ai bordi, può mostrare questi particolarissimi habitat. Da noi, certo, sono sempre molto piccoli, ma in alcune zone del mondo possono invece ricoprire l’area di interi chilometri quadrati e questo accade perché il pianeta ha bisogno di questi cosmi in miniatura.

Da qui, infatti, risale evaporando l’umidità giusta che occorre al bosco e al territorio circostante, la quale regola la temperatura, il microclima e permette a fiori e foglie e al terreno stesso di essere imbibiti del liquido più prezioso e vitale: l’acqua.

Questa specie di stagno si può ricreare anche artificialmente in giardino, dove alcuni pesciolini saranno lieti di sfamarsi con larve o pupe, purché sia abbastanza capiente da permettere all’ittiofauna di muoversi in tutta tranquillità.

Non è difficile trovare in queste mini paludi anche delle bellissime piante acquatiche come gli Iris d’acqua, il Papiro, le Ninfee o le Canne.

D’ora in poi, prima di storcere il muso davanti a certe tane, sappiate che possono essere importantissime anche per voi! La vita inizia proprio lì!

Un bacio melmoso, la vostra Topy.

Quando cade un albero

Sento già i vostri lamenti di tristezza, state bravi per favore, che questo non è un post drammatico, tutt’altro. Ho da dirvi delle cose molto importanti e non hanno niente a che vedere con frasi strappalacrime o commenti di disperazione. Siate allegri, suvvia!

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Quando un albero cade per cause naturali, siano esse una valanga, il vento, un fulmine, la forza dell’acqua che scava i pendii, non c’è da rattristarsi, topi! Credete forse che quel tronco possente e quei rami siano ormai morti? Be’, non è così, e vi spiegherò presto il perché.

albero caduto

Lo so che voi esseri umani faticate a vedere oltre ciò che appare, ed è giusto così, ma ci sono qui io coi miei occhi da bestiolina a farvi osservare il mondo con uno sguardo diverso.

Quando un albero cade, viene accolto dall’abbraccio amorevole di Madre Natura, la stessa che l’ha generato, che per tanti, tantissimi anni gli ha permesso di affondare le radici nel suo ventre.

albero caduto fiume

Quando un albero cade, non muore, ma si trasforma in qualcosa di nuovo, di diverso da quello che era fino al momento che ne ha preceduto la caduta. E, fermandosi a guardarlo da vicino, osservandolo anche a mesi di distanza, è possibile vedere tutta la Vita che brulica in lui.

albero caduto3

Ci sono alberi che, se cadono al suolo, rigettano rami dal tronco spezzato e abbandonato sulla terra, mettono nuove radici e rinascono.

Ci sono alberi che offrono cibo e materie prime agli animaletti del bosco, grandi e piccoli: formiche, ragni, caprioli… qualcuno ne mangia la corteccia, altri vi scavano dei tunnel, altri ancora ne fanno una dimora sicura e confortevole.

 

E’ una trasformazione, vedete? Solo un passaggio di stato, così come fa l’acqua da quello liquido a quello solido quando in inverno ghiaccia sui prati, tra le rocce, sui rami… e nella maggior parte dei casi nessuno si dispera per questo.

Ma non finisce qui.

Come immaginerete, un bosco è costituito da alberi giovani e anziani che vivono gli uni vicini agli altri. Quando un albero anziano viene abbattuto dall’età o da una tempesta, gli alberi più giovani assumono il ruolo del “genitore” caduto, crescendo più vigorosi e facendo uscire tutto il potenziale che avevano trattenuto per tanto tempo.

pino

I ceppi di molti alberi, come quelli di Frassino o di Nocciolo, danno inizio a un nuovo ciclo vitale: il ceppo si rinnova completamente e questo li rende in pratica immortali!

Un umano saggio una volta disse “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” e, se vi fermaste a osservare con attenzione la Natura in ogni sua manifestazione, potreste vedere la verità di queste parole.

Adesso vi saluto, topi. Vado a zampettare nel bosco, ho da raccontarvi altre cose interessanti!

Un abbraccio trasformato.

Originali e profumate foglie di Salvia fritta

Le avete mai mangiate, le profumatissime foglie di Salvia fritte in pastella, topi?

Oh! Vi assicuro che sono una vera delizia e semplicissime da preparare. Inoltre, anche se fritte, sono sicuramente più sane di molte merendine confezionate e quindi, ogni tanto, si possono dare ai piccoli topini come merenda.

Possono essere un buon contorno o un ottimo antipasto e si possono anche intingere nell’uovo e nel pan grattato ma sembra che in pastella piacciano di più.

Croccanti, gustose e anche belle da vedere!

Dobbiamo scegliere le foglie grosse, la ricetta viene meglio e danno più soddisfazioni. Daremo loro una sciacquata e le asciugheremo bene tamponandole con un canovaccio pulito.

La pastella io la preparo in questo modo: farina, birra fredda, acqua fredda, un pizzico di sale e una punta di bicarbonato grazie alle indicazioni che mi ha dato la mia cara amica Romina. Con la frusta, per non creare grumi, mescolo il tutto fino ad ottenere una sostanza che non sia né troppo liquida, né troppo solida dal color avorio.

Ci immergo dentro le foglie facendo sì che si sporchino per bene di pastella da una parte e dall’altra, senza lasciare zone pulite. Se la pastella rimane un goccio densa e ne rimane troppa attaccata alla foglia, se ne toglierà un poco accarezzandola e lisciandola con le dita, altrimenti farà troppe bolle d’aria durante la cottura.

