Nel Regno di ghiaccio – tra Garlenda e il Saccarello

Oggi, cari Topi, non vi porterò a fare una semplice escursione ma vi condurrò, assieme a me, all’interno di una fiaba. Una fiaba che ci regala la nostra splendida Valle. Una fiaba che ha inizio presso il Passo di Garlenda dove un potente Mago, attraverso un incantesimo, ha ghiacciato un intero Regno.

Tornerà a brillare il sole diradando questa fitta coltre di nebbia?

Il gelo lascerà il posto alla primavera?

Scopriamolo insieme prendendo come spunto un fenomeno meteorologico che crea atmosfere incredibili per realizzare una fiaba che farebbe invidia persino ai fratelli Grimm attraverso la sua scenografia.

Dal Passo della Guardia, sopra l’abitato di Triora e oltre Gorda, intraprendiamo il sentiero in salita, un po’ faticoso da percorrere per chi non è abituato a camminare, e ci dirigiamo verso il Passo di Garlenda salendo verso creste che fan da confine tra la Valle Argentina e la Valle Arroscia.

Abbiamo attraversato anche il Bosco del Pellegrino che, avvolto da una spessa bruma, appare come un luogo incantato della Terra di Mezzo. Alcuni personaggi del Piccolo Popolo sono sicuramente nascosti qui da qualche parte, nel sottobosco di questa macchia.

Ma andiamo avanti, le vette ci aspettano e iniziamo ad arrampicarci per il sentiero che vi ho citato, il quale, permette di raggiungere molti altri luoghi oltre alla zona di Garlenda.

L’umidità la fa da padrona, tutto gocciola attraverso stille trasparenti che bagnano e rinfrescano l’aria. Sono le uniche forme di vita che si permettono di fare rumore.

Qualche piccola pigna giace su quell’erba tagliata dalla stradina. E’ un’erba che ancora non ha mutato il suo colore e appare riarsa dal freddo che padroneggia da diversi mesi.

Il silenzio si fa sempre più pesante, più si sale e più le gocce si zittiscono costrette a immobilizzarsi legate da temperature assai basse. Non possono più lasciarsi andare nel vuoto tuffandosi a terra, bensì restano ghiacciate attaccate ad ogni cosa.

Tutto si è trasformato all’improvviso. Tutto è immerso nel ghiaccio. Tutto è sospeso, come in attesa, in un luogo senza tempo.

La montagna sulla quale mi sto arrampicando mostra ora una barba bianca che prima non aveva.

Ogni stelo d’erba è ricoperto da minuscoli fiocchi gelidi e candidi. Trasparenti coperte, lucide e ghiacciate, abbracciano bacche e rametti.

Sui massi, una fredda corazza lascia muovere dell’acqua tra se stessa e lo scoglio. La si vede oltre quello scudo ed è l’unico movimento percepito in mezzo a quella natura che appare totalmente immobile.

Davvero pochi i segni di vegetazione se non dati da una pianta chiamata con un nome decisamente appropriato in situazioni come questa: Semprevivo.

Su Cima Garlenda, persino le rovine delle vecchie costruzioni militari sono ricoperte dalla neve. Proprio così. Qui c’è anche la neve. Tutto è bianco. Assolutamente bianco.

I resti delle vecchie casermette si vedono appena vista la foschia. Le pietre grigie sembrano più scure del solito in mezzo a tutto questo candore.

So esserci il Monte Frontè dinanzi a me ma non posso vederlo, la nebbia è troppa e io devo dirigermi verso la parte opposta. La mia meta è il Monte Saccarello.

E’ proprio grazie a questa grande quantità di nebbia che si può ammirare la galaverna, precipitazione atmosferica che vi spiegai in questo post https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2020/03/13/lincantesimo-della-galaverna/

I rami spogli degli alberi sono pieni di stalattiti ghiacciate costrette dal freddo ad una posizione orizzontale. Sono le gocce che hanno dovuto seguire obbligatoriamente la forza importante del vento e ora hanno reso quell’ambiente totalmente surreale.

