Dai granai della Valle alla tavola: la trasformazione del grano e di te

Topi, qualche volta capita che, anziché invitarla io, sia Maga Gemma in persona a chiedermi di andare da lei a consumare un pasto salutare e genuino. E, cercate di capirmi, come posso rifiutare tanta gentilezza?

Ebbene, ieri ho avuto il piacere di essere ospitata a casa sua. Mi sono seduta al suo tavolo, avvolta dai rivoli di fumo dell’incenso, e mi sono preparata ad ascoltare quello che avrebbe voluto insegnarmi. Quando si parla di Maga Gemma, infatti, c’è sempre qualcosa da imparare, statene certi!

tavola apparecchiata - occasione speciale

«Mia cara topina, sai perché ti ho invitata da me, oggi?»

Ho scosso la testa, così lei ha continuato: «Perché desideravo parlarti di una cosa che credo sia molto importante.»

«So che può sembrare strano, detto da me, ma sono tutt’orecchie!» ho ribattuto.

La Maga ha sorriso: «Molto bene. Come sai, la Natura può essere nostra Maestra in moltissime occasioni. Nessuna creatura terrestre può sottrarsi alle sue regole e ai suoi influssi, che influenzano ogni cosa. A dire il vero, volendo essere precisi, non è solo la Terra a influenzare le creature che la abitano: i pianeti, le stelle e l’Universo intero hanno potere sull’Esistenza.»

Pendevo già dalle sue labbra, topi! Non ho fiatato, l’ho lasciata continuare, perché volevo capire dove volesse arrivare con quei discorsi grandiosi.

«Adesso, per esempio, ci troviamo in un momento dell’anno molto particolare…»

I suoi occhi mi hanno interpellata, così ho cercato di dire la mia: «Sì, siamo in Estate!»

«Esatto, piccola amiche. Ma anche l’Estate ha in sé diverse energie.»

Questa Maga mi fa sudare freddo, con le sue domande a trabocchetto: «Be’, è la stagione dei frutti…» ho risposto.

«Proprio così, ma è anche molto altro. Conosci il motto “Come sopra, così sotto; come dentro, così fuori; come l’Universo, così l’Anima“?»

Ho riflettuto un attimo su quella specie di indovinello appena ascoltato, poi ho scosso la testa: «No, non mi pare di averlo mai sentito.»

«Era proprio qui che volevo arrivare. Forse non avrai mai udito le parole umane di cui ti ho resa testimone poco fa, ma sono sicura che tu in realtà le conosca profondamente: sei una bestiolina e, come tale, sei molto sensibile ai cambiamenti della Natura, molto più di quanto lo siano gli esseri umani, ormai offuscati dai loro pensieri e spesso dormienti. Il moto del nostro pianeta intorno al Sole ha fatto sì che il nostro emisfero lo scorso giugno entrasse nella stagione in cui ci troviamo tuttora, l’Estate. L’energia dapprima euforica di questo periodo, data dal Sole che con i suoi raggi ci scalda e permette alla Natura di rinascere, ora, sul finire di luglio, assume sfumature differenti. E’ tempo di trasformare i doni preziosi della Natura, lo sai bene anche tu.»

«Ah sì, è vero! E’ tempo di conserve e provviste, sia per gli esseri umani che per noi animali del bosco.» ho detto entusiasta, credendo di essere entrata meglio nel discorso che voleva farmi la Maga.

Grano

«Proprio così. Ed è la Trasformazione, quella di cui voglio parlarti oggi.» Dicendo così, mi ha porto del pane fragrante. Era tiepido, sfornato da poco, e aveva un profumo e un aspetto indescrivibili. «Per lungo tempo, qui in Valle Argentina, le coltivazioni di grano hanno arricchito i pendii delle montagne con il loro colore oro. Che tinta meravigliosa, topina! Quello del grano è l’oro della rinascita, del Sole che sorge al mattino con tutte le sue potenzialità. E’ la nuova Vita in tutta la sua prorompenza.»

«Il mattino ha l’oro in bocca, come dice il detto popolare!»