In una padella si metterà dell’olio e, quando questo sarà bello caldo, si faranno cadere dentro le foglie zuppe di pastella, ben divise tra loro. Ci vorrà un attimo affinché siano pronte. Basterà aspettare la loro doratura e poi si toglieranno con delle pinze per adagiarle in un piatto sopra un foglio di scottex che assorbirà l’olio in eccesso.

Una volta cotte tutte le foglie, si saleranno e si potranno utilizzare come accompagnamento di qualche altra delizia.

Io, ad esempio, questa volta le ho affiancate al gorgonzola e l’abbinamento ha avuto un risultato fantastico.

E’ un piatto veloce e facile, ma avrà un grande successo e sarà molto originale, pronto per essere presentato ai vostri ospiti.

Correte a prepararlo e poi ditemi come vi è rimasto!

 

La Pizza ai Fiori e il saper assaporare

Quando preparai la mia Pizza ai Fiori di Zucca, quel giorno, mai avrei pensato di poter regalare a voi un fantastico consiglio. Maga Gemma sarebbe nuovamente venuta a trovarmi, e volevo fare un figurone, tirai fuori dalla manica una ricetta unica e assolutamente speciale per quell’occasione.

Il consiglio di cui vi parlavo poco sopra riguarda una di quelle abitudini che noi animali eseguiamo in automatico, non pensiamo mai a trasmetterla anche agli umani, sempre troppo presi da mille cose da fare, irrequieti e stressati.

Prima di tutto, però, lasciatemi dire che la mia pizza ha avuto davvero un grande successo!

«Deliziosa!» l’ha definita Gemma e io ne sono stata contenta. Ha i gusti molto difficili quella Maga, sapete?

La mia pizza è tutta naturale, una vera bontà. Vi rivelo immediatamente come l’ho preparata. Allora, per prima cosa, per farne una bella teglia dovete procurarvi:

  • 130 gr di farina integrale
  • 260 gr di farina 1 (o anche manitoba tipo 1 per salati)
  • 25 gr di lievito madre secco (io ho usato quello fresco perché me lo autoproduco)
  • 2 cucchiai di olio di oliva
  • sale q. b.
  • 200 gr circa di acqua tiepida
  • un po’ di maggiorana
  • un po’ di origano
  • 200 gr di pizzottella
  • scamorza affumicata a piacere
  • una quindicina circa di fiori di zucca

Mescolate le farine e disponetele a fontana, come a creare un vulcano. Mettete acqua, poca per volta, nel centro, assieme a olio e lievito. In un bicchiere a parte sciogliete il sale in poca acqua. Mentre iniziate a impastare le farine con la parte liquida, versate anche il sale sciolto a poco a poco.

Iniziate poi a impastare più energicamente, aggiungendo l’acqua a poco a poco, finendola tutta.

L’impasto, a questo punto, apparirà morbido e appiccicoso, ma continuando a impastare diverrà morbido e soffice senza più attaccarsi alle dita.

Una volta raggiunta la consistenza giusta, si unge la teglia, si adagia l’impasto e si stende la pizza con le mani partendo dal centro e andando verso i bordi, senza bucare la pasta e rispettando i gas di lievito, perciò occorrerà usare delicatezza.

A questo punto lascerete lievitare nel forno spento per almeno due ore. La mia ha lievitato più di otto ore, e il risultato è stato eccellente.

Trascorso il tempo di lievitazione, sminuzzate la mozzarella con le mani e  cospargetela su tutto l’impasto, ungendolo poi un poco, se vi piace meno asciutto. Grattugiate grossolanamente la scamorza affumicata nella quantità a voi più gradita  e spolvererete la superficie con una prima parte della maggiorana.

Pulite i fiori e apriteli, adagiandoli infine sopra il formaggio e sovrapponendoli un po’, coprendo bene tutta la pizza. A questo punto, sia che lo avete già messo prima sia che lo abbiate omesso, occorre irrorare con del buon olio, sale, origano e maggiorana a piacere e infornare a 220° per un quarto d’ora.

Ecco bello e pronto il vostro figurone! Come vi dicevo, Maga Gemma se n’è mangiata due bei pezzi, portandosene via altri due per l’indomani: una grande soddisfazione per me. Ma – posso proprio dirmelo da sola- era una squisitezza!

Comunque, mentre si stava assaporando tanta delizia, la Maga mi fece notare come la maggior parte degli umani, mentre mangia, non pensa minimamente a quello che sta facendo: porta il boccone alle labbra con un gesto inconscio e abitudinario del corpo. Che peccato! Ci sono così tante cose da scoprire negli ingredienti! Sono un mondo e, prestando loro attenzione, si può entrare in esso.

«Sai cosa penso, Pigmy?» mi disse a un certo punto quella fantastica donna.

«Dimmi pure, Gemma»

«Noi sappiamo che, ad esempio, i fiori di zucca sono un vero toccasana contenendo le vitamine del gruppo B e anche molto Potassio e Calcio; risultano utilissimi per chi soffre di osteoporosi e, d’estate, quando è il loro tempo, ne facciamo grandi scorpacciate in modo da assimilare queste proprietà per parecchio tempo. Ebbene… io penso che, se mentre mangiamo questi grandiosi doni della natura, pensassimo a quello che contengono e a cosa stiamo ingoiando, i loro principi attivi avrebbero ancora più potere all’interno del nostro organismo. Ovviamente io e te lo sappiamo, mi riferisco a quelle persone che mentre mangiano fanno tutt’altro.»

