Le lacrime di Topononno

La storia che stò per raccontarvi topi è una storia di guerra. E’ la guerra vissuta da mio nonno. Una vicenda durata tre anni che gli ha regalato un nastrino con quattro stellette d’argento e una croce di merito. E’ la storia di un uomo che, ancora oggi, a distanza di 66 anni, lo fa piangere come un bambino. Spesso non ricorda esattamente, o confonde, i nomi, i numeri, i gradi ma, i rumori, gli odori, i luoghi, le sensazioni, ancora lo terrorizzano. Ancora sente il dolore nello sterno della carriola trasportata. Il fischio delle pallottole nelle orecchie. Il gusto del sangue dolciastro in bocca. Il bruciore e il battito dei colpi in testa.

nonno: – Cale ti voi savé? – (quale vuoi sapere?)

io: – Quella dell’Africa nonno –

Sì, nonno è stato prigioniero in Africa 3 anni.

Sospira, si siede e incrocia le dita sul tavolo. La sua espressione cambia. Forse gli sto facendo del male, forse invece del bene. Il suo sbuffetto dietro la mia testa mi dice che comunque non potevo farlo andar via, il più tardi possibile spero, senza sapere cos’ha vissuto lui che è il padre di mio padre.

93 anni, le palpebre rugose e morbide, cadenti, rimpiccioliscono ancora di più i suoi occhi verdi. Il pollice e l’indice della mano sinistra vanno sovente a stuzzicare il lobo dell’orecchio, come se gli pizzicasse.

Nonno era nell’Areonautica. Aviere al reparto servizi.

Era il 10 giugno del 1943. Ero a Pantelleria. Gli inglesi ci hanno preso e imbarcato su zatteroni dai quali hanno scaricato i carri armati. Ci fu un violentissimo bombardamento e quando finì ci portarono a Susa. Lì siamo stati 15 giorni senza coperte e senza mangiare. Potevamo solo bere da delle borracce di latta. Poi ci trasportarono in Tunisia nel campo di concentramento chiamato Mager El Bab. Lì, dopo un mese circa, incontrai Fausto Coppi che, con la fanteria della Divisione Ravenna, era stato mandato in Africa ed era stato fatto anch’esso prigioniero dagli inglesi. Io ero nella 5° tenda, lui nella 6°. Era un tipo timido e taciturno ma tenace, molto tenace. Dopo qualche mese, egli venne mandato sotto i francesi e non lo rividi più. Lo portarono al sedicesimo campo di Gasban, Gabàs, Ga e qualcosa… (non ricorda bene il nome). Era già un campione. Anche noi, in Africa, lo chiamavamo “campione”. Durante i primi giorni di questa prigionia ci divisero in gruppi di tre persone e ci fecero stare in un deserto senza tende e senza capanne. Ci davano da mangiare un cucchiaio d’olio, un cucchiaio grande ma dovevamo dividerlo in tre e 4-5 ceci a testa che facevamo cuocere nelle latte delle conserve di pomodoro. Queste latte le trovavamo nella loro spazzatura e ci servivano come pentole. A volte ci davano una pagnotta, sempre da dividere. Mangiavamo qualsiasi cosa trovavamo intorno dalla fame che avevamo, anche se non era commestibile, e ci venne la dissenteria. Trovandomi a rapporto dal Comandante fui mandato in infermeria, non stavo bene per niente e, a salvarmi, fu un Capitano genovese, anch’esso prigioniero, che mi sentì imprecare in dialetto ligure. Mi diede 9 gocce di non so cosa da far cadere sulla lingua e mi disse – Se te ne dessi 11, di queste gocce, moriresti -. Dopo qualche mese da questa avventura venni mandato presso la famiglia di qualche Capitano a lavorare nei campi come prigioniero e, il potermi definire poi furbamente “un giardiniere”, mi salvò dai lavori più umili e più faticosi. Due mesi prima del rientro nel campo di concentramento, di Tunisi, questa volta, accadde un fatto che mi fece imbestialire. Le guardie ci facevano salire ogni mattina su quattro camion mettendoci in 25 per camion. Dovevamo stare con le gambe incrociate come un indiano e le mani dovevamo tenerle dietro la testa. Un mio compagno aveva la sinovite alle ginocchia e non poteva piegare le gambe. Aveva due ginocchia gonfie come due meloni. Questo Sergente senegalese, grande e grosso, ha iniziato a battergli con la baionetta sulle ginocchia e questo mio compagno piangeva dal male come un bambino. Il viso di quel Sergente me lo ricordo ancora adesso, se lo vedessi, lo riconoscerei. Ci portavano a tappare, di terra e pietre, i buchi creati dalle bombe. Si trattava di trasportare massi enormi e quintali di terra per molti metri. Era straziante. A mezzogiorno, ci mettevano tutti e 100 in riga sotto ad una tettoia ricoperta di lame di zinco. Quel giorno faceva un caldo devastante, non ce la facevo più e da bere non ce ne davano. Avevo una sete tremenda e così mi avvicinai ad un cancello per vedere se davano acqua. Vedevo grigio e annebbiato dalla sete che avevo. All’improvviso si avvicina a me il Sergente senegalese. Era veramente cattivo quell’uomo. Mi diede uno spintone urlando qualcosa nella sua lingua. Io, non seppi trattenermi. Al mattino aveva fatto male al mio commilitone e, ora, stava per picchiare me. Mi girai e gli diedi un pugno in faccia. Nel centro della faccia. Lui mi tirò immediatamente un colpo con il moschetto ma non mi prese. Poi si mise a gridare forte e in un attimo fui circondato da altre guardie. Mi fecero un processo. Una specie di processo. Un processo in mezzo al deserto, sotto a una tenda grigia. Non ho mai capito niente di quello che dissero quel giorno ma un Sergente Maggiore dei senegalesi, che era di religione cattolica e aveva una scala tatuata sulla guancia sinistra, mise a quietare quegli uomini che contro di me erano violentissimi. Questo Sergente Maggiore mi rimandò a lavorare consegnandomi nelle mani di altre guardie che me la fecero pagare comunque. Tutte le pietre che potevano starmi addosso me le hanno caricate e le portai per 100-150 metri. Poi mi dissero di spingere una bruetta (termine dialettale preso dal francese “broiette” che sarebbe una specie di carriola). Due prigionieri dovevano caricarmela piena di terra che più piena non si poteva e due guardie, se rallentavo il passo, mi tiravano colpi sulla schiena e sulla testa. Sotto ai miei piedi il terreno era tutto fangoso, scivolavo e non riuscivo a proseguire e allora mi mettevo in ginocchio e spingevo con tutta la forza che avevo nello stomaco con lo sterno, con le costole e dai, e dai, e puntavo lo stomaco sempre di più e spingevo e poi, ho sentito il mio cuore scoppiare, una fitta, la gola piena, una pesantezza che voleva uscire dalla cassa toracica e faceva male e…

