La Topina e le streghe della Valle Argentina in un progetto universitario

Oh topi, ma guardate che me ne succedono davvero delle belle! L’ultima proprio qualche giorno fa, in cui in una mail, una giovane studentessa ligure ha voluto intervistarmi (un’intervista a me… a me! Ma che bello!) per un progetto universitario che coinvolgerà anche la Sicilia e la Sardegna.

Tale progetto si occupa di indagare le figure femminili del nostro passato e, di conseguenza, anche le leggende e le superstizioni nate nel tempo. Io sono stata ben felice di dare il mio contributo e quindi vi lascio qui di seguito l’intervista per intero, così che possiate goderne anche voi. Ringrazio ancora Nicoletta e le sue colleghe di corso per avermi coinvolta!

  1. Conosci qualche leggenda che abbia come protagonista una strega?

Ci sono molte storie e leggende legate alle streghe nella zona in cui abito, molte delle quali sono realmente accadute. Alcune sfumano nella superstizione e nelle credenze popolari, ma l’entroterra della Liguria di Ponente pullula di questo genere di racconti. Da me, a seconda delle zone, le streghe sono chiamate “bàzue” “bagiue” o “bàzure”, e nel cuore delle Alpi Liguri, in Valle Argentina, vantiamo la presenza di quella che è definita “la Salem d’Italia”: Triora. Il borgo è famoso per essere stato protagonista di processi alle streghe da parte dell’Inquisizione, che qui fu particolarmente severa. Una storia molto sentita e ricordata è quella di Franchetta Borelli, che fu torturata e resistette a diverse ore di cavalletto, nonostante la sua età avanzata. Famosa è rimasta la sua frase: “Stringerò i denti e diranno che rido”, tramandata e documentata fino ai giorni nostri. Franchetta sopravvisse alle torture e al giogo dell’Inquisizione, fu rilasciata, ma il suo corpo restò segnato nel profondo, portandone le conseguenze per gli anni che le restarono da vivere. Il suo caso è emblematico perché apparteneva alla nobiltà, e questo suscitò non poco scalpore nel borgo e in tutta la Repubblica di Genova, alla quale Triora apparteneva. Altra storia legata alle streghe di Triora è quella delle sorelle Isotta e Battistina Stella, entrambe processate. Di Isotta sappiamo che non resse alle torture e morì. Un’altra donna torturata uscì di senno e si gettò dalla finestra di Palazzo Stella, nella Piazza della Collegiata (quella centrale al borgo, che reca lo stemma della città, il Cerbero). La leggenda  dice che il corpo della donna non fu mai ritrovato. C’è poi la storia di un’altra figura femminile triorese, tale Magdalena, di cui si sa poco, ma ai tempi del processo alle streghe di Triora era una ragazzina in età adolescenziale. In molti dicono che fu istruita alle arti magiche da sua madre, strega esperta e di alto livello, anche lei imprigionata e torturata come la figlia. In alcuni scritti compare l’accusa a una donna, interrogata e torturata perché si diceva che stesse imparando l’alchimia da un giovane medico del posto. Si dice che i fantasmi di queste streghe che furono accusate, torturate e che morirono durante il processo si riuniscano ancora oggi nei luoghi che le hanno viste protagoniste. Per quanto riguarda le streghe più in generale, ancora oggi, in certe zone, gli anziani credono che avere i capelli rossi per una donna sia segno di stregoneria. Anche il manto delle mucche, dalle mie parti, non poteva avere sfumature rossicce, tant’è che la razza bovina che produce i formaggi delle mie zone ha il pelo bianchissimo, tanto era radicata questa superstizione. Fino al secolo scorso si credeva che le bàzue potessero maledire il bestiame e tormentare i neonati con il loro malocchio. Ci sono diversi racconti popolari al riguardo, ogni famiglia ha il proprio che si tramanda da generazioni. Ci sono poi anche le storie e le dicerie legate ai luoghi, come Lago Degnu (nel territorio di Molini di Triora), una polla d’acqua profonda contornata da fitti boschi, un tempo impenetrabili, che si credeva fosse luogo prediletto per il Sabba che le bàzue facevano con il Demonio in persona. Ci sono poi il Lavatoio del Noce e la Fontana di Campomavue a Triora, dove le streghe lanciavano il malocchio e dove si racconta che una bàzua in particolare diede un saggio consiglio al capostipite di una famiglia che sarebbe diventata tra le più facoltose del paese, proprio grazie al buon consiglio della donna. Altro luogo legato alle streghe trioresi è la Cabotina, antico forte di cui oggi restano i ruderi, situata ai margini più poveri del borgo. Qui si dice si riunissero le streghe per i loro malefici.

  1. Sai se esistono altre versioni?

La storia di Franchetta è reale e documentata, ma sono sorte leggende che la vedono come protagonista, sussurrate un po’ a mezza voce, come a voler favoleggiare su un personaggio che è divenuto simbolo di una lotta importante. C’è chi dice che sia vissuta a lungo dopo le torture, forse proprio grazie alle sue conoscenze della magia; alcuni ipotizzano si sia trasferita altrove, in un borgo non lontano, e che qui abbia fondato una stirpe di donne sapienti e conoscitrici della stregoneria. Lo stesso si dice delle altre donne che furono incarcerate e torturate insieme a lei, di alcune si racconta siano morte al rogo, anche se pare non ci sia testimonianza di alcun rogo di streghe in Valle Argentina. Di tutte le accusate non vi è più traccia negli archivi, ad oggi ancora non abbiamo certezze riguardo l’epilogo del processo, e questo ha permesso a molti di fantasticare sull’accaduto. Esistono anche tante versioni delle superstizioni legate al malocchio perpetrato ai danni di bambini e del bestiame, ognuno ha la propria. Ci sono storie di neonati che non smettevano di piangere per via di un maleficio e che ritrovavano la calma solo dopo che la strega, smascherata, veniva intimata di smettere o dopo l’azione di una contro-fattura da parte di qualche altra buona donna conoscitrice di rimedi magici. Ci sono anche storie riguardanti le pecore che, per via di una fattura ricevuta, non producevano più latte, o scappavano senza motivo, irrequiete.  Non conosco tutte le versioni che sono state raccontate sulle storie che riguardano le streghe, ma di sicuro ne esistono di diverse.

  1. Come l’hai conosciuta? Te l’ha raccontata qualcuno?

La storia di Franchetta, di Isotta e Magdalena è famosa e l’ho conosciuta al Museo Etnografico e della Stregoneria di Triora. Da lì mi sono poi documentata su alcuni testi. Le leggende e le storie legate al bestiame e ai luoghi le ho conosciute leggendo dei libri sulla stregoneria locale e grazie ai racconti orali della nonna di una cara amica.

  1. Se ti è stata raccontata, ti è stata raccontata in lingua italiana o in dialetto?

A me in italiano, ma la nonna della mia amica le raccontava in dialetto.

  1. E tu l’hai raccontata a qualcuno o la racconteresti a qualcuno? Se sì, in italiano o in dialetto?

Io racconto tutto quello che posso per non spezzare quel filo magico che ci lega al passato. Le racconto in italiano perché tra chi mi segue non tutti sanno parlare o comprendono il dialetto. Tramando queste storie in particolar modo sul mio blog, cosicché siano fruibili dal maggior numero di persone, ma mi è capitato anche di leggerle ad alta voce davanti a diversi ascoltatori.