«Non hai torto, Gemma, secondo me. E’ come dare a queste proprietà un potere in più. Tenendone conto è un po’ come “nutrirle”, dar loro importanza, renderle ancora più vive e più efficaci.»

«Esattamente. E poi è davvero un peccato non assaporare appeno di quella loro delicatezza, anche se il mio discorso vale per qualsiasi alimento.»

«Mentre si mangia è bello diventare parte del cibo, essere presenti a ciò che si sta facendo, comprenderlo in noi come un tutt’uno: ci si sente più ricchi e più sazi, perché si vanno ad alimentare anche altri sensi. Si entra in correlazione con quell’ingrediente e, attraverso l’energia, lo si fa manifestare in tutta la sua meraviglia. Soprattutto dentro di noi.»

«Hai proprio ragione Pigmy. Io so che è così.»

«E se lo sai tu che sei una Maga…»

Quando la Maga se ne andò, fui felice di quel bel pomeriggio passato assieme a parlare di un discorso che appare banale, ma che invece è così importante. Mi auguro abbiate potuto recepirlo anche voi. Io ora vado a preparare qualcos’altro da mangiare, a voi non mi resta che augurare una buona pizza e, mi raccomando, vivete il momento del pasto. Trasformatelo in un attimo di benessere totale.

Squit!

L’Estate – il tempo dei frutti

Se la Primavera è il tempo dei fiori, l’Estate è quello dei frutti e, fortunatamente, nella mia Valle Argentina, le stagioni si distinguono ancora molto, offrendo ognuna le proprie meraviglie.

Il verde è il colore regnante, un verde acceso che ammalia e anche i doni di Madre Terra sono verdi, per il momento… o almeno quasi tutti.

Oggi vi porto a vederne qualcuno, sono bellissimi e golosissimi. Naturalmente, nella mia Valle si trovano ovunque, perché quelli autoctoni nascono selvatici nei boschi e nei sentieri.

Per conoscerli meglio andrò a trovare Maga Gemma, lei sa tutti i loro segreti e sono sicura che mi racconterà molte cose su questi straordinari regali della natura dei quali io sono ghiotta.

Inizio già a vedere alcune piantine che conosco, sento qualche dolce profumo e vedo le loro tinte sgargianti, che meraviglia! E’ tutto offerto dal pianeta… mi sento grata e ricca! Qui c’è da mangiare per mesi e mesi!

«Pigmy, cara!» esclama una bellissima voce femminile dietro di me. «E’ possibile che pensi sempre a mangiare?!» la maga mi sorride.

«Maga Gemma! Ma come hai fatto a capire che…»

«Oh! Pigmy, suvvia… sono una Maga…» sorride ancora.

Io sono sbalordita da tanta bellezza che mi circonda. Attorno alla casa di Maga Gemma, una stupenda dimora in mezzo al bosco, c’è qualsiasi ben di Dio e, curiosa come sono, inizio subito a gironzolare e a infilare il muso ovunque, rapita da tanto splendore.

«Quelli sono Piselli Pigmy. Tra pochissimo si potranno mangiare.»

Ma che meraviglia! Sono buffi e molto carini, delle piccole palline con le quali si possono realizzare minestroni, contorni, insalate, creme, zuppe…! Mi volto di scatto attirata da altre biglie. Questa volta sono colorate di un rosso fuoco e sono appese a un albero: «Le Amarene!» urlo raggiante.

«Esatto! Più aspre delle Ciliegie ma anch’esse ricche di proprietà.» mi rivela la Maga.

«Davvero?» sono una grande conoscitrice di piante e fiori, ma vorrei che Gemma mi dicesse qualcosa di suo. «Racconta!» la esorto.

«Beh…contengono melanina e quercetina, la stessa sostanza che trovi nelle Cipolle. pensa. Quindi sono antitumorali, ma rilassano e fanno dormire sereni. Ottime contro lo stress. Tu non ne soffri, ma i tuoi amici umani sì!». Ecco, questa cosa non la sapevo.

«Nel dialetto della Valle si chiamano “Agriotti”», dico. «Alcuni frutti assumono nomi davvero strambi. Le Fragole sono “Merelli” e le Albicocche “Miscimì”. Bah!» ridiamo entrambe e continuiamo la nostra gita tra erbe e alberi.

Ecco, una delle poche piante senza fiori e senza frutti, poiché sono invernali. E’ il Kiwi e, per ora, offre una gradevole ombra proprio davanti alla casa di Maga Gemma grazie alle sue foglie larghe e tonde. Il Melo, invece, ha già fatto nascere piccole melette ancora verdi. Saranno aspre anche quando saranno mature, ma succose e buonissime perché contengono un’acidità molto piacevole. Fanno proprio bene, tra l’altro! Queste sono le vere Mele che tolgono il medico di torno, se mangiate ogni giorno!

«Seguimi Pigmy, voglio farti vedere uno spettacolo» mi invita la Maga e, fiduciosa, mi avvio dietro di lei. Mi fa chiudere gli occhi, mi fa fare qualche passo e, quando spalanco il mio sguardo rimango allibita! Neanche qui i frutti ci sono ancora, ma quello che vedo è il loro preludio! Gli Ulivi, alberi quasi sacri per noi liguri, sono completamente bianchi perché ricolmi di minuscoli fiorellini che tra qualche mese saranno Olive, le migliori al mondo: la speciale Oliva Taggiasca. Sono un trionfo di candore, sembrano pieni di lana, di neve! Qui da noi si dice “con la panna”! Appena si sfiorano con le zampe, cadono lievi a terra, perciò è bene non toccarli troppo! Un affascinante manto bianco che incanta.