Non è possibile che sia vero. Pare tutto così assurdo.

Quell’aria mi taglia il viso ma sono ben attrezzata e posso andare avanti. C’è l’obbligo di ramponi, al di sotto dei fiocchi farinosi si toccano lastre scivolosissime.

Avanzo, camminando in cresta, fino a raggiungere il Rifugio Sanremo ovviamente blindato in questa stagione. So di essere a 2.054 mt s.l.m. e riesco a vedere la struttura solo avvicinandomi parecchio a lei. Una breve sosta e riparto.

Alla mia sinistra posso ora captare e a volte vedere il vuoto dell’abisso di fianco a me. Devo fare attenzione a dove metto le zampe mantenendomi a destra. Mi sto dirigendo verso il Saccarello e, laggiù in fondo, quindi, alla fine di questo lungo dirupo, ci sono i paesi di Realdo e Verdeggia.

Lunghi tratti di bianco e silenzio assoluto mi aspettano prima di giungere al secondo Rifugio.

Si tratta del Rifugio La Terza decisamente più grande di quello precedente. Ora sono a 2.060 mt s.l.m. non è cambiato molto rispetto a prima, come altitudine, ma cambierà da adesso. La mia meta è in salita.

Riparto. E’ faticoso. L’aria e il terreno non mi aiutano. Il freddo neanche. Ma devo farcela per sciogliere l’incantesimo e continuo decisa. Non vedo nulla attorno a me. Sono diverse ore che i miei occhi osservano solo bianco… bianco… bianco….

Mi fermo, riprendo fiato, riposo ma senza mai un ripensamento e dopo altri passi… c’è una figura laggiù in fondo. Un’ombra scura si staglia leggermente in quella foschia.

Sono arrivata. La statua del Redentore si innalza in tutta la sua bellezza. La galaverna ha colpito anche lei, in modo significativo, donandole un aspetto incredibilmente affascinante.

Ce l’ho fatta. Non posso raggiungere la vetta del Saccarello, non ho più tempo, devo fare ritorno perché la montagna e la natura hanno i loro tempi e devo rispettarli ma sono comunque giunta dove volevo arrivare.

Mi preparo a tornare indietro e percorro diversi metri quando una potente folata di vento mi obbliga a girarmi verso l’altra sponda della Valle Argentina.

I miei occhi si spalancano dall’entusiasmo. Le nuvole si diradano permettendomi di vedere una bellezza infinita che non ha eguali e non mi consente di proferir parola.

Vedo il Monte Gerbonte, il Grai e tutte le altre montagne alle quali sono molto affezionata. Il cielo si tinge di azzurro e alcuni raggi del sole penetrano prepotentemente tra quelle nubi scaldandomi le guance. Ora vedo. Ora posso vedere. E non ho parole per descrivere tanta meraviglia consentita al mio sguardo.

Mi giro indietro, vedo di nuovo il Redentore che da poco ho salutato. Eccolo. Ecco dov’ero poc’anzi. Mi giro a destra, sono euforica. Riesco ad ammirare persino la Valle Arroscia e il suo distendersi tra quei monti.

Davanti a me, adesso, il Monte Frontè è ben visibile e lo sono anche Realdo e Verdeggia ora.

Alcuni pezzetti di ghiaccio si staccano da quelle piante appesantite e io sono circondata dalla bellezza.

Che splendore, non riesco neanche a descriverlo. Ne è valsa davvero la pena.

Approfitto di quel calore concessomi dalla luce solare e mi dirigo nuovamente verso Garlenda per far ritorno. Penso proprio di aver annullato l’incantesimo che ha trasformato questi luoghi in un Regno di Ghiaccio.

Penso di aver sconfitto il potente Mago. Sorrido.

Sorrido come se davvero vivessi una favola e faccio ritorno verso la tana.

Scendendo per il sentiero che mi riporterà verso Passo della Guardia mi trovo di nuovo in mezzo ad una natura che non è più gelata.