  1. Credi che ci sia un fondo di verità in questa leggenda?

Quella di Franchetta, delle sorelle Stella e di Magdalena, come già detto, sono storie vere, documentate da testi originali consultabili. Per quanto riguarda invece le altre leggende, credo fosse solo la paura della gente dell’epoca ad alimentare certe storie, un po’ anche per invidia. È vero, però, che le donne d’un tempo si tramandavano la conoscenza delle erbe e delle energie naturali; erano guaritrici e levatrici, e si sa che la loro posizione fosse molto pericolosa. Non era difficile che qualche loro paziente o che la puerpera morissero, e a quel punto diventava semplice pensare subito a malefici e fatture. Non credo nella superstizione. Credo piuttosto nel fatto che ognuno sia artefice del proprio destino e che l’uomo sia in grado, con il proprio pensiero e le proprie emozioni, di creare la propria realtà. Le presunte conseguenze del malocchio, quindi, così come delle fatture, sono per me provocate dalla convinzione degli effetti negativi e del male che si poteva ricevere da altri. In sostanza, ognuno si attirava ciò su cui poneva di più la propria attenzione. Per quanto riguarda le storie e le dicerie legate ai luoghi, in particolar modo quelli con una forte presenza dell’acqua (come Lago Degno, lavatoi e fontane), moltissimo tempo fa nelle mie zone era praticato il culto delle fonti e delle acque, che si credevano presiedute da divinità femminili benevole. Credo che le donne accusate di stregoneria in epoca medievale praticassero culti più antichi, o che semplicemente mantenessero vive le conoscenze legate a tempi remoti di cui s’era già persa la traccia. Difficile risalire alla verità, ma credo che un fondo di realtà ci sia in queste storie, anche se il significato è stato travisato dal cristianesimo e dalla paura della gente dell’epoca.

  1. Per quanto riguarda le fate, invece, conosci qualche leggenda che abbia come protagonista una fata?

Nelle zone in cui vivo si parla poco di fate, ed è un argomento di cui io stessa vorrei sapere di più. La Liguria, infatti, è più famosa per le sue storie di streghe e fantasmi, che non per altri abitanti soprannaturali. Tutto quello che so è che alcuni luoghi sono legati a queste figure, come il Bosco di Rezzo, nel territorio di Imperia, che viene spesso soprannominato Bosco delle Fate. C’è uno scoglio misterioso tra i comuni di Badalucco e Montalto-Carpasio, ancora una volta intitolato alle fate, ma il motivo di tale appellativo si è perso nel tempo. Alcuni storici non ufficiali affermano che un tempo la Valle Argentina fosse soprannominata la Valle delle Fate, ma non si sa da dove e da cosa derivi tale appellativo. So che la Liguria ha in comune con la Sardegna una figura femminile che sosta sulle rive dei torrenti, lavando panni insanguinati. In Sardegna le chiamano Panas e sono donne morte di parto, qui da noi, invece, sono simili alle Banshee irlandesi e sono descritte come fate piangenti e addolorate che fingono di provare strazio per attirare gli ignari uomini di passaggio, al fine di farli impazzire e annegare per poi nutrirsi della loro energia vitale. C’è poi un’altra leggenda legata alle fate che abitano le grotte. Anche questa caratteristica le accomuna alla “vicina” Sardegna, che ha le Janas, ma le nostre fate delle grotte sono ancora una volta di natura malevola. Pare si pettinino di continuo e che non possano perdere il loro magico strumento, pena la perdita della strada di casa. Non aiutano volentieri gli uomini, tutt’altro, ma se questi ultimi aiutano loro, sono disposte ad elargire doni e consigli.

  1. Sai se esistono altre versioni?

Purtroppo no, conosco solo quelle che ho raccontato.

  1. Come l’hai conosciuta? Te l’ha raccontata qualcuno?

Ho conosciuto queste storie sui libri e tramite racconti lasciati sul web da conterranei.

  1. Se ti è stata raccontata, ti è stata raccontata in lingua italiana o in dialetto?

In italiano.

  1. E tu l’hai raccontata a qualcuno o la racconteresti a qualcuno? Se sì, in italiano o in dialetto?

Anche qui, vale la stessa risposta che ho dato alla domanda n. 5.

  1. Credi che ci sia un fondo di verità in questa leggenda?

Anche in questo caso, mi trovo a ipotizzare che il fondo di verità legato a queste storie sia sempre l’antico culto legato a divinità femminili che era particolarmente sentito nelle zone più interne delle valli dell’imperiese. Ci sono molte grotte sulle alture della Valle Argentina, così come anche nella vicina Val Roya. In tali grotte sono stati trovati reperti archeologici importanti che testimoniano il culto dei defunti e della Madre Terra da parte degli uomini primitivi che abitarono queste zone. La grotta era principalmente luogo di sepoltura, sono stati trovati scheletri in posizione fetale, il che fa pensare all’intento di far tornare i cari estinti nel ventre, nel grembo materno della Terra. Tale culto sopravvisse a lungo, insieme a quello delle fonti di cui parlavo poco fa, e, per sradicarlo, il cristianesimo inventò storie di demoni, streghe e fate malvagie, affinché la gente temesse ciò in cui aveva fermamente creduto fino a poco tempo prima.

  1. Credi di essere superstiziosa? Credi che nel tuo paese/città/regione ci sia una forte superstiziosità?

Io non lo sono, ma nella mia zona c’è ancora chi crede alle antiche dicerie e pratica scongiuri, soprattutto nei paesi.

  1. Credi che la superstizione possa giustificare la nascita delle leggende?

Di alcune sì, quasi sicuramente. Prendendo, ad esempio, la storia delle fate lavandaie, immaginiamo che essa sia nata in epoca cristiana, quando la chiesa cercò di estirpare il culto delle acque – e quindi di divinità femminili – che si praticava con convinzione in Valle Argentina. A questo punto, per via del nuovo culto imposto, iniziarono a circolare superstizioni – e quindi leggende – riguardo certi luoghi. Per esempio, dalle mie parti si diceva che le fonti fossero presiedute da draghi (lo testimonia il toponimo della Fonte Dragurina sul Monte Toraggio), e il drago per il cristianesimo era un altro aspetto del demonio e del male. Questa mia tesi la deduco anche dal fatto che in queste zone l’evangelizzazione fu molto capillare, e si può notare dalla grandissima quantità di santuari, chiesette e cappelle sparse in tutti gli anfratti della vallata. E, guarda caso, sorgono quasi tutti vicino a delle fonti e sono dedicati quasi tutti alla Madonna o a sante. Senza contare che a Triora è stato chiamato addirittura un pittore illustre ad affrescare i muri di una chiesetta di montagna, quella di San Bernardino (i dipinti sono attribuiti al Canavesio, anche se non sono firmati), lo stesso che affrescò la vicina Notre Dame Des Fontaines a La Brigue che le è valso il soprannome di “Sistina delle Alpi”. Perché scomodare così tante forze ed energie per una valle piccola e sperduta, mi vien da pensare? Doveva esserci un motivo ben preciso, e secondo me non si discosta tanto dal voler distogliere l’attenzione del popolo dal culto delle antiche divinità femminili, legate all’acqua, alla terra e alla fertilità.

