Il Camoscio – superare i propri limiti proteggendo l’amore

Cari Topi, oggi ho intenzione di presentarvi un altro dei tanti miei amici e, per farlo, andrò alla ricerca del mio solito mentore che conosce ogni più piccolo segreto sugli animali; il mio caro Lupo Odoben Malcisento.

Ve lo ricorderete, immagino, il Generale di Corpo d’Armata del branco ehm… del I° Scaglione della Valle Argentina? Come no? Beh, allora potete andarlo a conoscere in questi due articoli che avevo scritto tempo fa sul Biancone https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2019/12/09/il-biancone-la-forza-del-guerriero/ e sul Capriolo https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2019/05/27/il-capriolo-la-sua-vita-e-quella-di-tutta-la-natura/ se vi interessa sapere tutto, ma proprio tutto, su alcuni animali della mia bella Valle.

Io, intanto che voi leggete, mi appropinquo a cercarlo, starà sicuramente facendo qualche esercitazione sul Garlenda… anzi… starà facendo – FARE – qualche esercitazione sul Garlenda.

A chi? Ovvio, al branco che con infinita pazienza lo ascolta per assecondarlo! E’ ancora convinto di essere in guerra quello! Santa Ratta! Che pazienza ci vuole a volte! E tu guarda se deve farmi fare ‘sta salita ogni volta che lo cerco!

Puff! Pant! Oh, meno male che lo sento! E’ proprio laggiù, avevo pensato bene, tornare indietro sarebbe una faticaccia… Lo sentite anche voi vero?

<< Forza! Branco di spelacchiati! Avaaaaaantiiiiii! March!!!! >>

Non cambierà mai… << Generale Odoben! >> finalmente mi sono ricordata di chiamarlo con il suo titolo, ci tiene molto, guai se lo scordo. << Generaleeee!!!! >>. Sempre sordo come una campana!

Niente, devo andargli sotto il muso.

<< Generale! >>

<< Piccola Ratta rammollita! Cosa ci fai qui?! >>

A volte gli azzannerei la coda per come mi chiama poi si che se ne accorgerebbe di quanto io sia rammollita << Generale! Buongiorno Generale! Signorsì Generale! Po- potrei disturbarla un secondo esimio? >>

<< Mhmm… Sai che non amo essere interrotto durante un’esercitazione roditore, ma è un po’ che non ti vedo in effetti… attendi sull’- Attenti -, metto la mia squadra a riposo >> brontola << Battaglion! At – tenti! Ri – poso! Eccomi denti lunghi, sono tutto tuo >>

Sgrunt! Più invecchiava e più diventava insopportabile.

<< Avrei tanta voglia di raccontare, ai miei amici umani, di un nuovo animale! >>

<< Un canale? Che canale?! Televisivo? >>

La sua sordità era proverbiale in Valle Argentina ma riusciva sempre a stupirmi! << A-ni-ma-le! Animale Odoben! >> urlai.

<< Ah! Animale! E di quale animale vorresti parlare? >>

<< Del Camoscio! >>

<< Puah! Quel quadrupede smidollato! >>

<< Mi scusi se mi permetto di contraddirla Signore ma non definirei uno smidollato un animale che si butta giù a rotta di collo per crinali impervi e impraticabili dalla maggior parte di noi! >> pronunciai con un tono quasi imperativo

<< Bof! Se ti bruciasse la punta della coda dalla paura lo faresti anche tu Topo storto! >> boffocchiò.

Era inutile discutere con lui…

Provai a insistere però << Sarà anche timoroso ma, nel linguaggio della Natura, egli indica che ci sono diversi ambiti della propria vita nei quali ci si sente al sicuro vero? Esso stesso è un gran protettore verso chi ama, verso i luoghi a lui cari ed è disposto a fare di tutto pur di aiutare nel momento del bisogno >>

<< Sì, è vero. Tanto pauroso fisicamente, quanto impavido nei sentimenti… una contraddizione, ne convieni? >>

Lo lasciai dire.