Alcuni Camosci si godono il sole sdraiati sui pascoli sopra Rocca Barbone e nei monti attorno. Qualche Cincia svolazza felice da un albero all’altro e c’è persino qualche insetto a dare segni di vita.

Una vita straordinaria che mi godo soffermandomi un secondo ad ammirarla e respirarla. Ho forse vissuto un sogno?

Ce l’ho fatta, non mi resta che lasciare questo posto trattenendolo nel mio cuore e attendere la prossima magia.

Che ne dite Topi? Vi è piaciuta questa fiaba? Un pizzico di fantasia in un tour che ho intrapreso realmente e che consiglio solo ad esperti perché, altrimenti, si può patire parecchio viste le condizioni avverse che ho incontrato. Non avventuratevi mai se non siete preparati o non avete qualcuno che sappia guidarvi davvero.

Non mi resta che salutarvi. Vado a preparare una nuova storia.

Un bacio gelido a voi!

A Rocca delle Penne sopra la Foresta dei Labari

E’ l’alba di una spettacolare mattina di gennaio quando giungo a Case Loggia, sopra il paese di Corte.

Le sfumature rosa e arancio di questa aurora, preludio di una giornata che sembra primaverile, mi permettono di vedere la Corsica che si staglia sopra al mare, avvolta dalle nuvole, laggiù in fondo, oltre il Monte Faudo. “Come inizio non c’è male” mi vien da pensare.

Mi trovo dove un tempo, un gruppetto di case formava una piccola borgata. Ora ne sono rimaste pochissime sotto strada, mentre una frana ha devastato questo territorio che però non ha perso la sua bellezza.

Se mi guardo attorno, infatti, posso vedere la magnificenza dei miei monti, crinali incredibili e spettacolari e distese di pascoli infiniti sui quali non è difficile scorgere Caprioli, Camosci o Mucche a brucare quell’erba che riveste, come velluto, quei monti che sembrano finti. Sono i Prati di Corte.

La strada che mi ha portato sin qui è uno sterrato che si prende dopo aver sorpassato la sbarra per la via che porta anche a Vignago. Occorre infatti conoscere qualcuno che abbia le chiavi, non a tutti è concesso di passare in questa zona se non a piedi. Sono andata in auto per evitare troppi chilometri, dal momento che molti me ne aspettano, per raggiungere un dente roccioso della Valle che mi consente una visuale splendida.

La mia meta è Rocca delle Penne e, da dove sono, posso già vederla in lontananza sporgere dal monte in modo pronunciato e sovrastare l’ampia Foresta dei Labari che vedrò dall’alto.

Da qui, prima di partire, posso vedere anche un’altra tappa che raggiungerò per poter poi arrivare alla Rocca. Si tratta di un altro spunzone roccioso, molto caratteristico ma del quale non si conosce il nome.

Dapprima si staglia contro il cielo terso che si sta schiarendo solo ora ma, con il passare delle ore, si mostra in tutta la sua bellezza con quei colori appisolati che gli donano un aspetto rude e particolarmente selvaggio allo stesso tempo.

M’incammino a salire scavalcando diversi rii d’acqua e sorgenti.

E’ faticoso questo percorso non delineato. Si sfruttano i gradini formati dalla montagna stessa poggiando le zampe su ciuffi d’erba o piccoli spazi pietrosi.

Non c’è un sentiero ma quello che, dalle nostre parti, viene definito “sbrego” cioè un passaggio che, più di una volta, lo si inventa sul momento provando a capire dove è possibile passare.

Occorre far attenzione a non scivolare data la pendenza e un suolo, a tratti, formato da schegge di simil ardesia rossiccia, assai frantumabile.

Spesso bisogna aiutarsi con le mani, aggrappandosi a grandi massi o ad arbusti. Bisogna essere accorti però a cosa si utilizza come aiuto, in quanto la maggior parte dei cespugli che si incontrano sono spinosi, mentre i rami, in questa stagione, sono secchi e fragili pertanto non è bene fidarsi di loro.