  1. Credi che le leggende si stiano estinguendo?

Credo che l’essere umano abbia un atavico bisogno di raccontare storie e di tramandarle. Purtroppo, però, mi trovo a dover dire che c’è una certa chiusura in questo. Sono in molti a non voler raccontare, vuoi per paura, per superstizione o semplicemente per una scarsa propensione personale, e trovo sia un peccato, perché molto del patrimonio orale va perdendosi. La nota positiva, però, è che sono in molti a volerlo riscoprire, a ricercarlo e a raccoglierlo.

Allora, topi? Che ve ne pare? Io sono proprio contenta di aver avuto questa opportunità. Un grazie a Nicoletta e un bacio a voi!

 

Manteniamo vivi i proverbi e il nostro dialetto

Come vi ho scritto altre volte, amo mantenere vivo il dialetto che si parla nella mia Valle e, ancora una volta, lo voglio fare citandovi dei proverbi, uno per ogni lettera dell’alfabeto, al fine di farvi conoscere anche una parte delle nostre tradizioni che, vedrete, possono essere persino molto divertenti. Siete pronti? E allora partiamo!

1- A chi u vö fà u passu ciü longu da-a gamba i ghe se strapa e braghe in tu cü.

1- A chi vuol fare il passo più lungo della gamba gli si strappano i pantaloni nel sedere.

2- Bö veju, sorcu driitu

2- Bue vecchio, solco dritto

3- Chi se mete fra maiu e mujé u se sciaca e die

3- Chi si mette tra marito e moglie si schiaccia le dita

4- De setembre se deve mangià chellu cu pende

4- Di settembre si deve mangiare quello che pende

5- E buscaje e se sumeia au zeppu

5- I trucioli assomigliano al ceppo

6- Fiöi e cai i van dunde i vegne acaezai

6- Bambini e cani vanno dove vengono accarezzati

7- Gundui e funzi i nasce senza semenali

7– Sciocchi e i funghi nascono senza seminarli

8- I gati veji i ciapan i ratti da curgai

8- I gatti vecchi acchiappano i topi da sdraiati

9- L’amù u fa pasà u tempu e u tempu u fa pasà l’amù

9- L’amore fa passare il tempo e il tempo fa passare l’amore

10- Meju vegnì russi d’imbarassu che negri da-a famme

10- Meglio venire rossi dalla vergogna che neri dalla fame

11- Nivure faite a pan, su nu ciöve ancöi u ciöve duman

11- Nuvole fatte a pane, se non piove oggi piove domani

12- Ögni muntà a là a so carà

12- Ogni salita ha la sua discesa

13- Pe ninte mancu u can u locia a cua

13- Per niente neanche il cane muove la coda

14- Russu de matin aigua in sciu u camin

14- Rosso al mattino acqua sul cammino

15- Se a tüte e prie a ghe descimu in causu a nu ariveemmu ciü a cà

15- Se a tutte le pietre dessimo un calcio non arriveremmo più a casa

16- Tra fà e disfà u l’è sempre in travajà

16- Tra fare e disfare è sempre un lavorare

17- U nu cunven fasse brüxa i öji da e zevule dei autri

17- Non conviene farsi bruciare gli occhi dalle cipolle degli altri

18- Va ciu ün cu sa che sentu chi sercan

18- Va più uno che sa che cento che cercano

19- Zueni chi cunuscen e legi da natüa i fan travajà i veji da-a pelle düa

19- I giovani che conoscono le leggi della natura fanno lavorare i vecchi che hanno la pelle dura

Adesso ditemi, li avevate già sentiti? Ne fate spesso uso? Questa è saggezza popolare antica e trovo carino tenerla viva.

Io vi abbraccio e vi aspetto per il prossimo articolo.

Gli “Scuralame”

Cari topi, quest’oggi voglio parlarvi di un termine. Un termine tutto nostro e che fa sorridere. Oggi, infatti, vi illuminerò su una parola dialettale che è anche simpatica. La parola in questione è Scuralame.

Vedo già i vostri musi perplessi, ma sono qui proprio per raccontarvi il suo significato.

Avete presente le persone un po’ tirchie? Quelle che difficilmente tirano fuori soldi per pagare un “giro di bevute” agli amici? Direi che ci sono un po’ dappertutto, mica solo nella mia Valle. Ebbene, queste persone, in ligure, vengono chiamate proprio Scuralame.

Questo nomignolo nacque molto tempo fa, fu coniato dai pescatori che lavoravano notte e giorno nel mio mare. La mia, infatti, è una terra baciata dal Mar Ligure e la pesca era –  e è – una delle sue principali attività.

Quando il pescatore buttava giù l’amo con il vermetto appeso, non sempre tirava su il pesce che si aspettava di poter condividere con tutta la famiglia. Accadeva, infatti, che spesso, quando tirava su la lenza, l’amo usciva fuori dall’acqua bello pulito e il pescatore rimaneva con solo due mosche in mano. I pesci sono molto furbi, si sa, e può capitare che un pesce riesca a cibarsi dell’esca senza farsi acciuffare, ma sovente capitava che un piccolo branco di pestiferi mascalzoni, grazie alla loro bocca piccina, rosicchiava ben bene il verme e puliva l’amo alla perfezione. Nessuno rimaneva agganciato, e meno male per loro, direi, anche se il pescatore era un po’ meno contento.

E chi erano questi pescetti così arditi e approfittatori? Erano gli avannotti, cioè i cuccioli di pesce (scusatemi se questa volta non posso postare foto mie, ma non sono un sub). Sono così piccoli e hanno la bocca tanto minuscola da riuscire a far arrabbiare chi attendeva per ore e ore di portarsi a casa la cena.

Gli avannotti di Spigola, o di Sarago, o di molte altre specie di ittiofauna di tutto il Mediterraneo, quando sono piccoli, sono anche scuri e sottili, ma possono riflettere bagliori grazie al loro colore grigio metallico. Da qui il nome Scura-lame, come a voler intendere che ci siano “lame scure” nell’acqua.

Mangiavano a sbafo, proprio come mangia o beve chi, ancora oggi, si ritrova a fare nelle osterie quando sono gli altri a pagare. E’ un termine molto usato dagli anziani che frequentano il loro bar preferito, ogni giorno, prima di rincasare.

Lo conoscevate già? E’ simpatico vero?

Ora vi saluto, vi aspetto al prossimo termine ligure! Squit!

Photo edenaquarium.blogspot.com

L’Estate – il tempo dei frutti

Se la Primavera è il tempo dei fiori, l’Estate è quello dei frutti e, fortunatamente, nella mia Valle Argentina, le stagioni si distinguono ancora molto, offrendo ognuna le proprie meraviglie.

Il verde è il colore regnante, un verde acceso che ammalia e anche i doni di Madre Terra sono verdi, per il momento… o almeno quasi tutti.

Oggi vi porto a vederne qualcuno, sono bellissimi e golosissimi. Naturalmente, nella mia Valle si trovano ovunque, perché quelli autoctoni nascono selvatici nei boschi e nei sentieri.

Per conoscerli meglio andrò a trovare Maga Gemma, lei sa tutti i loro segreti e sono sicura che mi racconterà molte cose su questi straordinari regali della natura dei quali io sono ghiotta.

Inizio già a vedere alcune piantine che conosco, sento qualche dolce profumo e vedo le loro tinte sgargianti, che meraviglia! E’ tutto offerto dal pianeta… mi sento grata e ricca! Qui c’è da mangiare per mesi e mesi!

«Pigmy, cara!» esclama una bellissima voce femminile dietro di me. «E’ possibile che pensi sempre a mangiare?!» la maga mi sorride.