«E questa invece sai cos’è?» mi dice quella splendida donna. Riconosco il frutto, non sono mica nata ieri, in fondo: «L’Uva Spina!».

«Bravissima! Per chi soffre di problemi all’intestino, questa è un vero toccasana!»

«Oh, sì!» replico. «So che contiene anche tantissima Vitamina A e tantissima Vitamina C,ed è anche molto dolce.»

«Esatto. Ancora poco tempo e sarà pronta anche lei. Questa, come vedi, è la varietà bianca, ma c’è anche quella rossa o violacea.»

«Che splendore!» Ammiro tutto estasiata.

Non posso credere di essere circondata da tanta ricchezza. Neanche a dirlo mi sono fatta una bella scorpacciata di parecchie cose mentre quelle che devono ancora maturare sanno che dovranno attendermi, perché tra qualche giorno verrò ovviamente ad assaggiarle.

Saluto Maga Gemma, la ringrazio e me ne torno alla tana con un bel cestino pieno di tante prelibatezze e, nelle narici, il dolcissimo profumo dei Tigli che mi ha riempito i polmoni. Qualche Zucchino, due Albicocche, un po’ di Pomodori… posso sfamare un reggimento. Ora devo lavare tutto, cucinarlo e farmi un po’ di provviste, quindi vi saluto e vi aspetto per il prossimo tour nel bosco dove andremo a mangiucchiare altre squisitezze, tutte naturali.

A presto Topi! Preparate le dispense!

Pruny, il Naan, il Padre Nostro e Maga Gemma

Buongiorno Topi, devo assolutamente raccontarvi la mia giornata di ieri perché è stata contrassegnata da diverse emozioni dal mattino alla sera. Non ci crederete, ma ho avuto a pranzo un’ospite veramente di riguardo, di quelli che ben poche volte s’incontrano sotto questi Castagni. Tenetevi forte!

E’ venuta a trovarmi al Mulino nientepopodimenoche… Gemma, la più grande e potente Maga dei boschi che io abbia mai conosciuto. Solo il suo nome la dice lunga su quanto siano preziosi la sua essenza e il suo sapere. Maga Gemma, infatti, mi ha sempre insegnato molto nonostante mi metta un po’ di soggezione con quel suo modo di fare austero e severo, ma so che è molto buona e che la sua essenza è pura e devota a Madre Terra, proprio come la mia.

Insomma, per un’ospite così importante, dovevo cucinare qualcosa che fosse all’altezza e ho deciso di accompagnare le Noci tostate e una macedonia di Mirtilli selvatici a un’ottima marmellata di Sambuco e… al Naan.

Oh, sento già che vi state chiedendo che cosa caspiterina sia questo Naan, per cui ve lo spiego subito. La ricetta mi è stata tramandata da un lontano topo-parente che ho in India, il quale è considerato, nella città di Deshnoke, la reincarnazione di un Sadhu, un Santo della religione Indù. Certo! Mica come qui che, a noi topi, ci cacciano via dalle città! Comunque, grazie a Giuliva, la mia amica Oca, che ha volato per un mucchio di chilometri, ho ricevuto in dono questa preziosa ricetta che condivido con voi dopo averla rivisitata e personalizzata.

Innanzi tutto devo dirvi che il Naan è un cibo nutriente, salutare, ma anche molto semplice da preparare e davvero goloso. Io mi diverto a farlo aggiungendo diversi sapori come lo Scalogno, la Verbena, l’Aglio, i Semi di Girasole e… con un po’ di fantasia, qualsiasi ingrediente andrà più che bene.

Quello che vi presento oggi è all’Origano (Origanum vulgare) e davvero ottimo.

Il Naan, conosciuto come un pane lievitato (in tanti usano il lievito di birra), è invece preparato da me completamente senza lievito, ma rimane ugualmente morbido e friabile e anche sufficientemente spesso da poter aprire a mo’ di panino e farcire come meglio si preferisce.

Con il termine Naan si intende, in tutta l’Asia Centrale e nel Medio Oriente, qualsiasi tipo di pane azzimo, ossia un pane al quale non occorra lievitazione. E’ molto diverso da quello che preparo di solito.

Con le dosi che vi scrivo in questo articolo, riuscirete a creare 8 panetti, più o meno del diametro di 12 cm circa, ma potrete farli anche più piccoli e più sottili e ottenerne 2 in più.

Gli ingredienti e la quantità sono i seguenti:

  • 300 gr di farina integrale
  • 250 gr di yogurt bianco magro
  • ½ cucchiaino da tè di bicarbonato
  • 1 filo d’olio extra vergine d’oliva
  • 3 pizzichi di sale
  • 1 manciata dell’ingrediente che avete scelto (in questo caso l’Origano).

L’Origano, dall’inconfondibile profumo fresco e aromatico, è un vero toccasana naturale, con proprietà antiinfiammatorie, antisettiche e antispasmodiche e ricco di vitamine, sali minerali, calcio e potassio.

Mescolate e impastate bene il tutto.

Se l’impasto dovesse risultare un po’ troppo asciutto, anche se vedrete che non sarà comunque molto morbido né appiccicoso, potrete aggiungere un goccio di latte a temperatura ambiente o tiepido. All’inverso, se troppo bagnato, aggiungete farina.