Per osservare il Camoscio da un punto di vista spirituale occorre indirizzarsi alla Capra che, in ambito totemico, ha molto da dire su di sé. La Capra, infatti, è l’emblema del “riuscire”, del raggiungere (metaforicamente parlando) altezze del nostro essere che non si credevano possibili. Racconta delle potenti energie della Natura e indica anche un essere un po’ capriccioso ma, su tutto questo, Odoben, era poco istruito.

Compensava però con tutto il resto del suo sapere. Conosceva i movimenti del Camoscio come fosse esso stesso un Camoscio.

So che a molti umani in ascolto, ciò che sto per svelare farà rabbrividire, ma chissà quanti ne ha cacciati in gioventù per sfamarsi!

Eeeeh… lo so, dispiace anche a me, ma sono le leggi del bosco e della Natura tutta… cosa devo dire io, allora, quando i Gufi non mi riconoscono e mi rincorrono finché non sentono la mia voce? Non voglio neanche pensarci, fatemi cambiar discorso per favore…

<< Qual’è la qualità più grande di questo animale, secondo te, Odoben? >>

<< Beh…  quella di cui parlavamo prima. ‘Sto capretto tremolante non lo ammiro granché ma devo ammettere che come riesce a correre e a saltare sulle rocce lui, nessun altro è in grado! Una saetta anche nei luoghi più impervi! Pensa che, per la sua agilità, lo associano all’Antilope >>

<< È vero! È incredibile vederlo muoversi velocemente tra i massi, come faccia non lo so… incanta! >>

<< Beh, più che cantare, il Camoscio, soffia o fischia… >>

<< In – canta! >>

<< Ah! Sì, incanta, ma non bisogna rimanere incantati a guardarlo! Spesso, quando galoppa prorompente sui crinali, fa cadere pietre molto grosse in basso e chi è sotto rischia di prendere un grosso sasso in testa. Pericolosissimo! >>

Il Generale aveva ragione. Ho visto anch’io, sovente, pezzi di roccia staccarsi e rotolare violentemente in giù, sotto gli zoccoli dei Camosci durante le loro veloci corse. Ma le loro pazze discese restano affascinanti, soprattutto in inverno, quando il ghiaccio e la neve rendono ancora più ostici certi percorsi.

Sul manto bianco, inoltre, quelle bestiole si vedono meglio. Si mimetizzano di più, con il territorio circostante, durante la bella stagione.

Vero? Chiesi per sicurezza

<< Assolutamente. Il colore del loro pelo cambia. In inverno è di colore bruno, parecchio scuro, e composto da due tipi di pelo, un tipo più ruvido e uno, sottostante, più lanoso. In estate invece, resta maggiormente quello più ruvido e più esterno, il quale si schiarisce divenendo grigiastro, arancionato >>

Ero contenta di non aver detto stupidaggini.

Il Camoscio, chiamato scientificamente Rupicapra rupicapra proprio perché ungulato appartenente alla famiglia dei Bovidi e molto simile alla Capra, deve molto al suo mantello che lo protegge dal clima, dai rovi e persino dagli attacchi di alcuni predatori. E se vi parlo del suo mantello non posso non nominarvi anche le sue corna.

Le corna del Camoscio, seppur piccole e ricurve, sono perenni, mentre i palchi dei Caprioli e dei Cervi invece cadono con la muta. Questi uncini d’osso, sulla testa, presentano degli anelli sulla loro superficie e questi possono servire a comprendere l’età dell’animale. Difficilmente, però, superano la lunghezza di 30 cm circa.

Si parlava con Odoben di quanto male possa fare un colpo preso da quei cornini che sembrano piccoli e sottili. Sarei stata ad ascoltarlo per ore ma non potevo più trattenermi, dovevo rintanare, scendere giù dal Garlenda, di notte, non è mica così semplice sapete? Decisi quindi di salutarlo.

<< La ringrazio Generale! Come sempre è stato bellissimo parlare con lei! >>

<< Devo dire che, nonostante tu mi abbia disturbato, inutile roditore, sono stato anch’io volentieri a parlare con te >>

(Sempre gentilissimo).