Il Maggiociondolo ha abbandonato già in autunno i suoi splendidi grappoli gialli e fioriti e si è trasformato in un grande mucchio di dita aguzze che pendono verso il basso. Lo scenario è proprio invernale anche se il sole ora scalda molto e sembra di essere nel mese di maggio.

La fatica continua. L’ascesa è ripida e difficoltosa ma il mio sguardo viene appagato dal panorama che mi circonda e che diventa sempre più ampio.

Di quell’infinita bellezza mi colpisce subito il trio più famoso della Valle Argentina in fatto di vette. Ecco infatti, presenti e austeri come sempre: il Monte Toraggio, il Monte Pietravecchia e il Monte Grai affacciarsi da dietro i monti più bassi e mostrandosi in tutto il loro splendore.

Effettuo una breve sosta per riposarmi. Sotto i crinali di una zona chiamata “i Confurzi” (ad indicare acqua che confluisce) vedo Camosci correre a perdifiato verso fondo Valle. Sono troppo lontani, non li posso fotografare e quindi mi accontento di ammirarli attraverso il binocolo chiedendomi cosa li abbia spaventati così tanto. Mentre cerco risposte, i miei occhi si fissano su una sagoma in cima al crinale, sopra agli ungulati, e ha proprio le sembianze di un grosso rapace. E’ sicuramente un’Aquila della quale vi metto un immagine che ho dovuto tagliare e ingrandire parecchio per mostrarvela. Perdonate quindi la qualità della foto ma era lontanissima.

I Camosci scampano il pericolo lanciandosi in basso in un modo che mi chiedo come sia possibile vista la pericolosa discesa. Come possono non ruzzolare giù nel dirupo… sono davvero fantastici ed è affascinante osservare quelle loro movenze agili e veloci.

Finito quello spettacolo (per loro sicuramente poco piacevole) continuo la mia escursione grazie alla quale posso anche vedere Triora adagiata su un profilo montuoso che le fa da poltrona.

Giungo alla prima Rocca anonima di cui vi parlavo. Anche qui si apre ai miei occhi uno scenario bellissimo. Vedo la strada che ho percorso con la topo-mobile per arrivare fino al luogo di partenza e tutti i monti che mi circondano.

Mi siedo un attimo per riprendere fiato, guardarmi attorno e vivere quella quiete. Sono seduta su diverse pietre nascoste da ciuffi inariditi di Timo e Lavanda. Anche il Ginepro è molto presente e non mi ci vuole molto a capire che, in estate, questo dev’essere un luogo meraviglioso pieno di colori vivi, profumi e animaletti che svolazzano su quell’altura.

Sicuramente ci sono anche parecchi rettili, lo comprendo dalla conformazione del territorio e, durante la calda stagione, bisognerà di certo essere prudenti.

Ora invece tutto dorme. Anche i piccoli uccelletti, da sempre compagni delle mie avventure, sono rari.

Dirigendomi verso Rocca delle Penne passo attraverso una natura riarsa dal gelo. L’erba sembra paglia e il verde che addobba alcune Conifere è tenue. Solo le bacche di Rosa Canina si distinguono in quel sonno con il loro rosso acceso che spicca.

Per terra noto molto Quarzo. Siamo in una zona prettamente rocciosa e quel Quarzo brilla sotto ai raggi del sole.

Rocca delle Penne mi è vicino e, per raggiungerla, devo scendere facendo sempre attenzione a non scivolare. La zona è sempre impervia ma ho finito di salire.

Voglio passarle sotto raggiungendo quello che è un sentiero (finalmente) e mi consentirà di tornare a Case Loggia ma prima mi fermo sulla sua cima.

Una distesa, a perdita d’occhio, di alberi spogli, riempie lo spazio sotto di me. E’ la Foresta dei Labari, ora grigia, fitta e selvaggia. Una meraviglia. Sembra un enorme tappeto.

Scendo, aggiro la Rocca che si mostra in tutta la sua bellezza mostrando una roccia viva dai toni salmone e mi ritrovo su Costa dei Labari. Da qui posso vedere Rocca della Mela di fronte a me e sono all’interno di un boschetto, periferia della nota Foresta.

