Si amarono per tanto tempo ma tutto finì in un soffio.
Lei rimase zittella e lui si sposò con la rivale di lei: Nanin.
Chechin guidava le corriere, anzi, l’unica corriera in quel tempo e, Giuseppina, aveva l’abitudine di aspettarlo davanti al Municipio dove solitamente egli sostava un po’, scambiando quattro chiacchiere con gli amici.
Era sempre più che puntuale e, davanti al Municipio, lo slargo, permetteva di fermarsi, far salire con calma la gente e riposarsi un attimo. La via era lunga. Con la sua corriera percorreva tutta la Valle Argentina partendo da Triora e arrivando giù, fino a Taggia. E davanti al Municipio, a Molini di Triora, c’era sempre lei, la sua Giuseppina, pronta a mandargli un bacio o un sorriso con lo sguardo. Per lei lui era tutto. Era il suo uomo, il suo avvenire, il suo amore.
Il gonnellone di panno scuro, lungo fino alle caviglie, schiacciato contro la ringhiera del ponte, un’ultima toccatina al foulard in testa ed eccolo spuntare. Il muso di un pulmino che aveva corso assieme al torrente Capriolo, apparire dalla curva, dall’albergo Santo Spirito. Il cuore accelerava e gli occhi si socchiudevano allo stridir del freno tirato contro i gradini della bottega di Angela Maria. Il sorriso tremava, e lui, bello come il sole, scendeva dalla sua postazione. Il cappello, la divisa, impeccabile… che uomo!
Nessuna avrebbe potuto portarglielo via. Nessuna, tranne… Nanin.
Nanin alta, bionda, senza foulard sulla testa. Controcorrente, sempre con il sorriso sulle labbra, nonostante quel fare da gran signora. Sempre con la piega appena fatta. Nanin, donna forte, austera. Ciò che voleva, se lo pigliava. Senza troppe parole.
E si prese Chechin. Nanin e Chechin, Gianna e Francesco. Questi i nomi che la gente mormorava. Questi i nomi che il paese aveva imparato ad unire. Ora era l’altra ad essere sulla bocca di tutti per aver conquistato il bell’autista.
Giuseppina artista, pittrice. Innamorata. Viveva di emozioni e sentimenti. Il suo unico vanto era essere la nipote di quello che era stato il medico personale di Carlo Alberto di Savoia. Era il fratello del suo papà. E ora, quella lacerazione inaspettata al suo cuore. Volle vendicarsi Giuseppina. Giuseppina la timida, quella che sembrava sbruffona ma era tanto fragile dentro.
Chechin continuava, ogni giorno, ogni mattina, a scendere dal suo mezzo e a salutare gli amici davanti al Municipio a Molini. Oh sì! Sarebbe sicuramente stata una bella vendetta, quella, da vivere davanti a tutti. In fondo, se l’era cercata, era quello che meritava. E allora decise. Lo aspettò. Ancora una volta, il suo gonnellone di panno scuro, raschiò la ringhiera sopra al Capriolo che scendeva lento quel giorno. Ancora una volta, il foulard sulla sua testa, si muoveva lieve alla brezza. Ancora una volta, il muso della corriera, oltrepassò di poco la bottega di Angela Maria e Chechin scese. Con il sorriso. Con quel suo solito, meraviglioso, sorriso.
Aveva adocchiato i suoi amici stando ancora seduto sull’enorme poltrona. Aveva adocchiato tutti, anche Giuseppina. Sapeva che lei era lì, ma rivolgerle la parola, forse, era farle più male che bene. O forse, sentendosi in torto, non ne aveva il coraggio. Andò dritto dagli altri quindi, senza considerarla. Ma non aveva calcolato quanto una donna innamorata e ferita può cambiare. E allora, senza immaginarlo, si sentì picchiettare sulla spalla, si voltò e “Ciaf!“. Lo schiaffò arrivò sul suo viso improvviso e sicuro. Deciso, senza titubanze. Chechin guardò la donna negli occhi tremuli. Più bassa di lui di un bel po’. La donna che un tempo era stata sua. La guardò un poco e poi “Ciaf!” ricambiò ciò che aveva ricevuto guardando quegli occhi sbarrati e mormorando una sola frase – Amor, con amor si paga! -.
Il tutto, davanti al Municipio di Molini, nel centro del paese.
M.