«Maga Gemma! Ma come hai fatto a capire che…»

«Oh! Pigmy, suvvia… sono una Maga…» sorride ancora.

Io sono sbalordita da tanta bellezza che mi circonda. Attorno alla casa di Maga Gemma, una stupenda dimora in mezzo al bosco, c’è qualsiasi ben di Dio e, curiosa come sono, inizio subito a gironzolare e a infilare il muso ovunque, rapita da tanto splendore.

«Quelli sono Piselli Pigmy. Tra pochissimo si potranno mangiare.»

Ma che meraviglia! Sono buffi e molto carini, delle piccole palline con le quali si possono realizzare minestroni, contorni, insalate, creme, zuppe…! Mi volto di scatto attirata da altre biglie. Questa volta sono colorate di un rosso fuoco e sono appese a un albero: «Le Amarene!» urlo raggiante.

«Esatto! Più aspre delle Ciliegie ma anch’esse ricche di proprietà.» mi rivela la Maga.

«Davvero?» sono una grande conoscitrice di piante e fiori, ma vorrei che Gemma mi dicesse qualcosa di suo. «Racconta!» la esorto.

«Beh…contengono melanina e quercetina, la stessa sostanza che trovi nelle Cipolle. pensa. Quindi sono antitumorali, ma rilassano e fanno dormire sereni. Ottime contro lo stress. Tu non ne soffri, ma i tuoi amici umani sì!». Ecco, questa cosa non la sapevo.

«Nel dialetto della Valle si chiamano “Agriotti”», dico. «Alcuni frutti assumono nomi davvero strambi. Le Fragole sono “Merelli” e le Albicocche “Miscimì”. Bah!» ridiamo entrambe e continuiamo la nostra gita tra erbe e alberi.

Ecco, una delle poche piante senza fiori e senza frutti, poiché sono invernali. E’ il Kiwi e, per ora, offre una gradevole ombra proprio davanti alla casa di Maga Gemma grazie alle sue foglie larghe e tonde. Il Melo, invece, ha già fatto nascere piccole melette ancora verdi. Saranno aspre anche quando saranno mature, ma succose e buonissime perché contengono un’acidità molto piacevole. Fanno proprio bene, tra l’altro! Queste sono le vere Mele che tolgono il medico di torno, se mangiate ogni giorno!

«Seguimi Pigmy, voglio farti vedere uno spettacolo» mi invita la Maga e, fiduciosa, mi avvio dietro di lei. Mi fa chiudere gli occhi, mi fa fare qualche passo e, quando spalanco il mio sguardo rimango allibita! Neanche qui i frutti ci sono ancora, ma quello che vedo è il loro preludio! Gli Ulivi, alberi quasi sacri per noi liguri, sono completamente bianchi perché ricolmi di minuscoli fiorellini che tra qualche mese saranno Olive, le migliori al mondo: la speciale Oliva Taggiasca. Sono un trionfo di candore, sembrano pieni di lana, di neve! Qui da noi si dice “con la panna”! Appena si sfiorano con le zampe, cadono lievi a terra, perciò è bene non toccarli troppo! Un affascinante manto bianco che incanta.

«E questa invece sai cos’è?» mi dice quella splendida donna. Riconosco il frutto, non sono mica nata ieri, in fondo: «L’Uva Spina!».

«Bravissima! Per chi soffre di problemi all’intestino, questa è un vero toccasana!»

«Oh, sì!» replico. «So che contiene anche tantissima Vitamina A e tantissima Vitamina C,ed è anche molto dolce.»

«Esatto. Ancora poco tempo e sarà pronta anche lei. Questa, come vedi, è la varietà bianca, ma c’è anche quella rossa o violacea.»

«Che splendore!» Ammiro tutto estasiata.

Non posso credere di essere circondata da tanta ricchezza. Neanche a dirlo mi sono fatta una bella scorpacciata di parecchie cose mentre quelle che devono ancora maturare sanno che dovranno attendermi, perché tra qualche giorno verrò ovviamente ad assaggiarle.

Saluto Maga Gemma, la ringrazio e me ne torno alla tana con un bel cestino pieno di tante prelibatezze e, nelle narici, il dolcissimo profumo dei Tigli che mi ha riempito i polmoni. Qualche Zucchino, due Albicocche, un po’ di Pomodori… posso sfamare un reggimento. Ora devo lavare tutto, cucinarlo e farmi un po’ di provviste, quindi vi saluto e vi aspetto per il prossimo tour nel bosco dove andremo a mangiucchiare altre squisitezze, tutte naturali.

A presto Topi! Preparate le dispense!

Poco più in là: Viozene

AndiamoSONY DSC a Viozene oggi topini. In terra brigasca e, in terra brigasca, è chiamato Viusena, con la S che sibila come una Z leggera. Andiamo ai confini della mia Valle.

Viozene, il paese delle casette che sono baite, lavorate con il legno. Par di essere nel Tirolo. SONY DSCCon le ante delle finestrelle e le ringhiere dei balconi che fanno a gara per sentirsi dire chi è la più bella! Vere lavorazioni impegnative, vere opere d’arte.

Viozene, nel Comune di Ormea, nell’Alta Valle Tanaro, esattamente tra le provincie di Cuneo e di Imperia. Un borgo cullato e protetto dalle Alpi Marittime, tra le quali, spicca sopra di tutte, il Monte Mongioie alto ben 2.630 mt e situato ad Est della Punta del Marguareis. Un imponente dente di pietra che sovrasta l’intero villaggio e regna protagonista.SONY DSC E’ in terre come: Viozene, come Upega, come Carnino, che si parla quel dialetto occitano, particolare, di cui spesso vi ho raccontato. Quella lingua mista di francese che sta andando via via perdendosi. La lingua d’òc, la lingua provenzale, la lingua minoritaria dell’Italia Nord-Occidentale. E Viozene ne è uno degli scrigni più grandi e fervidi.

A 1240 mt circa, sul livello del mare, offre un’aria e uSONY DSCn’acqua superate da poche in fatto di purezza; fredde, limpide, pungenti. E’ la meta preferita delle persone anziane che vogliono stare al fresco in estate, e dei bambini che devono rinforzare i loro bronchi e respirareSONY DSC la buona aria di neve per combattere bronchiti e pertossi in inverno.

E perchè no, è la meta della pace e della quiete per le giovani coppie che vogliono tranquillità e, allo stesso tempo, conoscere e scoprire una natura mozzafiato; particolare, tipica di questo entroterra, a volte aspra, acerba, egoista, a volte più generosa.

E’ qui che si possono svolgere mille attività, dall’alpinismo alla mountain bike, dal rafting al trekking.

E’ la terra delle Madonnine a bordo strada, dentro a cappelle create a mano dai pellegrini fedeli. E’ una terra tipicamente simile alla mia.

Ad arricchirne i confini, vere a proprie meraviglie al di là dei sentieri che portano al Mongioie. Il Canyon chiamato “Passo delle Fascette”, di cui già vi avevo parlato, e tutte le falesie che lo circondano. Il Parco Naturale dell’Alta Valle Pesio e Tanaro, nel quale gongola. I suoi ricchi patrimoni: faunistico SONY DSC– rappresentato da cervi, camosci, caprioli, aquile, galli forcelli ad esempio, e quello floreale – interpretato da abeti bianchi, larici, faggi, borsa del pastore, una bellissima erba di campo.