Una volta ottenuta una palla, dividetela in quattro parti e poi ognuna di queste parti ancora a metà, fino a ottenere, come vi dicevo prima, 8 pezzetti di pasta che trasformerete in palline.

Le palline verranno poi schiacciate con le zampe e le dita per assottigliarle e appiattirle, c’è anche chi usa il mattarello, ottenendo cerchi perfetti, ma io preferisco un risultato più rustico e meno preciso. E poco sottile, anche. Pure l’occhio vuole la sua parte, come in tutte le cose, e al mio piacciono le imperfezioni.

Mettiamo a scaldare sul fuoco una padella che dev’essere molto, molto, e ancora molto antiaderente, così, senza l’utilizzo di olio o altro, potrete cuocere i vostri Naan evitando che si attacchino. Il fuoco dovrà essere vivace e la padella, prima di essere utilizzata, dovrà essere bella calda.

Passatelo qualche minuto da una parte e qualche minuto dall’altra a fuoco sempre bello vivo, ma non al massimo, o rischiate di bruciare il vostro capolavoro. I miei si gonfiano un poco, ad alcune persone diventano proprio come dei palloncini che poi si sgonfiano una volta tolti dalla padella. La cottura dovrete controllarla da voi, perché dipende da vari fattori, soprattutto dallo spessore del Naan e dalla potenza del fuoco. Io, il primo, l’ho praticamente distrutto per guardarlo dentro, assaggiarlo e capire quando era pronto. All’incirca, comunque, occorreranno 4-5 minuti per ogni piadina. Ovviamente potete farli cuocere anche più dei miei, se vi piacciono più croccanti e  abbrustoliti, io, però, li gradisco morbidi e teneri.

Potrete farne quanti ne vorrete, conservarli è facilissimo. Basta metterli nel congelatore e, all’occorrenza, farli scongelare e riscaldare o nel microonde o sulla piastra elettrica. Anche in padella andrà benissimo. Rimarranno un po’ più croccanti fuori e soffici dentro. Se, invece, li lasciate diventare secchi nella credenza, potrete sempre consumarli nel latte, nel tè o nel caffè, o persino nella minestra, come dei crostini, sarà come intingere del pane e a me piace molto. Non si spreca nulla.

Il vero Naan, che non prevede l’aggiunta di un ulteriore sapore, è meno gustoso, seppur buonissimo, mentre con l’aggiunta dell’aroma che più preferite diventa davvero goloso da mangiare come una focaccia o un trancio di pizza e da dare anche ai topini per la merenda della scuola. Comodo e genuino, insomma.

Vi sto descrivendo la ricetta per fare quello che viene chiamato “Naan salato”, ma potete realizzarlo anche dolce mettendo lo zucchero (vi consiglio quello di canna) al posto del sale e cospargendo poi la vostra creazione di ulteriore zucchero, magari a velo, farcendolo poi con del cioccolato o della marmellata, del miele o del malto. Una squisitezza!

E lo ha dichiarato anche Maga Gemma, che mi ha raccontato una storia davvero molto curiosa proprio sul Pane.

Questo alimento è considerato da sempre il cibo più povero e più genuino di tutti. E’ anche quello più indispensabile, che accompagna i nostri piatti dai tempi più antichi e piace davvero a chiunque. Di tipi di pane ce ne sono migliaia ed è senza ombra di dubbio l’alimento più umile che si conosca.

«Pruna, conosci quella che può essere considerata la preghiera più famosa per gli umani appartenenti alla religione cattolica?» mi ha chiesto Maga Gemma, sorseggiando un goccio di Mentolino di mia produzione una volta ultimato il pranzo.

Speravo non mi cogliesse impreparata: «Ehm…» ho risposto titubante «il Padre Nostro

«Esattamente! Dacci oggi il nostro pane quotidiano» fece lei.

«Si!» replicai con entusiasmo per essere riuscita bene nell’interrogazione.

«Parlando di Pane mi hai fatto venire in mente questa riflessione. Tu sai cosa significhi, in realtà, parlare di pane quotidiano in questa preghiera?»

Cavoli, ora le domande stavano prendendo una linea un po’ ostica e titubai. Cosa significa? Indicava, forse, la sussistenza che ci viene sempre offerta? O, forse, che grazie a lui possiamo sfamarci ogni giorno?

La Maga, che è proprio una Maga, si accorse della mia esitazione e, con dolcezza, si appropinquò a fornirmi le dovute spiegazioni.

«Vedi, Pruna, in realtà, anche molti esseri umani credono che, parlando di Pane, s’intenda il cibo vero e proprio. Tuttavia, in realtà, nella preghiera si sta sottolineando una metafora molto importante. Innanzi tutto occorre sapere che, secondo alcune fonti, questa supplica venne insegnata da Gesù ai propri discepoli con l’intento di usarla come strumento per avvicinare gli uomini a Dio, al Padre, quindi all’Assoluto. Si tratta di un dono che spetta a ciascuno di noi, anche agli animaletti come te, e alle piante e a tutto il Creato. E’ un dono che possediamo dentro: il poter vivere in un continuo stato di entusiasmo, in connessione con il Divino. Si tratta di vivere nell’amore e nella gioia, ma, mentre per noi abitanti del bosco questo compito appare più facile e naturale, per la maggior parte degli esseri umani, alterati dalla frenetica società in cui vivono, tanto semplice non è.»