«Esatto, ed è davvero così. Come ti dicevo, il grano era protagonista indiscusso dei nostri luoghi…»

«Sì, non per niente Triora era il granaio della Repubblica di Genova» l’ho interrotta per la seconda volta.

farina

Maga Gemma ha annuito: «E non solo! Tutta la Valle abbondava di una qualità di grano particolare e unica per le sue proprietà. Il nostro grano sfamava gran parte della Liguria, e arrivava fino alla Francia. Questa ricchezza si traduceva anche in un’infinità di mulini, i quali funzionavano grazie allo scorrere del torrente Argentina e alla forza della sua acqua. Ora non esistono più, ma un tempo il grano veniva macinato nei numerosi mulini che hanno dato il nome al borgo di Molini di Triora, ma ce n’erano anche in altre località della Valle. Lì si macinava il grano che con fatica veniva raccolto e trebbiato, è in quei luoghi che avveniva la prima Trasformazione: dal chicco si ricavava la farina, e la farina è l’ingrediente essenziale di una pietanza che, come abbiamo già avuto modo di dire io e te, viene consumata quotidianamente.»

pane grano valle argentina

«Certo, il Pane!» ho esclamato.

«Oh, bene! Il Pane è la seconda Trasformazione.» A questo punto, ha spezzato la profumata pagnotta, sfoggiandone l’interno. Aveva lievitato proprio bene, perché l’impasto era ben forato e leggero. «Il Pane, per la gente di questi luoghi, era una ricchezza. Era ed è ancora un vanto, un simbolo di abbondanza e ringraziamento. Col Pane sulla tavola si rendeva Grazie a Madre Terra per il raccolto appena svolto, ma anche a Dio, che permetteva all’uomo di sopravvivere grazie ai doni della Terra che lui concedeva ai propri figli.»

spezzare il pane

«Nel Vangelo al quale gli umani si affidano si dice che Gesù spezzò il Pane e rese Grazie, dicendo che esso è il corpo del figlio di Dio offerto in sacrificio per l’umanità.» La Maga, con quel gesto, mi aveva ricordato le parole che ho udito tante volte recitare passando nelle vicinanze delle chiese. Anche se una topina come me non appartiene alle religioni degli uomini, non ho potuto fare a meno di notare l’analogia tra Gemma e le gestualità dell’eucarestia.

«Ecco, brava, hai fatto proprio una bella considerazione. Il Pane è il corpo della Terra, possiamo leggere così questo passo del Vangelo. E il corpo della Terra, come sapevano bene le antiche popolazioni, è anche quello di Dio, dell’Energia Universale che tutto pervade. E’ un corpo trasformato, poiché dal seme è stata tratta la farina per plasmare poi una forma nuova. E arriviamo così alla terza e ultima Trasformazione…» Mi ha offerto una metà di quel suo pane invitante e io l’ho preso tra le zampe tremanti di emozione. «Riesci a dirmi quale sia? Non mangiarlo, aspetta ancora un momento.»

pagnotte

«Credo… forse la terza Trasformazione avviene dentro di noi?»

«Bravissima! Con il gesto di portarci il Pane alla bocca, introduciamo in noi il frutto della trasformazione, dell’abbondanza e della gratitudine. Ecco la chiave per attraversare nel modo più giusto questo periodo dell’anno. Purtroppo non tutti lo sanno, ma sono sicura che tu saprai fare in modo di divulgare questa importantissima conoscenza. Mangiando il Pane con consapevolezza, possiamo portare dentro e fuori di noi la trasformazione che vogliamo vedere avverata. Ci poniamo nella condizione di ricevere abbondanza, ma possiamo ottenerla davvero nella nostra vita solo se utilizziamo l’ingrediente fondamentale: la Gratitudine. “Spezzò il Pane e rese Grazie”, dice il Vangelo. Se si è in grado di ringraziare per ciò che non si è ancora ottenuto, per ciò che si possiede già e, meglio ancora, ringraziare incondizionatamente, avverrà in noi la terza trasformazione. Come in alto, così in basso: i moti celesti hanno condotto la Terra e i suoi abitanti in questo periodo stagionale, e noi risentiamo delle sue energie. Come dentro, così fuori: mangiando il Pane, che è il frutto della trasformazione, possiamo trasmutare la nostra realtà interiore ed esteriore. Come l’Universo, così l’Anima: l’Energia di questo momento ci spinge a ringraziare e a godere appieno di quello che abbiamo conquistato con fatica. Ti è più chiara, ora, l’affermazione che ti avevo presentato all’inizio?»