L’atmosfera è cupa, è come essere nel cuore pulsante di un organo propulsore di vita nonostante la quiete che avvolge.

Questo percorso, roccioso anch’esso ma pianeggiante e facile, mi porta al punto di partenza. Eccomi infatti dopo qualche metro e qualche nuovo ruscello scavalcato a Case del Passo e di nuovo a Case Loggia.

Ho potuto vivere un territorio aspro ma che mi ha dato tanto, dove la vita non si mostra facilmente ma è da scovare. Ancora più intima, ancora più segreta.

Spero che questo giro sia piaciuto molto anche a voi. Ora vado a riposare le stanche zampette e a scrivere un altro articolo.

Un bacio selvaggio a voi.

Scendiamo dal Toraggio e arriviamo a Fontana Itala

E allora scendiamo. Scendiamo da questa vetta meravigliosa che ci regala un panorama splendido sulla Francia e sulla Liguria. La vetta del Monte Toraggio.

Scendiamo da questi grandi massi chiari tra i quali, qualche simbolo cristiano, protegge chi crede in loro.

Siamo a 1.972 mt e ci aspetta un percorso stupendo, anche se un po’ ostico, per arrivare a Colle Melosa più precisamente dalla nota Fontana Itala.

Percorreremo il Sentiero degli Alpini, un sentiero militare realizzato intorno alla fine degli anni ’30, attraverseremo la suggestiva Gola dell’Incisa e torneremo nei boschi verdi dopo essere passati tra rocce e falesie aspre e severe. Siete pronti? Bene. Seguitemi.

Si scende dalla cima a quattrozampe, così come ci si è saliti e vi ho raccontato qui https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2019/07/19/saliamo-sulla-vetta-del-toraggio/

Il volto rivolto verso le rocce per essere più abbarbicati e non perdere l’equilibrio. Abbandoniamo l’erba smeraldina e i fiori estivi.

Davanti a noi si prepara un paesaggio austero, prevalentemente grigio, che regala ancora panorami mozzafiato ma concede poco spazio alla vegetazione.

Salutiamo un’altra Madonnina, pare in bronzo questa, altro simbolo mariano assai usato su queste montagne.

Alcune rocce sono aguzze ma molto resistenti. Il sole è ancora alto nel cielo terso e, riflettendo su quei massi, quasi abbaglia.

Il sentiero in certi tratti è davvero stretto, così stretto che è stato collocato contro la roccia un cavo in acciaio per tenersi. Ancora una volta consiglio di non portarci i piccoli topini.

Chi soffre di vertigini non deve guardare in giù. La vallata pare non avere fine. Sotto alle zampe il vuoto immenso si apre, mostrando una natura che da quell’altezza appare lontanissima. E lo è. Nulla si ferma cadendo da lì. È bene non mettere le zampe sul ciglio del dirupo. Le nevi invernali sgretolano, di anno in anno, questo cammino e conviene stare attaccati alle pareti.

Le rare zone d’ombra che alcune parti di falesie stratificate regalano permettono brevi soste fino a giungere Fonte della Dragurina, e il suo omonimo passo, la stessa incontrata all’andata. Siamo a 1.810 mt.

Solo tra poco cambieremo percorso, facendo così una sorta di anello e, questa volta, attraverseremo la Gola dell’incisa.

Nessuno, osservando quel cielo celeste sopra di noi, può immaginare che una nebbia molto fitta la sta abbracciando, con il sole cocente incontrato finora, adesso, questa atmosfera rende ancora più suggestivo un luogo importante come quello.

 

I Gracchi Alpini volano attorno ai profili montuosi e il loro gracchiare rimbalza da una parete all’altra. Sono tanti, sembra di essere in un film.

Oggi la Gola è una frana e non è semplice da percorrere ma bisogna scendere da qui. Ci siete? Via allora! All’inizio pare abbastanza semplice e si possono ammirare i flysch alla nostra destra. Si tratta di livelli, rughe che si disegnano sulla roccia a segnalare la successione delle formazioni sedimentarie delle montagne.