Bene Topi, ora corro in tana a scrivere tutto quello che ho scoperto oggi così potete leggerlo con calma e, nel mentre, potete guardare anche due immagini di questo animale splendido che vive le nostre Alpi!

Vi mando un bacio leggero… leggero come il salto di un Camoscio ma anche sincero quanto lui.

Alcune foto sono state gentilmente concesse da Andrea Biondo

Verso Gola dell’Incisa e le Peonie selvatiche

Oggi Topi, grazie al periodo di primavera avanzata nel quale ancora siamo, posso portarvi in un luogo davvero magico. E’ magico perché è bellissimo di suo ma, ora, lo è ancora di più grazie ad un verde vivacissimo e la fioritura di tantissimi fiori che rendono questo ambiente degno di tutta l’invidia di Walt Disney.

E’ infatti come camminare in una fiaba.

La Natura sta dando il meglio di sé in un trionfo di fiori, colori e profumi.

I doni sono tanti, di mille tinte e mille forme, ma uno sguardo particolare lo daremo alle splendide Peonie selvatiche che non crescono ovunque, ma ovviamente qui si, perché siamo in un paradiso.

Non siamo proprio in Valle Argentina ma sul suo confine.

Andremo sui monti che la incorniciano e che si possono vedere da ogni suo punto. Che partecipano a renderla meravigliosa.

Andremo verso montagne aspre, soprannominate addirittura le “Dolomiti Liguri” e visiteremo una Gola che sembra uscita da un film fantascientifico.

Severa, erta, profonda. Dalle pareti rocciose che la circondano, alte e colossali.

Partendo da Colle Melosa e più precisamente dalla Fontana conosciuta come “Fontana della Forestale”, qualche tornante più su della più nota “Fontana Itala”, ci dirigeremo verso il Monte Toraggio (1.973 mt) passando per la Valletta e fermandoci poi alla Gola dell’Incisa. Sarà proprio qui, attorno ad un sentiero scavato nella roccia un’ottantina di anni fa dai militari, che potremo godere di un panorama meraviglioso e una natura incontaminata.

La parte apicale di questa Gola presenta un Eden infinito che lascia a bocca aperta, delineato da questo percorso sul quale siamo, a picco sull’abisso. Si tratta del famoso “Sentiero degli Alpini”, oggi malridotto in certi punti, pericoloso a causa della mancanza di protezioni a valle e il suo essere molto stretto e persino inaccessibile dal lato, appunto, del Toraggio.

Per arrivare qui, infatti, siamo passati dal lato del Monte Pietravecchia (2.038 mt) che ci permette di camminare su un sentiero meraviglioso, prettamente pianeggiante e che sembra in molti tratti un lungo prati circondato da alberi lussureggianti.

Soltanto verso l’arrivo diventa più selvaggio ma resta adatto a tutti.

Oltre il bivio della Gola l’accesso invece resta adatto agli impavidi, i quali, dirigendosi poi verso l’immenso potranno godere dei fiori rari che vi ho citato prima: le grandi, rosa e magnifiche Peonie, simbolo di affetto, amore, generosità e abbondanza.

Qui siamo al Passo dell’Incisa, a 1.684 mt e siamo in un luogo che ha vissuto molta vita militare in passato. Quei costoni impervi che la formano sono stati palcoscenico di difese, osservazioni e battaglie.

Le rocce sono stratificate e, in alcuni punti, formano i famosi flysch dei quali spesso vi ho parlato e che troviamo in diverse zone della mia Valle, i quali donano alle pareti rocciose un’apparenza ancora più rude.

Stare qui è bellissimo. Viene in mente il titolo “Dove osano le Aquile”. In realtà, pur essendoci i nobili rapaci, a regnare sono i Gracchi Alpini e Corallini. Sì, qui ci sono entrambe le specie ma i Corallini vivono solo qui mentre gli Alpini si possono trovare anche in altri luoghi lungo la Catena Montuosa del Saccarello.