Sono pochi i suoi abitantiSONY DSC residenti, appena 43. Lui si popola solo in determinati periodi dell’anno, divenendo, come dicevo prima, un vero e proprio rifugio per molti.

Ed è la terra del muschio, delle mele e dei monti che, all’imbrunire, si stagliano contro il cielo color degli abissi. E’ un paese fresco dove ti può capitare di sentire cori che intonano vecchie canzoni o partecipare a “I racconti intorno al fuoco“, dove giovani signorine narrano, spesso accompagnate da un soaveSONY DSC strumento musicale, fiabe che raccontano di quei posti magici e misteriosi della terra brigasca, adatte a grandi e piccini.

E’ il paese dei cortili recitanti davanti a casa, giardini morbidi di prato, i ciottoli per terra, il piccolo campo da petanque che mai può mancare e l’edera che si arrampica indisturbata sulle pareti esterne delle dimore. Il paese delle tegole rosse, degli insetti che svolazzano indisturbati, delle ciappe e dei sentieri. E del bosco. Il magnifico bosco tutt’intorno che finisce all’improvviso. E dei piccoli SONY DSCfiorellini gialli di genepy, dalle foglie verde chiaro, verde velluto.

Il genepy è un tipico liquore che viene fatto in questa terra e prende il nome dalla pianta dalla quale si ricava e che riesce a nascere anche in zone davvero impervie, dal sapore buonissimo e inconfondibile, attraverso il quale, si può percepire tutto il gusto dell’alta montagna.

Qui regnano felici e sazi e anche indisturbati mucche, capre, pecore, cervi e addirittura scoiattoli. E’ un piacere passeggiare per il paese e fare il loro incontro. Sono così carini! E così coraggiosi. Si avvicinano impavidi. E’ giusto.SONY DSC Ogni animale dovrebbe essere sereno nell’avvicinarsi all’uomo e, qui, accade. Spesso, al giungere della sera, è facile imbattersi nella nebbia, in quella ovattata atmosfera che cala piano, nonostante ci sia stata una tersa giornata di sole. Siamo davvero alti e le nubi è come se scendessero per dar la buonanotteSONY DSC alle montagne con un bacio poi… vanno di nuovo via e mostrano un cielo nero dai mille puntini dorati, luccicanti e brillanti. Un cielo splendido come raramente ne ho visto. Nessun tipo di inquinamento luminoso, più nessuna foschia, solo stelle, tante stelle, una miriade di stelleSONY DSC.

Le casette in pietra tornano ad essere limpide, visibili, illuminate da fiochi lampioni giallognoli intorno ai quali svolazzano grandissime falene. Loro hanno una lingua arricciata e lunghissima. Non intendono allontanarsi dalla luce ma nemmeno dal succoso nettare dei lilium. Che buffe! Non stanno ferme un solo secondo. Riuscire a fotografarle è un’ardua impresa davvero. Tramano frenetiche. Stanno sospese in aria come dei colibrì. Per stare qui a guardarle mi devo mettere il golfino.

Alla sera, anche in pieno agosto, non si può stare solo in maniche corte e le vecchineSONY DSC si mettono lo scialle sulle spalle oltre al golf pesante di cotone. Le vecchine che cuciono tutte insieme nel giardinoSONY DSC di una di loro.

 

 

 

I cani sono tutti liberi. ognuno ha un padrone e, alla sera, se ne tornano nella loro cuccia ma di giorno è bello gironzolare e nessuno può impedirglielo. Si conoscono e sono tutti amici.

Il problema giunge quando andate voi, con il vostro cane, legato educatamente al guinzaglio e tutti gli si avventano contro… poco ospitali devo dire. Oh mamma!

Le persone invece sono simpatiche e alla buona. Si trovano senzaSONY DSC difficoltà gentilezza e cordialità e tanta voglia di divertirsi. Si organizzano anche lotterie e mercatini pur di giungere allo spasso. E il paese è in festa!

Per non parlare dell’ottimo cibo! La cucina casalinga è di casa ed è un vero piacere per i nostri palati: sardenaira, coniglio alla ligure, frittata di erbette, fiori ripieni, insomma, da leccarsi i baffi. Dovreste provare. SONY DSCAllora topi, che ne dite? Vi è piaciuto questo posto? Bene, ne sono contenta. E’ meraviglioso, potete credermi. E’ l’ideale per un soggiorno in cui si vuole solamente ritemprarsi un po’ e non si chiede nulla di meglio, nulla di più.

Io vi mando un bacione per ora ma vi aspetto per la prossima mini-vacanza! Un grande squit a tutti voi!

M.

La nostra Divina Commedia

Topi, scommetto che tutti voi avete studiato la Divina Commedia. Ebbene, ve lo ricordate il V canto? Esso si svolge nel Secondo Cerchio, dove sono puniti tutti i lussuriosi. Siamo, si presume secondo gli studi, nella notte tra l’8 e il 9 aprile del 1300. Questa traduzione di Federico Gazzo, riporta, in un antichissimo dialetto ligure, proprio un pezzo della Commedia di Dante Alighieri.

Qui, il titolo della sua opera in questo sito http://www.francobampi.it/zeneise/lengua/proposte/gazzo.htm in cui viene spiegato come si legge, come si scrive e come si pronuncia.

Padre Angelico Federico Gazzo
La «Divina Commedia» tradotta in genovese
Genova, 1909

DANTE ALIGHIERI

Divina Commedia – INFERNO:  Canto V

nella traduzione di Federico Gazzo (1845-1926):

 Dòppo d’avey da o mæ Dottô sentïo

nominâ i cavaggëi cu’e damme antighe

da’ pietæ vinto, sun quæxi smaxío:

e hò prinçipiòw: “Quarcösa voriæ díghe,

cäo Meystro, a quelli duï ch’insemme van,

portæ da o vento lêgii comme spighe

 

E a mi lê: ” Ti î vediæ quando sajan

ciù a noï d’ärente; e ti prêghili, allôa,

pe quello amô chi î porta, e lô vegniàn.”

Apeña o vento a noï o î arrigôa,

ghe daggo o crïo: “Öh, ànime affanæ,

parlæne, se nisciùn ve sèra a güa”.

 

Comme cumbiñe da l’amô ciammæ,

cu’ e sò äe averte e fèrme, a o düçe nïo

vêgnan per l’äja, da o soe voéy portæ;

da o roeo duv’ëa Didón, in çà d’asbrïo

cùran da noï, pe quell’ære maligno,

scì fòrte stæto o l’é o mæ amôôzo crïo.

 

“Öh ti animä’ graçiozo, e scì benigno,

che ti vegni a atrovâ, in te sto ære sperso

noï ch’hemmo tento o mundo de sanguigno,

se hæscimo amigo o Rè de l’ûnivèrso,

ô preghiêscimo noï per a tò paxe,

che ti hæ pietæ do nòstro mâ’ pervèrso.

 

De quanto a voï sentî e parlâ ve piaxe

stæmo a sentîve, e parliëmo con voï,

shiña che o sferradô, comm’aoa, o taxe.

Sëze a çitæ duve sun nasciûa ai doï

in sce a mariña duve o Pò o descende

pe finî in paxe insemme ai soe minoï.

 

L’Amô che in t’ûn coe fin lèsto o s’aççende,

o l’ha invaghïo ‘sto kì da mæ persoña

che m’han levòw; e ancon o moeo o m’offende.

No amâ chi n’amma, l’Amô o no perdoña!