E qui nonno piange. Piange tanto. Si alza, va a bere un bicchiere di gazzosa e, con il fazzoletto di stoffa bianco e marrone si asciuga occhi, naso, fronte, testa. Respira profondamente e, inconsciamente, si appoggia il palmo della mano in mezzo al seno come a consolare il suo petto con un impercettibile massaggio. Poi riprende. Ora so che nonno, nonostante tutto, ha voglia di parlare. Ha voglia di gridare a tutti cosa è capitato laggiù, in Africa. E lui, nonostante tutto, riconosce di essere stato un fortunato. Ha visto compagni morire nei modi più assurdi. Riprende più forte di prima.

Detto dai miei compagni, questa tortura è durata un’ora e mezza. Quando sentii che stavo per morire, lanciai via la carriola. Morire per morire, non volevo morire con una carriola sulla testa. (Sorride amaramente). Una guardia mi diede dei pugni e mi spaccò il naso e le labbra. Un’altra penso mi picchiasse ovunque. Ero una maschera di sangue e non riuscivo a reagire. Da questo momento ho i ricordi offuscati. So solo che un Caporal Maggiore del mio esercito mi prese a lavorare con lui. Intervenne la Croce Rossa Internazionale di Ginevra, per me e per tutti gli altri che avevano subito le stesse angherie. Questo Caporal Maggiore mi fece poi rientrare nel mio campo dei prigionieri ma stetti tantissimi giorni in infermeria prima. Nel ’46, nel mese di febbraio, venni imbarcato a Biserta sulla nave Toscana e sbarcai a Napoli dove presi il treno per fare ritorno a casa con il foglio del congedo in mano. Mi diedero anche dei soldi verdi (tipo assegni). Quando arrivai, la prima persona che vidi, fu il mio caro amico Elio“.

Ah! Dimenticavo! Mi diedero anche un nastrino con quattro stellette d’argento e una croce di merito!“.

Quelle stellette…. unico orgoglio rimastogli dopo la vita. Oggi, mi chiede dov’è la Tunisia. Gliela faccio vedere sulla cartina e il suo sguardo è incredulo “Me pajeva davè navigau pe tantu, tantu tempo…” (praticamente si stupisce che sia così vicina all’Italia. Povero nonno. Poveri tutti.

Questa di mio nonno non è ne la più violenta storia, ne la meno, di una guerra che, come tutte le guerre, ha sparpagliato migliaia di vittime. Ma non sono qui per fare una gara a chi ha sofferto di più. Solo regalare una preziosa testimonianza. Mio nonno ce l’ha fatta e ne sono estremamente felice. A dare la vita per quattro stellette d’argento.

Bravo nonno. Sei il mio grande nonno.

M.