Anche gli insetti che svolazzano sembrano più coraggiosi di altri. Adattati a un luogo che può apparire ostile ma che ha davvero tanto da offrire.

Pensare ad un ritorno in tana fa quasi male, si vorrebbe restare a godere di questa pace e di tanta magnificenza ancora per molto tempo. La parola – tempo – mi porta con la mente al clima. Qui è davvero bizzarro e imprevedibile.

Si parte con il sole e un cielo terso, poi arriva la nebbia, piove ma spunta il forte vento e ritorna il sole a splendere con i suoi raggi che abbronzano. Se vi avventurate da queste parti vi consiglio di portarvi tutto l’occorrente dal k-way alla crema solare.

Ma in fondo… è anche questo il bello di questi luoghi e si potrebbe leggere come una generosità particolare da parte della natura che vuole offrirci tutto.

Spero che questo luogo vi sia piaciuto e che non vi siate stancati troppo perchè dovete prepararvi per la prossima escursione. Vi aspetto!

Un bacio massiccio, la vostra Topy!

La Stella Alpina, principessa dei monti

Oggi ho proprio voglia di vantarmi, topi. Oh, sì! Ho voglia di vantarmi perché nella mia stupenda Valle Argentina vive una pianta molto, molto speciale, un fiore assente in tutto il resto della Liguria, ma qui da me cresce eccome! E si trova solo qui per giunta, non ho forse motivo di vantarmi, quindi?

Sto parlando di lei, di chi altri se no? La Stella Alpina, topi!

Conosciuta anche come Edelweiss, che significa “bianco nobile”,  il suo nome scientifico è Leontopodium alpinum e fa parte della famiglia delle Asteraceae. Il nome latino significa letteralmente “piede di leone”, perché i suoi capolini somigliano molto alla zampa del felino re della savana. Fino alla seconda metà del XIX secolo era chiamata “fiore di lana” per il suo aspetto candido e morbido, ma altri sono i nomignoli che le sono stati attribuiti, uno più bello dell’altro: stella del ghiacciaio, stella d’argento, fiore immortale delle Alpi e regina dei fiori di montagna sono i più belli.

E’ un fiore prezioso che raggiunge al massimo i 30 cm di altezza, anche se in Valle Argentina si presenta più piccola rispetto a quelle del vicino Piemonte.

Le sue gemme vengono protette dalla neve nei mesi invernali, e lei se ne sta lì, sotto la morbida e fredda coperta, ad attendere che giunga il momento di far brillare i suoi fiori e le sue foglie, coperte da una sottile peluria, che le rende quasi traslucide come la superficie della luna. La lanugine che la ricopre si ispessisce a seconda dell’intensità del sole, quasi a volersi proteggere dai raggi dell’astro che fa da padre al nostro pianeta. In verità questa indispensabile peluria le serve per opporsi alle perdite d’acqua: infatti è essenziale per la sua sopravvivenza mantenere l’umidità al suo interno, cosa che sarebbe assai difficile altrimenti, visto che cresce in luoghi aridi ed esposti alla furia del vento.

E’ originaria dell’Asia, nella fattispecie dei monti aridi delle sue regioni, infatti anche qui da noi cresce bene a certe altitudini, dove neppure gli alberi arrivano più a dare ombra al suolo.

E’ così bella e preziosa che l’Austria l’ha effigiata sulle sue monete da due centesimi di euro e qui da noi è una specie protetta, vietato raccoglierla.

A essa sono legate diverse leggende, una delle quali mi è stata raccontata da Nonna Desia:

«Ratin, avvicinati. Voglio raccontarti la storia della stella alpina che mi è stata raccontata in tempo di guerra da qualche soldato venuto da lontano» ha detto, e io sono stata ad ascoltarla più che volentieri.