Do sò piaxey lê o m’ha iñnamoä scì fòrte,

che ancon, ti ô veddi!…kì o no m’abbandoña.

 

L’Amô condûti o n’ha a ûña stessa mòrte:

Caiña a l’aspëta chi n’ha asciascinòw”.

Ecco quanto n’han dïto in sce a soe sòrte.

Sentìo o magon de questi, e o soe peccòw,

o mento kiño in sen, lì, mucco e basso,

shiña che o Poeta o me fa: “Ti ë alluow?”

 

Revëgno e diggo allôa: “Sun in t’ûn giaçço!

Quanti düsci penscëi, quanto dexìo

han portòw questi ao dolorozo passo!”

Pòi vorzéndome a lô cu’o coe abbrençoìo:

“Françesca! – esclammo – e peñe tò e i deliri

me fan cianze d’ûn cento tristo e pio.

 

Ma dimme, ao tempo di düsci suspiri,

cun cöse, e cumme v’ha conçesso Amô

che conoscésci i dûbbiozi dexiri?”

E allôa lê a mi: “No gh’é, no, maggiô dô

ch’arregordâ i feliçi dì, e a freschixe

in ta mizëja; e o ô sa o tò bon Dottô.

 

Ma pòi se de conosce a primma raïxe

do nòstro amô ti mostri tanto affètto,

comme quello fajö chi cianze e dixe.

Pe demôa, ûn dì lezéyvimo o libretto

de Lançilòtto, comm’Amô o l’ha vinto:

soli éymo lì, sença nisciùn suspètto.

 

Ciù e ciù vòtte i nòstri oeggi a n’ha suspinto

quella lettùa, e scolorìo a n’ha o vizo:

ma chi n’ha pòi derruòw o l’é stæto ûn pointo.

Ao lêze comme o suave fattorizo

baxòw o l’é stæto da scì illûstre amante,

questo, chi mai da mi o no sä divizo,

a bucca o m’ha baxòw tûtto tremante.

 

«Galiöto» scì! l’ëa o libbro e chi l’ha scrïto:

no gh’hemmo quello dì lètto ciù avante”.

Mentre ch’ûn spìrito questo o m’ha dïto

l’ätro o cianzéyva scì, che sença ciù

me sun sentìo mancâ da no stâ drïto,

e comme ûn còrpo mòrto hò dæto zù.

Anche in questo caso, si parla di una lingua così antica da essere difficile da tradurre anche per noi, però io la trovo bellissima. Padre Angelico Federico Gazzo, diceva sempre – Cume o zeneise o vegne da o latin -, ossia “come il genovese (il ligure) viene dal latino”. E da lì, ecco questa sua particolare traduzione.

Un abbraccio a tutti topini, alla prossima.

M.

Perchè “A cumba”?

“A cumba” perchè…? Perchè racchiude in sè un modo di pensare, un modo di essere. “A cumba”, topini e topine, ossia “La colomba”, la particolarissima canzone o, per chi preferisce nenia, di un Fabrizio De Andrè che utilizza per questa sua opera, un dialetto ligure antichissimo. Così antico che si fa fatica a tradurre.

° QUESTE LE PAROLE

Pretendente: Gh’áivu ‘na bélla cùmba ch’à l’è xeüa fôea de cá

giánca cum’â néie ch’â desléngue a cian d’â sâ

duv’à l’é, duv’à l’é

che l’hán vursciûa védde cegà l’áe a stù casâ

spéita cùme l’áigua ch’à derüa zü p’oú riá

nu ghe n’é, nu ghe n’é, nu ghe n’é

Padre: Cáu oú mè zuenottu ve porta miga na smangiaxún

che se cuscì fise puriésci anávene ‘n gattixún

nu ghe n’é, nu ghe n’é, nu ghe n’é

Pretendente: Végnu d’â câ du ráttu ch’oú magún oú sliga i pê

Padre : Chi de cúmbe d’âtri nu n’é vegnûe nu se n’é pôsé

 Pretendente: Végnu c’oú côeu maróttu de ‘na pasciún che nu ghe n’é

Padre : Chi gh’è ‘na cúmba gianca ch’ä nu l’é â vostra ch’â l’é a mê

nu ghe n’é âtre, nu ghe n’é, nu ghe n’é âtre, nu ghe n’é

Coro: Â l’é xêuâ a l’é xêuâ â cûmba giánca

de nôette â l’é xêuâ áu cián d’â sâ

 truvián â truvián â cûmba giánca

de mázu â truvián áu cián d’oú pán

Pretendente : Vuí nu vuriésci dámela sta cúmba da maiâ

giánca cum’â néie ch’â desléngue ‘nt oú rià

duv’à l’è, duv’à l’è, duv’à l’è, duve, duv’à l’è

Padre: Mié che sta cúmba bélla â stá de lúngu barbacíu

che nu m’â pôsse védde à scricchî ‘nté n’âtru níu

nu ghe n’é, nu ghe n’é, nu ghe n’é

Pretendente: Â tegnió à dindanáse sutt’à ‘n angióu de meigranâ

cu’ â cûa ch’oú l’ha d’â sèa â mán lingéa d’oú bambaxia

duv’à l’è, duv’à l’è, duv’à l’è, duve, duv’à l’è

Padre : Zuenu ch’âei bén parlóu ‘nte sta seián-a de frevâ

Pretendente: Â tegnió à dindanáse sutt’à ‘n angióu de meigranâ

Padre : Saêi che sta cúmba à mázu a xêuâ d’â mê ‘nt â vostra câ

Pretendente: Cu’ â cûa ch’oú l’ha d’â sèa â mán lingéa d’oú bambaxiâ

nu ghe n’é âtre, nu ghe n’é, nu ghe n’é âtre, nu ghe n’é

Coro: Â l’é xêuâ a l’é xêuâ â cûmba giánca

de nôette â l’é xêuâ áu cián d’â sâ

 truvián â truvián â cûmba giánca

de mázu â truvián áu cián d’oú pán

Duv’â l’é duv’â l’é ch’â ne s’ascúnde

se maiá se maiá áu cián d’oú pán

Cum’â l’é cum’â l’é l’é cum’â néie

ch’â vén zû deslenguä da oú riá

 l’é xêuâ a l’é xêuâ â cûmba giánca

de mázu â truvián áu cián d’â sâ

Duv’â l’é duv’â l’é ch’â ne s’ascúnde

se maiá se maiá áu cián d’oú pán

Cúmba cumbétta béccu de sêa

sérva à striggiún c’oú maiu ‘n giandún

Martin oú vá à pê cun’ l’âze deré

foêgu de légne ánime in çé

° E QUESTA LA TRADUZIONE

Avevo una bella colomba che è volata fuori casa

bianca come la neve che si scioglie a pian del sale (bagnasciuga)

dov’è, dov’è

che l’hanno vista piegare le ali verso questo casale

veloce come l’acqua che precipita dal rio

non ce n’è, non ce n’è, non ce n’è

 Caro il mio giovanotto non vi porta mica un qualche prurito

che se così fosse potreste andarvene in giro per amorazzi

non ce n’è, non ce n’è, non ce n’è

 Vengo dalla casa del topo che l’angoscia slega i piedi

Qui di colombe d’altri non ne sono venute non se ne sono posate

Vengo con il cuore malato da una passione che non ha uguali

Qui c’è una colomba bianca che non è la vostra che è la mia

non ce n’è altre, non ce n’è, non ce n’è altre, non ce n’è

È volata è volatala colomba bianca

di notte è volata a pian del sale

La troveranno, la troveranno

la colomba bianca di maggio la troveranno

al piano del pane (altare)