Wow! Ero già tutt’orecchi e la Maga, sorridendomi, continuò: «Il Pane della preghiera simboleggia le necessità che si percepiscono durante la vita, e, soprattutto, durante il presente, cioè nell’Adesso, in questo preciso momento. Ecco perché si parla di  quotidiano. Ciò significa ricevere la possibilità di soddisfacimento per tali bisogni e imparare a vivere anche senza di essi. Il Dio che risiede fondamentalmente in ognuno di noi non ha dei bisogni, non dovrebbe averne: egli vive e basta, godendosi la magia di questa grandissima e complessa avventura che è la vita. Ciò significa anche che, proprio nella quotidianità, non occorre pensare ai bisogni del passato, a ciò che poteva servire ieri o un anno fa. Sono tempi che non esistono più, per cui serve focalizzarsi solo sul presente, sul “Qui e Ora”, e solo in quel momento si può vivere la meravigliosa sensazione e comprensione che, in quel preciso istante, non si ha esigenza di niente. Tutto è perfetto, in connessione con l’Energia Universale. Tutto esiste e vive.»

Ero completamente rapita da quelle parole. Non avrei mai immaginato che, preparando una ricetta tanto semplice, avrei potuto ottenere in cambio tanta saggezza.

«Dacci oggi il nostro pane quotidiano… quindi, se ho capito bene, significa rivolgersi all’Energia Universale chiedendole di regalarci la capacità di entrare, essere e rimanere in presenza, nel nostro Sé Superiore. Significa possedere tutto, insomma, in quella dimensione nella quale possiamo vivere per quello che siamo realmente e non soltanto come dei corpi con una ragione. Giusto?»

«Proprio così Pruna, brava!»

«Significa anche dover recitare tale preghiera con la consapevolezza che hai offerto tu, al fine di poter ottenere davvero ciò che si chiede?»

«Naturalmente. Le preghiere non sono recite inutili, inventate a casaccio, tanto per dare fiato alle trombe. Hanno da sempre un loro scopo ben preciso e che l’Universo ascolta. Non importa a quale religione apparteniamo, o se si crede o meno in un Dio. Quello che è basilare è l’intento della richiesta, perché l’Energia del Cosmo ascolta e risponde, riflettendo esattamente quello che noi emaniamo. Ma questo è un discorso molto lungo e importante, Topina, che dovremmo affrontare in un secondo momento. Per ora accontentati di quello che ti ho spiegato oggi e, se ti capita di incontrare qualche umano, riferisci ciò che hai imparato. E’ importante.»

Ero felice di aver soddisfatto la Maga, tengo molto al suo giudizio. Qui nel bosco è considerata un essere di grande saggezza ed è amica delle Fate e dei corpi sottili che ci svolazzano attorno ogni dì e che presto vi farò conoscere. Io sono davvero felice, non vedo l’ora di preparare qualche altro piatto goloso per invitare di nuovo Maga Gemma da me e affrontare con lei altre illuminanti questioni.

Nel frattempo, non mi rimane altro che augurarvi buon appetito, Topi, e vi do appuntamento alla prossima squisita e salutare ricetta! Squit!

Caino e Abele nella Valle Argentina

Questa è la storia (vera) di due fratelli che vissero in Valle Argentina, precisamente nei pressi del borgo di Loreto, verso la fine dell’800 e i primi anni del ‘900.

I due fratelli, il cognome dei quali iniziava per L. ma non posso svelarlo del tutto, vivevano in due case di pietra in uno dei punti più rocciosi della Valle. Siamo in Alta Valle, oltre Triora e poco prima di Realdo, dove le lisce e alte pareti di roccia oggi permettono scalate a chi ama arrampicarsi.

Non c’era terra e le loro dimore erano state costruite su dei costoni che si affacciavano sul torrente.

Uno dei due, il più anziano, coltivava un piccolo pezzo di terra davanti a casa. Un appezzamento molto prezioso, in quanto di terra, in quel punto lì, non ce n’era per niente.

Un giorno, il fratello più giovane, passando vicino alla campagna del maggiore, permise alla propria capra di divorare un cavolo di quell’orto e questo fece arrabbiare così tanto il più grande che prese una grossa pietra e la scagliò contro il fratello più piccolo e irrispettoso, colpendolo proprio alla testa. Non lo uccise, ma si fece ugualmente circa otto anni di duro carcere. Una volta uscito di galera, tornò in quella casa e rivide il fratello. Per niente soddisfatto e ancora pieno di rancore, questa volta gli tirò una badilata sul viso, ma lo ferì solamente a un labbro e quindi non venne messo in gattabuia.

Viene subito da pensare che questo fratello maggiore fosse davvero una persona cattiva, violenta e rancorosa, ma io, senza giustificare né giudicare nessuno, vorrei porre l’attenzione su qualcosa che forse sfugge ai più, ma che riguarda tutta la mia Valle.

Partiamo dal presupposto che non si fa del male a nessuno, così evito eventuali incomprensioni. Come già sapete, sono contro la violenza di qualsiasi tipo e verso chiunque, però una cosa che al giorno d’oggi non riusciamo più a comprendere è l’immensa ed estenuante fatica che un tempo, soprattutto in certe zone della mia Valle e di tutta la Liguria, si compiva nel cercare di creare spazi pianeggianti atti alla coltivazione per evitare di morire di fame. La Liguria è una regione morfologicamente molto difficile da coltivare. La Valle Argentina è culla, inoltre, del monte più alto di tutta la regione (il Saccarello, 2.201 mt). Questo indica come la mia sia una Valle che, in pochi chilometri, dal mare giunge ad alte vette, quindi potete capire come sia aspra e scoscesa, seppure bellissima. Durante la costruzione di terrazzamenti e muri a secco, per creare le famose “terrazze liguri”, strisce di terreno nelle quali seminare ortaggi e grano, si faticava assai. Cumuli di terra e grosse pietre pesanti venivano trainati con sforzi disumani, in salita, per chilometri e chilometri o a braccia o con l’aiuto di muli che, spesso, sfiniti anch’essi, dovevano fermarsi a riposare. Una volta trasportato tutto il materiale in alto con sangue e sudore, si iniziava il lavoro: si disboscava o si spaccavano rocce e falesie (a mano!), si scavava, e non c’erano di certo le ruspe, si  ergevano muri e poi si procedeva al riempimento con la terra che veniva poi battuta e smistata (sempre a mano!).