«Sì, Maga Gemma, ed è veramente fantastica! Ora il Pane assume per me un significato nuovo, ancor più importante. Grazie per questa condivisione, ti sono profondamente grata.»

«Brava, vedo che ti sei messa sulla giusta lunghezza d’onda per la serata che avevo in mente. Mangiamo, ora. E ricorda: queste caratteristiche si protrarranno fino al periodo autunnale, quando ci sarà un nuovo simbolo trasformativo di cui parlare…»

«… il Vino!»

«Esatto. Buon appetito, piccola amica. E che la tua Trasformazione sia grandiosa!»

Con quelle parole, Maga Gemma ha toccato delle corde talmente profonde dentro di me da lasciarmi senza squittii. Il suo augurio, topi, lo rivolgo a voi quindi. Fate tesoro di quello che avete imparato fin qui, mi raccomando!

Accade anche questo

Quando Archelfo, ieri, ha commentato il mio post sulle streghe, mi ha chiesto di raccontare una cosuccia che mi è capitata, anzi, che forse ho fatto capitare, qualche anno fa.

Stavo camminando per strada e quell’uomo, brutto e cattivo come la peste, mi guardava passando con una specie di piccolo trattore e sogghignava. Stava seduto, col suo cappello di panno sopra una di quelle vetture con le quali si va nell’orto, era come un motore con dietro un piccolo cassone completamente arrugginito. Io lo guardavo, lo detestavo e dentro di me dicevo: «Ma ti scoppiasse una gomma, defi….e!».

Non c’era un motivo particolare, era solo un uomo odioso, spocchioso e superbo e io non lo potevo vedere.

Mi sono spaventata io stessa perché, non appena ho terminato la frase, ho sentito come uno scoppio sordo e forte. La ruota del suo trabiccolo era scoppiata davvero! Non era esplosa, ma dopo quel botto si stava accasciando al suolo e il trattore si era inclinato così tanto che l’uomo, bestemmiando in piemontese, era dovuto scendere. Ovviamente andava pianissimo, a passo d’uomo, con quel trabiccolo.

«Boia faus! L’è n’en pussibl na f’è parei! Cuma diau….» e boia di qui e boia di là.

Corsi a casa a raccontare a mia madre l’accaduto, perché ero veramente impressionata da ciò che “avevo combinato”! Ebbene sì, mi davo la colpa dell’accaduto, e cose come questa me ne sono capitate parecchie nella vita (non di augurare fattacci e disavventure, ovviamente, quanto piuttosto di immaginare cose o sentirle e poi vederle accadere).

Noi topini siamo sensibili. Ma non è di questo che volevo parlarvi, si tratta sempre di una vicenda, bellissima, che mi è accaduta quando ero bambina, un po’ incomprensibile anch’essa, ma che porto tutt’ora nel cuore. Non c’entra con le coincidenze o lo sperare di riuscire in una cosa, ma è comunque affascinante per la mente e per tutto quel che nasconde, non solo lei, ma anche quelle forze, sesti sensi – chiamateli come volete – in cui viviamo.

Avevo 7 anni. Era estate e tutti gli anni da giugno a settembre andavo ad Andagna, un bellissimo paesino della mia valle, con una zia a passare le vacanze. Era un po’ il mio secondo paese.