Voi non vorreste darmela questa colomba da maritare

bianca come la neve che si scioglie nel rio

Dov’è, dov’è, dov’è, dov’è, dove, dov’è

Guardate che questa bella colomba è abituata a cantare in allegria

Che io non la debba mai vedere stentare in un altro nido

Non ce n’è, non ce n’è, non ce n’è

 La terrò a dondolarsi sotto una pergola di melograni

Con la cura che ha della seta la mano leggera del bambagiaio

Dov’è, dov’è, dov’è, dov’è, dove, dov’è

Giovane che avete ben parlato in questa sera di febbraio

La terrò a dondolarsi sotto una pergola di melograni

Sappiate che questa colomba a maggio volerà dalla mia alla vostra casa

Con la cura che ha della seta la mano leggera del bambagiaio

non ce n’è altre, non ce n’è, non ce n’è altre, non ce n’è

È volata è volata la colomba bianca

di notte è volata al piano del sale

La troveranno la troveranno la colomba bianca

di maggio la troveranno al piano del pane

Dov’è, dov’è che ci si nasconde

si sposerà, si sposerà al pian del pane

Com’è com’è è come la neve

che vien giù sciolta dal rio

È volata è volata la colomba bianca

di maggio la troveranno a pian del sale

Dov’è, dov’è che ci si nasconde

si sposerà si sposerà al pian del pane

Colomba colombina becco di seta

serva a strofinare per terra col marito a zonzo

Martino va a piedi con l’asino dietro

fuoco di legna anime in cielo.

E allora perchè “A cumba”? Ma perchè innanzi tutto si parla di – casa del topo -… e bhè, bhè, no, non scherziamo, vedete, come cantano il grande De Andrè e suo figlio Cristiano, un tempo, tra due giovani che volevano mettere su famiglia, c’era il filtro dei genitori che avevano un relativo potere di veto motivato dalla loro esperienza, forse ancora in uso oggi in qualche parte d’Italia ma molto più raro. Poi è venuto il tempo del “…è mia, e me la gestisco io!” come dice il mio caro amico Bruno e corrispondente per i maschi ma, a 18 o 20 anni, non si ha ancora la capacità di valutare le implicazioni di un rapporto che deve durare a lungo.

I giovani non sanno ponderare le difficoltà, anche economiche, che sicuramente sorgeranno e soprattutto non pensano di dover cambiare completamente stile di vita. Si gettano allo sbaraglio pensando che poi tutto si aggiusti da solo, senza giungere a dei necessari compromessi con la compagna.

In questa canzone si parla della giovane sposa che è come una colomba, per la quale, il padre, gradisce gioia e serenità. Ascoltatevela topini, ve la lascio qui, io torno domani. Come vi ho detto è difficilissima da capire. E’ il mio dialetto più vecchio che c’è. Un dialetto che fa risultare questa canzone, quasi come un documento antico e, ahimè, troppo poco conosciuto.

Meriterebbe di più. Buon sabato a tutti.

M.

Dialetti per tutti

Ogni volta topini che scrivo un articolo, o una parola, o una frase riguardante il mio dialetto, il Ligure o il Genovese, mi accorgo di essere entrata nella curiosità di gran parte di voi. C’è divertimento e, a volte, voglia di tornare alle vecchie tradizioni. E allora, mi è venuta un’idea; un’idea della quale me ne assumo la completa responsabilità (perdonatemiiii!). Tolte due o tre strofe, tutte le altre frasi che trovate qui sotto elencate, appartengono alla mia memoria e, la scrittura, è quasi sempre di mia immaginazione. Ebbene topi di tutta Italia, oggi voglio espatriare dalla mia Valle e farmi un bel giro da tutti voi e, per ognuno di voi, ho trovato le strofe di una vostra canzone popolare, nella speranza di farvi un lieto regalo. Tra l’altro, sapreste riconoscere i vari dialetti a quale regione appartengono? Vabbè, vi aiuto, li ho divisi per colore e, inoltre, posso dirvi che il primo, è dedicato alla mia terra, la Liguria. E poi? Divertitevi, alcuni son davvero simpatici. E’ stata un’idea impegnativa, ma il risultato mi sembra abbastanza buffo per potervi augurare una buona giornata in allegria, canticchiando, questa specie di “minestrone”! Buon dialetto a tutti!

Ma sa ghe pensu alua mi vegu u ma,

vegu i mei munti e a ciassa d’Anunsià

rivegu Righi e u me se strenze u coe

vegu a Lanterna, a cava, lazzu u moe.

Sei trascinato per via ‘Halzaioli
e pensi ‘he ieri dicevi ai figlioli
“Sarà, ma domani, Maremma Toscana,
ll’è pioggia, c’ho un callo che segna buriana!”

Ma che ccie frega, ma che ccie ‘mporta

se l’oste al vino ccia messo ll’acqua

e noi je dimo e noi je famo

Cciai messo l’acqua e nun te pagamo! “

Staje luntana da ‘sto core

a te volo cu’o penziere

niente vojio e niente spero

ca tenette sempe a fianc’ a mme

Calabrisella mia, calabrisella mia

calabrisella mia facimm’ammuri

tirulallero, lallero, lallà

‘stà calabrisella muriri mi fa!

Vitti ‘na crozza supra nu cannuni

i cu ‘sta crozza mi misi a parlari

idda ma rispunniu cun gran duluri

Sun murtu senza u tuccu di campani”

In sos muntonarzos, sos disamparados
chirchende ricattu, chirchende
in mesu a sa zente, in mesu
a s’istrada dimandende. Sa vida s’ischidat pranghende.

T’amavo nun t’amo cchiu’ t’agge lasciato,

e ringrazio Dio ca ne so asciuto.

Io ero muto, cecare, era ‘nsensato,

cammenavo disperso, ero perduto.

Quannu te llai la facce la matina
L’acqua ninella mia nu l’hai menare
Nu l’hai menare l’acqua na
L’acqua ninella mia nu l’hai menare nu l’hai menare .

Arevié marite mé arevié lu lette
ca te so’ messe li fresca lenzola.
Vattene moglia mé ca nen ce pozzo venire
ca so’ lassate la pecura sola.

E vola, vola, vola

e vola lu cardille

nu vase a pizzichille

‘mo facemme a pruvà.

Affaccete alla finestra o te rompo ‘n vetro,
ardamme la mi’ robba che t’ho deto,
e ardamme la mi’ robba che t’ho deto
e anche qu’ll’anellino che c’hai tu al deto.

Chicchirichì che c’hai per cena
chicchirichì c’ho l’inzalada
chicchirichì chi l’ha combrata
chicchirichì la combrerò.

Ciavarin l’à vendù i bò….
L’à vendù i bò e la cà in montagna ohè,
per comprare ’na mula,d’andare a Soragna.
L’à vendù i bò e la cè in montagna ohè.

Bevè, bevè compare

se no ve mazzeghè.

Piuttost che me mazzeghè,

mi tut ‘l beverò!

Ai preat la biele stele,
duch li Sants del Paradis:
che il Signor fermi la uére,
che il mio’ ben torni al pais.

O Angiolina, bela Angiolina.
innamorato io son di te
innamorato da l’altra sera
quando venni ballar con te.