Ora, nonostante con questa spiegazione sia impossibile concepire veramente la fatica di quegli uomini, potete credermi se vi dico che ogni dono della terra, nato in quelle sottili strisce, era un tesoro dal valore inestimabile che permetteva il sostentamento.

Questo, lo ribadisco, non vuole giustificare l’atto del fratello maggiore, ma, proprio da chi è sangue del mio sangue, io non mi aspetterei un gesto così poco rispettoso come quello di far mangiare il mio cavolo a una capra che aveva ettari interi di bosco e brughiera nei quali sfamarsi.

Il gesto del fratello più grande, ripetuto poi attraverso la vanga, è sicuramente imperdonabile, ma non badiamo a lui per un attimo. L’importante, secondo me, è osservare con gli occhi dell’ammirazione e dello stupore quello che, oggi, nella Valle, ci circonda.

Quando notiamo le nostre montagne e le nostre colline trasformate in enormi gradini, soffermiamoci a pensare alla portata del lavoro di gente che ha sfamato anche i nostri nonni e i nostri padri. Se ci pensate bene, guardando questo territorio, ha davvero dell’incredibile.

Un caro saluto, Pigmy.

Tempo di funghi, tempo di bontà

Un classico topini. E poi, cosa volete… ha piovuto due giorni e tutti si sono avventurati alla ricerca dei protagonisti di questo tipico piatto conosciuto e amato in tutto il mondo: Il Risotto ai Funghi Porcini. I re dei funghi.

Conosciuti anche, a seconda della regione italiana, con i nomi di bulè o bulot o mori. E con essi si possono preparare prelibatezze indescrivibili ma, questa che vi propongo oggi, con la mia amica Niky, è sicuramente la più usata e la più famosa. E chissà se piace anche a voi o se anche voi la preparate così. Siete pronti? Iniziamo.

Rosoliamo in un poco di buon olio d’oliva (ingrediente indispensabile) e burro, una bella cipolla o uno scalogno, che avremo tagliato fine fine, alla julienne, senza farla scurire in pentola ma soltanto, diciamo, appassire.

Quando diventa color dell’oro aggiungiamo i Funghi che precedentemente abbiamo pulito, lavato e tagliato a pezzettini e li accompagnamo ad aglio e prezzemolo tritati.

Facciamo sfumare del vino bianco che dà sempre quel tocco in più ma c’è chi invece usa e adora la birra.

Buttiamo il riso che solitamente laviamo un po’ con dell’acqua in un colino per eliminare tutto l’amido che lo sporca di bianco e aggiungiamo ancora un po’ di vino. Quando anche quest‘ultimo vino bianco è sfumato sfrigolando, possiamo mettere del brodo che ci aiuterà a cuocere il riso insaporendolo molto più che della semplice acqua.

Metteremo il brodo poco per volta con un mestolino e noteremo che, il riso, se lo assorbe subito tutto, infatti, dovremo continuare a mescolare. Tutto questo andrà avanti fino a fine cottura e sempre a fuoco lento.

Una volta ultimata la cottura del riso, che solitamente impiega una ventina di minuti a cuocersi, bisogna far mantecare una noce di burro e servire guarnendo nel piatto con una parte dei funghi risolati a parte o una fogliolina di prezzemolo. Bisogna pur dargli quel tocco di classe no?!

Non penso che questa ricetta sia prevalentemente della mia Valle, ne’ tanto meno della Liguria ma so che, tutti gli anni, appena spuntano i primi funghi, non può mancare sulle nostre tavole questo delizioso primo piatto.

A questo punto non mi rimane altro che mandarvi un bacione e un grande “buon appetito” tutto per voi e ricordate: per poter preparare bene questa ricetta, i funghi bisogna andarli a cercare ma questo significa quindi poter passare una giornata divertente assieme alle persone che preferiamo. Perchè raccogliere funghi, vuole anche dire, rispettando il bosco, vivere una nuova avventura!

Bacioni!

M.

Particolarità della Cucina Genovese alias la Cucina Ligure

Oggi, facendomi aiutare dalla sapienza della giornalista Laura Rangoni, vi voglio far conoscere meglio la nostra cucina.

Laura Rangoni s’interessa infatti di storia del cibo, dei rapporti di cibo e psicologia, di folklore e tradizioni alimentari e userò qualche suo scritto per raccontarvi di una cucina a mio avviso un po’ diversa dalle altre.

Bene, ecco vedete, innanzi tutto bisogna precisare una cosa: quando si parla di cucina Ligure, non si dovrebbe usare solo l’aggettivo “Ligure” bensì anche il termine “Genovese”. E’ un filo sottilissimo che le divide ma miliardi di cose le accomunano. Si potrebbe fare di tutta l’erba un fascio ma non è esattamente così. Non mi si chieda perchè. Forse perchè tutto è partito da lì, da questo capoluogo affascinante e dalla lunga e ricca storia.