Andagna era un posticino tranquillo, contava – e conta ancora oggi – poche anime. Tutti mi conoscevano e sapevano dov’ero, quando invece la mia povera zia non riusciva a trovarmi e mi cercava ovunque. Verso i primi giorni d’agosto di quell’anno, arrivò in paese un cane. Assomigliava a un lupo, col suo pelo castano chiaro e scuro. L’arrivo di un cane ad Andagna mise la gente in agitazione perché era un essere “nuovo”, che non faceva parte della… comunità. Tra l’altro dovete sapere che nella mia valle era usanza, per educare, o meglio, spaventare i bambini, parlare del lupo come dell’uomo nero. Era per questo che quel cane, fin dall’inizio, non piacque a nessuno. I vecchi borbottavano tra loro nel nostro tipico dialetto:

«Ma de chi u l’è stu can? Ti u sai?»

«Da dundu u l’è sciurtiu?»

«U l’è sporcu, u saeà anche cativu, a gu u lezzu in tu u sguardu cu l’è cativu!»

E, ovviamente, i bambini non erano da meno, sentendo gli adulti parlare in quel modo. Gli tiravano le pietre, lo canzonavano, nessuno si ci avvicinava, ma da lontano gliene dicevano di tutti i colori.

Eppure lui non se ne andava. Stava spesso in un sottotetto in piazza, dove noi bambini giocavamo. Alto, lontano da noi, sopra una casa a due piani.

Riusciva a passare di lì perché la casa, da dietro, poggiava sulla terra. I due piani dell’edificio erano percepibili solo da un lato. Da lassù ci guardava, schivando le pietre o i ricci di castagne d’India che Franco e il Mago con la compagnia gli tiravano.

I suoi occhi nocciola, guardando il sole, diventavano rossi come rubini e fu così che venne nominato presto “il cane del diavolo”.  Fortunatamente, gli anziani del posto, parlavano tanto, ma agivano poco, perché comunque nessuno ha mai fatto del male, seriamente, a quel randagio. A noi ragazzini, però, faceva paura e poi, sapete come sono i bimbi, da una goccia, ne fanno un mare.

Ricordo che un giorno, nei giochi della piazza mentre dondolavo sull’altalena, da sola, lui arrivò, si fermò dall’altra parte del parco e si mise a guardarmi. Io, me ne andai. Ebbi timore: e se tutto quello che dicevano fosse stato vero?

Un pomeriggio ero con le mie due amiche a giocare. Erano due bambine buone come il pane, mezze francesi e mezze italiane, rosse di capelli e con le lentiggini. Una era più grande di me, l’altra più piccola. Eravamo sempre insieme.

«Andiamo alla villa a far da mangiare!»

Andiamo.

La villa era un’enorme casa abbandonata, disabitata da anni, dietro la chiesa del paese. Avete presente quelle case nei film, con quei portoni di legno massiccio, il cancello chiuso con catena e lucchetto, e davanti l’erba, incolta, alta più di un metro? Ecco, quella catapecchia era uguale. Per noi, far da mangiare, significava mischiare fiori, foglie di menta con sabbia e acqua e preparare delle torte. Nel cortile di questa casa fantasma avevamo trovato delle pentole e delle bacinelle. Andavamo lì tutti i giorni e dovevamo passare da un buco nella rete della recinzione. Ci sedevamo sotto quel portone tarlato e iniziavamo a impiastricciare, fingendo di essere delle comari che si invitavano a cena l’una con l’altra.

Fu una di quelle volte che accadde.

Stavamo sedute in cerchio tutte e tre, io e le due sorelle rosse. Io davo la schiena al portone chiuso a chiave e loro erano una di fronte a me e l’altra di lato, un po’ più distante, perché era sempre senza “ingredienti” e quindi preferiva sedere vicino all’erba per la mancanza di voglia nel doversi alzare ogni due minuti. Io, di quel momento, ricordo solo che stavo pestando delle foglie con una pietra. Rammento anche all’improvviso il forte, fortissimo, urlo di Marie: «PIGMY!».

Non vidi più nulla, sentii soltanto come una forza che mi sballottava, trascinava, non lo so nemmeno io. Gli altri “Pigmy” di Marie li sentii in lontananza.

Sapevo di avere gli occhi aperti, ma non vedevo nulla, solo dopo capii.