 

Da qui si può vedere il Toraggio da un’altra prospettiva e guardare il suo profilo all’incontrario, rispetto a come lo si vede dal mare della mia valle è comunque meraviglioso.

Il Monte Pietravecchia, dietro di lui, appare altissimo da qui sotto e guarda il suo amico a ogni ora del giorno e della notte.

Le sue pareti sono di una bellezza indescrivibile e si adattano al free climbing con i loro 140/160 mt d’altezza offrendo meraviglie di flora e fauna.

Poi tutto si fa più arduo. Le pietre sotto alle zampe rotolano, non c’è più il sentiero bisogna fare forza sui muscoli delle gambe e mantenere l’equilibrio. Io che sono una Topina fortunata, l’ho scesa tutta, agganciata a uno dei miei Topo amici quindi la fatica l’ha fatta lui mentre io me la ridevo dietro alle sue spalle ma non diteglielo altrimenti mi finisce il gioco.

Gola dell’incisa è a 1.685 mt.

Le difficoltà non sono finite. Siamo ancora su un sentiero stretto che, a tratti, passa sotto a portici di roccia trattenuti da colonne posizionate appositamente.

Scavato nelle rocce calcaree, il Sentiero degli Alpini, realizzato negli anni ’30 (a parte alcuni brevi passaggi risalenti al periodo della Prima Guerra Mondiale) e considerato un’opera di grande ingegneria presenta tratti spettacolari nonostante lo strapiombo sul quale si sviluppa.

Siamo sull’Alta via dei Monti Liguri. Questo percorso militare, a tratti impervio, attraversa diversi emozionanti luoghi un tempo teatro di difesa e avvistamenti al motto di – Dei Sacri Confini Guardia Sicura -.

Alcuni punti presentano sorprese che mozzano il fiato. Il panorama è così immenso che lo sguardo fatica a raccoglierlo tutto.

Bisogna girare la testa di 360° e lasciarsi cullare da tanta bellezza tra i monti che concedono visuali splendide e mostrano il loro profilo.

Avvicinandoci all’arrivo si giunge nei pressi di una sorgente dalla quale sgorga acqua ghiacciata ma purissima. Io personalmente ho sentito il suo gusto un po’ metallico ma era davvero buona e soprattutto molto dissetante dopo quel caldo.

L’acqua gocciola veloce dall’alto delle rocce bagnate e due grandi vasche in cemento l’accolgono per dissetare probabilmente animali da pascolo. All’interno di questi contenitori rettangolari l’acqua è verde, piena di morbido muschio dal verde acceso, sembra uno stagno.

Abbiamo ancora da camminare ma ci siamo ristorati e abbiamo fotografato anche un Camoscio che ci osservava dall’altra parte della montagna.

E’ adesso che si entra di nuovo nel bosco. Nelle zone più verdi e lussureggianti abbandonando il brullo. Nelle zone ricche di fitta fauna.

Anche le montagne che ci circondano hanno cambiato aspetto. Sono più morbide, ricoperte da una coltre di alberi e sembrano di velluto.

Ritorna la vita come a ridestarsi grazie a quel fresco.

Il sentiero è nettamente più semplice e praticabile. Solo pochissimi metri sono trattenuti da pezzi di legno o pietre posizionate in modo da reggere al meglio e, già da qui, si può vedere la nostra meta.

Eccola laggiù. Fontana Itala. Fine o inizio di un’avventura meravigliosa. Siamo a Colle Melosa, qualche tornate sopra al Rifugio all’Allavena.

Un’avventura indimenticabile e che sicuramente riempie il cuore.

Mi sono divertita e meravigliata parecchio ma, adesso, con permesso, devo andare a riposare un po’. Immagino vogliate che vi porti da qualche altra parte molto presto, quindi vado a distendermi nel mio guscio di noce.

Vi saluto con un bacio panoramico e vi aspetto per la prossima escursione.