E’ ovvio che le stesse ricette le si conoscono da Ponente a Levante, anzi, siamo proprio noi ponentini a fornire maggiormente castagne, nocciole, olive… ed è la città di La Spezia (Santa Teresa) a fornire i mitili ma, Zena (Genova), merita la nomina di questa particolarissima arte culinaria e,  probabilmente, essendo in posizione centrale, rispetto alla regione, è giusto così.

Par proprio che, da un estremo all’altro della Liguria, ci si riunisca nella Superba tutti insieme per poter inventare, preparare e gustare ciò che rende felice tutti i palati del mondo. Senza tralasciare che Genova stessa gode di ricette che non si trovano nelle altre provincie liguri.

Alessandro Molinari Pradelli, studioso e ricercatore di civiltà contadine ed enologia invece divide bene le due cucine lasciando a Cesare quel che è di Cesare e distanziandole tra loro; io però oggi vorrei coniugare una regione che dà al suo capoluogo così come esso dà alla sua regione.

E allora perchè questo tipo di cucina risulta così originale? Ve lo spiego subito: vi dice niente il connubio mare-monti? E i nostri marinai, pronti a scavalcare mari impetuosi per portare ingredienti da terre lontane? Ma andiamo per ordine perchè, anche questa storia, potrebbe essere letta come una bella favola ed è proprio per raccontarvela che mi farò aiutare dalla Rangoni così come mi hanno aiutato nonni, genitori e i segreti della mia stessa Valle con le sue mille piante ed erbe officinali.

Vedete, Genova ha una posizione geografica particolare rispetto alle altre città italiane e questo ha contraddistinto la sua cucina tradizionale. Come Guccini, verso Bologna, cantava che “… ha il seno sul piano padano e il culo sui colli…“, di Genova, potremmo dire, immaginandocela prona, che si bagna il viso nel mare e si fa accarezzare i piedi dalle fronde degli alberi prealpini. Che il nostro cantore De Andrè me la passi buona!

Questa splendida città è situata sul mare ma a ridosso delle colline, quindi, nel tempo, si sono potuti accoppiare, nelle ricette tradizionali, sia i prodotti derivanti dalla pesca, sia le verdure coltivate nelle strisce di terreno strappato alla roccia, aggiungendo poi al tutto anche l’universo di erbe aromatiche tipiche della Liguria.

Non mancano infatti i prodotti spontanei che si trovano nelle pinete e nei boschi tipo funghi e pinoli che hanno dato una nota originalità ad una cucina, nel suo complesso borghese e popolana, montana e marina assieme. Ma anche noci, castagne, olive ed erbe varie, denotano l’abilità di questi abitanti nell’inventare ricette gustose con ingredienti poveri e facilmente reperibili sul territorio.

Infatti, a causa della particolarità orografica, della scarsità dei pascoli per i bovini e di zone di coltivazioni estese di cereali e ortaggi, la Cucina Genovese ha sviluppato ricette con prodotti facilmente conservabili quali ceci e altri legumi utilizzati, ad esempio, nella Farinata e nella Mesciua, oppure cucinando stoccafisso e baccalà.

I Liguri sono maestri della conservazione. Hanno dovuto imparare per forza.

E non mancano nemmeno le suggestioni… Come vi dicevo prima, riportate in patria dai marinai che hanno visitato paesi lontani e hanno acquisito l’abitudine del preferire sapori forti, sinfonie di sapori sapientemente modulati con l’uso delle erbe. Il basilico soprattutto, conosciuto in tutto il mondo, contraddistingue questa cucina interpretata da raffinati intenditori. E non si tratta solo del Pesto. Quel Pesto che non è mai uguale a se stesso nonostante la semplicità della sua ricetta.

Un’altra regina incontrastata della Cucina Genovese, che ha reso nota tutta la regione, è la torta Pasqualina, accompagnata da altre torte di riso e/o verdura; ottima, pronta e completa per essere consumata nelle lunghe notti di pesca.

Anche la pasta ha una lunga tradizione. A ricordarlo anche l’Agnesi d’Imperia. I “Macarones”, pensate, compaiono citati in una fonte genovese del 1279. Probabilmente, i naviganti liguri, conobbero gli Arabi e provvidero a diffonderne l’uso già nel lontano Medioevo.

La pasta fatta in casa invece compare sulle tavole da sempre e trova la sua apoteosi nelle Trofie, ma anche nelle torte di riso, nelle sardenaire, nelle focacce citate già nei cinquecenteschi ricettari (come “Gattafure Genovesi”).

Non possiamo poi tacere sull’olio, il prodotto di quegli ulivi che sembrano sofferenti sferzati dal vento e bruciati dal sole. Un olio che risulta uno dei migliori d’Italia, profumato e delicato al tempo stesso e che costituisce il condimento essenziale dei piatti tipici liguri.

Zena, epicentro di una regione dai sapori ricchi, dai profumi intensi e dagli introvabili ingredienti come: i carciofi d’Albenga, i fagioli di Badalucco, i radicchi di Chiavari, i pomodori di Cervo.

Una cucina prevalentemente vegetariana che sfrutta le ricchezze del suolo e del suo sole perenne. Una cucina che ha saputo esaltare i sapori della sua terra con nobile maestria e che fortunatamente, io nella mia Valle, posso gustare ogni giorno.

E allora… che un buon appetito vi accompagni topi. Buona pappa a tutti.

M.