«Metuccu, come può essere possibile che in cielo ci siano davvero molte più stelle che granelli di sabbia sulla terra?» chiesi incredula al mio amico astronomo, Metuccuecuje, lo stercorario della Valle Argentina che vi avevo fatto conoscere qui.
«Perché il cielo è infinito, la terra no» mi rispose lui laconico come sempre e dando per scontato un pensiero che io, così piccola, quasi non riuscivo a sostenere.
Quel rebattabuse era pessimista, sfigato e triste, ma quando guardava la volta celeste, sua grande e vitale passione, diventava un malinconico poeta che incantava. Lo ascoltavo mentre dettagliava minuziosamente quell’oscurità autunnale.
«Ah! Splendida Betelgeuse…! Orione… i Gemelli, il Toro con Aldebaran… guarda, Prunocciola: le Pleiadi!»
Finalmente un po’ di luce in quegli occhi scuri. Era affascinato e mi traduceva ciò che l’universo attorno a noi stava mostrando in quel periodo dell’anno e a quell’ora della notte.
Continuò tornando al discorso precedente: «… dieci volte tanto!».
«Cosa?» gli domandai, non seguendolo.
«Uff… Se si considera che, grossolanamente, solo nella nostra galassia (la Via Lattea) ci sono all’incirca duecento miliardi di stelle e che, in base ai “deboli” calcoli umani, di galassie nell’universo potrebbero essercene intorno ai cinquecento miliardi… ti basta fare due conti e poi moltiplicare il tutto all’infinito tenendo conto che l’essere umano crede, ma difficilmente è come crede lui… te’ pà (ti pare)…»
Sì, ehm… Metuccu aveva un’idea tutta sua sull’uomo che rare volte apprezzava.
In effetti, atmosfera permettendo, solo nel piccolo spicchio della mia Valle, a volte, potevo notare un’infinità di puntini luminosi da far sgranare gli occhi! Dove l’inquinamento luminoso non infastidisce e non impedisce tali visioni, il cielo notturno della Valle Argentina è davvero splendido.
«Oh! Sirio!» continuava lui, rapito.
«Si vedono solo stelle?» domandai.
Mi rispose prontamente, ma senza fare un lungo elenco: «No… ti nu capisci ren (non capisci niente) puoi vedere anche il pianeta Venere in questo periodo, ma non a quest’ora e anche Mercurio, più difficoltoso da ammirare».
Parlava come a recitare una cantilena e la sua voce mi incantava.
Ogni tanto abbassavo gli occhi a terra e guardavo, nonostante il buio, quella sabbia sulla quale poggiavano le mie zampe. “Come siamo piccoli” dicevo tra me e me con parecchi punti interrogativi nella testa. Una mia sola zampetta, grande poco più di un fiammifero, ricopriva a occhio e croce quasi cento minuscoli granellini… e non oso pensare ad una spiaggia! No, non riuscivo proprio a stare dietro tutta quella immensità e mi sentivo sempre più piccola.
Come a leggermi nel pensiero, il mio amico si lasciò scappare una delle sue tante frasi “felici”: «Nu sulu i ommi, mancu i ratti i g’arivan (non solo gli uomini, nemmeno i topi ci arrivano)», come se anch’io, come gli umani, fossi stata colpevole di non riuscire a immaginare tanta grandiosità. Cercai di migliorare la mia situazione ai suoi occhi:
«Oh! Metuccu! E’ tutto così bello che sembra un sogno! Cioè… so che è vero ma…»
«E meno male che sogni, Topina! Altrimenti invecchieresti immediatamente fino a morire nel giro di poco tempo. Sogna, continua a sognare…»
«Ehm… certo Metuccuecuje, certo! Lo farò!» gli dissi facendo le corna con una zampa dietro la schiena.
«Beh, ora vado, ho da lavorare»
«Ma… a quest’ora della notte?» gli chiesi.
«Eh! A sun sempre ca travaju ti nu-u vei? Uff… (Eh! Sono sempre che lavoro non lo vedi?)»
Lo salutai senza discutere oltre e a voi, invece, mando un bacio piccolissimo come un granello di sabbia ma splendente quanto una stella!
Grazie a Massimo Splendori, astrofilo, per la concessione di due sue immagini.