«Un tempo c’era una montagna che soffriva di solitudine. Se n’era fatta una malattia e piangeva tutti i giorni in silenzio. Abeti, Faggi e Rododendri la guardavano afflitti e desolati, perché nessuno di loro sapeva come fare per risollevare il morale alla montagna triste. Chiesero alle Pervinche e alle Querce, ma anche loro si addoloravano per lei, impotenti. Tutte queste piante, infatti, avevano radici piantate al suolo e non era possibile per loro muoversi e accorrere in suo aiuto. Se la montagna avesse continuato così, nessun fiore sarebbe potuto sbocciare sui suoi bei pendii, nessun colore avrebbe allietato le giornate primaverili ed estive e le mucche e gli animali che vi pascolavano avrebbero avuto ben poco di cui nutrirsi.

Accadde però che nel cielo le stelle si accorsero del dolore della montagna. Una sera, le nuvole si dissiparono e una stella s’impietosì e decise di scendere sulla Terra per dare un’occhiata. Scese, scese e si avventurò per i sentieri della montagna triste, ne attraversò i crepacci, ne accarezzò le rocce nude con la sua luce e giunse sull’orlo di un burrone. Lì tirava un vento gelido che fece tremolare la stella, che s’impaurì: forse sarebbe morta di freddo, lontana dalla sua accogliente casa celeste, e si pentì di averla abbandonata per un luogo così inospitale. Proprio quando pensava di essere spacciata, la montagna le venne in aiuto. Era grata alla sua luce per esserle amica, e così la avvolse con le sue mani rocciose, creando intorno a lei una candida peluria lanosa. Infine, la strinse a sé per impedirle di cadere nel baratro, dandole radici tenaci con le quali aggrapparsi al terreno. Quando il sole fece capolino dalle creste dei monti vicini, il nuovo giorno salutò la prima Stella Alpina.»

«Che storia meravigliosa, Nonna Desia!»

«Hai visto, ratin? A volte ricordo ancora qualcosa di interessante!»

Un’altra storia racconta invece che un uomo, per dare prova alla sua amata della nobiltà dei suoi sentimenti, si avventurò nei luoghi più impervi delle montagne rischiando la sua stessa vita per cogliere una Stella Alpina da donare all’innamorata. Ecco allora che il fiore divenne simbolo anche dell’eroismo.

A essa si attribuivano poteri magici, tra cui quello di scacciare gli spiriti che attaccavano il bestiame provocando infezioni alle mammelle, se bruciata come un incenso.

Oggi la Stella Alpina è addirittura coltivata per abbellire giardini rocciosi, ne esiste persino una qualità che profuma di limone, ma a mio parere la sua resa migliore la offre lassù dove pochi osano arrivare, col volto baciato dal cielo e le radici aggrappate a una terra spesso inospitale.

In natura conta una trentina di specie e non è costituita da un unico fiore, ma da un’infiorescenza formata da diversi fiori di numero variabile raggruppati in più teste, dette capolini. Questi ultimi sono raccolti a loro volta in gruppi di foglie bianche, che poi sono quelle che erroneamente vengono considerate i petali del fiore; si chiamano brattee e sono disposte intorno ai capolini fioriti a formare proprio una stella.

Pare che questo fiore sia giunto fino alle nostre zone dall’Asia durante una delle ere glaciali che fecero rabbrividire il mondo in passato. Fiorisce da luglio a settembre, poi la sua luce si spegne e di lei restano le radici, pronte ad affrontare gli inverni rigidi della montagna. E, a proposito di questo, sembra delicata, ma in realtà il suo aspetto inganna, topi! Bisogna pensare, infatti, che questa piantina deve essere in grado di sopravvivere e resistere a condizioni assai avverse, come neve, ghiaccio, vento. E allora Madre Natura le ha fatto dei doni meravigliosi: alle sue radici ha regalato la capacità di resistere alle raffiche d’aria più forti, alle foglie ha offerto la virtù di regolare l’umidità interna della pianta in base alle condizioni esterne, e alle brattee ha concesso una struttura tale da proteggere la pianta dai raggi ultravioletti. Mica roba da ridere eh! La Natura, quando fa le cose, le fa in grande stile!