O mia bela Madunina, che te brillet de lontan
tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan
sota a ti se viv la vita,

se sta mai coi man in man.

Ô fier Mont Blanc, roi des sommets, salut à ta puissance!
Ô fier Mont Blanc, roi des sommets, salut à ta puissance!
Ta flèche au-dessus des guèrets, des pavillons de nos forêts,
et des glaciers aux bleus reflets, dans le grand ciel s’èlance.

O bundì, bundì, bundì ,‘ncura na volta, ‘ncura na volta.
O bundì, bundì, bundì ,‘ncura na volta e peui papì,
‘ncura na volta sota la porta ,‘ncura na vira sota la riva.
O bundì, bundì, bundì ,‘ncura la volta e peui papì.

Allora, vi è piaciuto questo giro d’Italia? Pant pant! Sono stanchissima. Corichiamoci un po’ ora e riposiamo… domani è un altro giorno! Squit!

M.

Cosa sarà?

E per la categoria “Caro Squit” eccovi oggi, nuovamente, un indovinello facile ma molto carino e una filastrocca che tutti gli anni Topo Nonno racconta a noi familiari. Sono ovviamente parole dette in dialetto, una lingua che permette altre rime e suoni rispetto all’italiano. Io ve le tradurrò e vi regalerò un po’ di quel parlato che adoro.

INDOVINELLO N°1

Becca ribecca a nu beve cafè

porta corona e regina a nu a l’è

a gà tanti fioei e mariu nu n’à

chi ghe induvina meigu serà

 

TRADUZIONE:

Becca ribecca non beve caffè,

porta corona e regina non è,

ha tanti figli e marito non ha,

chi ci indovina dottore sarà.

Chi è? Bene, vi lascio pensare.

E poi una filastrocca.

FILASTROCCA

Sette cun sette

catorze cun disette

carantacattru e unze

i fan centu lire riunde.

TRADUZIONE:

7 con 7,

14 con 17,

44 e 11,

fanno 100 lire rotonde.

Cosine semplici ma piacevoli. Ebbene volete sapere chi è la protagonista dell’indovinello? E’ la GALLINA, però voi dovete far finta di non esserci arrivati, altrimenti, Topo Nonno non ci trova più gusto.

Un bacione.

M.

A Cimma – un piatto che non può mancare

Per noi mangiarla è come un rito. Non può mancare nelle giornate importanti e invernali. Non può mancare in qualche particolare domenica. Non può mancare nel festeggiare gli anni di un familiare. Quei suoi colori, quella sua posa simpatica. Legata con cura con uno spago. E’ la Cima topini, chiamata, in dialetto: A Cimma.

Così buona, così meravigliosa, così tradizionale da essere cantata, quasi come una preghiera, da uno dei più grandi cantautori italiani. E, dal momento che, nel nostro dialetto, probabilmente potevate non comprenderla, ve la traduco. A me, emoziona tantissimo, ma prima guardatevi il video di Fabrizio de Andrè.

“A CIMMA”

versione in concerto del brano, tratto dall’album “1991 – Concerti”.

Ti sveglierai sull’indaco del mattino
quando la luce ha un piede in terra e l’altro in mare
ti guarderai allo specchio di un tegamino
il cielo si guarderà allo specchio della rugiada
metterai la scopa diritta in un angolo
che se dalla cappa scivola in cucina la strega
a forza di contare le paglie che ci sono
la cima è già piena è già cucita.

Cielo sereno, terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura.

Bel guanciale materasso di ogni ben di Dio
prima di battezzarla nelle erbe aromatiche
con due grossi aghi dritto in punta di piedi
da sopra e sotto svelto la pungerai
aria di luna vecchia di chiarore di nebbia
che il chierico perde la testa e l’asino il sentiero
odore di mare mescolato a maggiorana leggera
cos’altro fare? Cos’altro dare al cielo?

Cielo sereno, terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura
e nel nome di Maria
tutti i diavoli da questa pentola
andate via.

Poi vengono a prendertela i camerieri
ti lasciano tutto il fumo del tuo mestiere
tocca allo scapolo la prima coltellata
mangiate mangiate: non sapete chi vi mangerà.

Cielo sereno terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura
e nel nome di Maria
tutti i diavoli da questa pentola
andate via.

Bella vero? Stupenda.

Ma come si prepara questa Cima? La ricetta è stata col tempo modificata tante volte e, in tante regioni, che hanno adottato questo piatto per noi tipico, viene spesso preparata in modi diversi. La tradizione però vuole che venga fatta come vi scrivo e, credetemi, farete un figurone.

Il ripieno, che potrà venirvi più sui toni del verde o più sul giallo, a seconda degli ingredienti, sarà delicato e sublime.

Allora, fate preparare dal vostro macellaio di fiducia, una sacca (rigorosamente di vitello), con un solo lato aperto. Vi verrà tutto più facile ma dovete sapere che, le donne di un tempo, e ancora topozia lo fa, la Cima se la legavano loro.

Sappiate che non è semplice da preparare ma è poco calorica e quindi può essere mangiata da tutti.

Per prima cosa tritate finemente la polpa e le cervella di vitello servendovi del frullatore o della mezzaluna e unendovi del prosciutto cotto. Non posso darvi delle indicazioni in quantità perchè non posso sapere come grande acquisterete la vostra tasca di pancia di vitello. Regolatevi con gli ingredienti.

Tritate finemente una cipolla (sevulla) e la carota (carota) e mettete il trito a rosolare in una padella con un po’ d’olio. Un normale soffritto.

Aggiungete quindi la carne tritata, i piselli (pesei), i pinoli (pignoi), l’aglio (aiu) tritato, la maggiorana (persa), le uova (oeve) che avrete precedentemente sbattuto; bianco e rosso insieme con della mollica di pane bagnata nel latte.

Mescolate il tutto per qualche minuto, a fuoco lento, e poi aggiungete il parmigiano e salate a piacere ma, un buon ripieno, non deve mai essere insipido.

Bagnate il tutto con il vino bianco, mescolate e lasciate cuocere, a fuoco moderato, fino a che il vino non sarà evaporato.

Una volta pronto, riempite la sacca di carne con il ripieno e cucite il lato rimasto aperto quindi, mettete sul fuoco una pentola abbastanza grande, piena d’acqua salata, con un’altra cipolla, del sedano e una bella carota.

Quando l’acqua sarà calda, immergerete la vostra Cima ripiena e la lascerete bollire per almeno due ore, a fuoco medio, coprendo la pentola per 3/4 con un coperchio. Se l’avete cucita bene, non fuoriesce nulla.

Terminata la cottura, togliete la Cima dalla pentola e lasciatela raffreddare in un vassoio, coperta con un piatto, sul quale metterete un peso per permettere al brodo in eccesso, assorbito durante la cottura, di fuoriuscire. Anche un grosso libro andrà bene.

Infine, appena raffreddata, mettete la vostra Cima su un tagliere e tagliatela a fette di circa 1 centimetro di spessore.

Potete servirla sia fredda che calda, a seconda dei gusti, con contorno di verdurine grigliate, un po’ di salsa verde o della semplice insalata con pomodori, dipende da voi. Ma credetemi, i commensali, non se ne andranno più!

E’ un ottimo secondo, dovrete preparare solo un primo piatto o diversi antipasti, vedete voi.

Ora vi mando un bacione, io, vado a fare un po’ di pappa.

M.