E allora mi viene da pensare che Madre Natura abbia donato proprio alla mia Valle l’onore di essere incoronata dalla Stella Alpina come a omaggiare le genti dei miei luoghi che, come lei, tanto hanno sofferto e patito le avversità del clima montano e che tenaci hanno resistito alle intemperie della vita e di un terreno difficile da coltivare.

Con questo io vi saluto topi! Vado a scovare un altro articolo per voi da far brillare in questo blog. Un bacio stellare a tutti.

La bazua spaventata ritira l’incantesimo

Oggi vi racconto un’altra storia, accaduta davvero, nella mia Valle, molto tempo fa.

Siamo nei dintorni di Casa Cuumbeia (Columbera) e ci troviamo nel piccolo paese di Agaggio.

Nonna Rosa aveva da poco partorito una splendida bambina sana, paffuta e rosa come una pesca, affettuosamente chiamata Netin, diminutivo di Anna.

Quella bimba era l’orgoglio di mamma e papà e riceveva sempre molti complimenti da tutti gli abitanti del posto perché aveva un visino bellissimo ed era anche quieta e serena.

Tra quelle persone però, viveva anche una vecchia, che trascorreva la sua vita isolata dalla comunità ed era conosciuta come una signora un po’ strana. Tutti la chiamavano “la bazua” e cioè “la strega”.

Un giorno, questa vecchia, bloccando il passo a Rosa, si avvicinò alla piccola neonata e, con fare malizioso, la accarezzò e le fece diversi complimenti. La Nonna rimase un po’ turbata da quell’incontro ma non ci fece caso più di tanto. Continuò a passeggiare con la sua piccola e poi rincasò.

Quella stessa sera la bimba iniziò a piangere senza nessun motivo e non ne voleva sapere di attaccarsi al seno materno per nutrirsi. Un comportamento che non era certo da lei, sempre allegra e tranquilla. Nonna Rosa iniziò a preoccuparsi un po’ e, quando giunse a casa suo marito, Nonno Augustin, gli raccontò dell’incontro con la vecchia bazua.

Il buon Augustin, dopo aver osservato la situazione e soprattutto quel comportamento anomalo della figlioletta, non ci pensò due volte. Guai a toccargli la famiglia.

Uscì per strada e si diresse immediatamente verso la dimora della strega. Un tempo nessuno chiudeva a chiave la porta di casa, anzi, la chiave veniva lasciata addirittura nella toppa e quindi, quell’uomo, risoluto e arrabbiato, poté piombare nella cucina della megera senza neanche chiedere il permesso. Convinto di avere tra le mani la colpevole del disagio di sua figlia, la prese per il collo e senza delicatezza alcuna le disse《Cos’hai fatto a mia figlia?!》 ma senza neanche aspettare risposta continuò《Vedi di porre subito rimedio altrimenti io…》

La donna, spaventata da tanto impeto, non gli lasciò neanche finire la frase e cercò subito di rassicurarlo dicendo 《 Torna pure a casa! Da questo momento la tua bambina sta bene! 》

Infatti, quando Nonno Augustin tornò a casa, la sua piccola stava bene. Aveva mangiato e ora dormiva serena sognando meraviglie.

Ancora una volta vi chiedo: coincidenze? Realtà? Suggestione? Superstizione?

Non si sa e non si saprà mai ma così andò.

Gli avvenimenti, oggi racconti, pieni di mistero, sono sempre esistiti nella mia Valle. Oggi non se ne sentono più. Come se non accadessero più ma c’è qualcosa ancora, come un velo sottile, che aleggia su questi luoghi e che non intende far dimenticare.

La magia, l’atmosfera, le circostanze di una Valle magnifica, resa ancora più ricca e suggestiva anche da chi, prima di noi, l’ha abitata.

Spero vi sia piaciuta questa storia e ringrazio la mia amica Vale per avermela raccontata.

Vi aspetto per il prossimo misterioso racconto di malocchio, fatture e rimedi che riguardano una cultura antica. A volte una medicina popolare, a volte tradizioni e usi, a volte, invece, il coraggio di chi, per difendere la propria famiglia, affronta anche le streghe. Ma che potere queste bazue!

Un bacio da brivido!