Un’immensa nuvola di polvere e fumo grigia mi circondava, non vedevo nemmeno le mie mani. Ero ancora seduta a terra, ma non ero più nello stesso punto.

Quando la nebbia si diradò, ero a circa 7-8 metri di distanza da dov’ero prima. 7-8 metri li ho nei miei ricordi di bambina, potevano essere meno o forse di più.

Marie era dall’altra parte del giardino, nemmeno lei era più sotto il portico, mentre sua sorella ferma, nella stessa posizione, con in viso un’espressione di shock totale. Era come inebetita. Marie mi corse incontro, tentennò un po’ ad avvicinarsi, ma poi mi abbracciò e ricordo la sua manina mettermi i capelli dietro le orecchie. Ogni tanto guardava dietro di me. Dopo un po’ mi voltai anch’io.

Dietro di me, a un palmo da dove mi trovavo, c’era “il cane del diavolo” che ansimava con la lingua a penzoloni. Ricordo ancora il suo fiato caldo nella testa. Rabbrividii, sembrò quasi che la mia amica lo capì.

«Ti ha trascinato fin qui!» mi disse.

In quel momento capii cos’era successo. Il mastodontico portone crollò di colpo. Quel cane doveva già essere lì, ma noi non l’avevamo visto, altrimenti come altro aveva fatto? Se lui non mi avesse trascinata, con la bocca, più in là, quel portone mi avrebbe uccisa. Era veramente pesante, quella porta, e io avevo appena sette anni.

La mia camicia a quadri rossi e marroni era strappata all’altezza della spalla, così come il colletto. I segni dei suoi denti mi avevano graffiato, ma non mi usciva sangue, avevo appena una spellatura e qualche piccolo livido sottostante. Tra i suoi denti c’erano i miei capelli.

Spontaneamente, lo accarezzai. Dopo di me, venne il turno di Marie, anche lei lo accarezzò. La sorella di Marie, Cristina, continuava a stare seduta là, non era nella traiettoria del portone. L’unica che l’ha visto scendere, sbucare all’improvviso e portarmi via fu Marie, che dava la faccia al portone ed era riuscita a scansarsi.

Ero piena di polvere. Andai a casa di mia zia, il cane sempre dietro. Raccontai tutto a quella donna che mi ascoltava con la testa tra le mani e continuava a dire: «Oh! U me pulin!», che in italiano significa il mio pulcino. A parte la mia espressione, ero con le mie testimoni e utile mi fu, in questa storia incredibile, lo strappo sulla camicia e il segno dei denti. La saliva. Il bottone mancante. Mia zia uscì fuori, ai tempi la porta di casa si teneva sempre aperta e gli diede da bere e due biscotti che mangiò perché lui non entrò mai in casa nostra, stava fuori ad aspettare.

Da quel giorno, stette sempre con noi e sempre nella villa a preparare da mangiare. Ormai il portone era caduto, pensavamo noi, anche se ci avevano vietato di ritornarci. Il Mago gli tirò un altro riccio di castagna e io lo morsicai nella schiena forte, come non ho mai morsicato nessuno. Il Mago si girò e mi tirò un calcio, così potente nella pancia che non respirai per un quarto d’ora, ma il segno dei miei denti, secondo me, ce l’ha ancora adesso.

Un giorno il cane sparì, non lo vedemmo più per un po’, poi ritornò, lindo e pulito, spazzolato e profumato. Allora, forse, era di qualcuno! Ma di chi?

Dissero che era di un pastore di Molini, ma senza alcuna certezza. Stette con noi tre tutto il pomeriggio, ero convinta di rivederlo l’indomani, ma non lo vidi mai più. Non venne i giorni a seguire, né l’anno dopo, non venne più.

Non ho sognato. Mia zia tenne la mia camicia per tanti anni, poi, chissà cosa ne hanno fatto le mie cugine, che con ogni probabilità la consideravano cianfrusaglia.

Sono passati 26 anni, ma ricordo tutto come se fosse accaduto ieri. Il rumore, l’odore di cane, la polvere, Marie. Di quel giorno penso di aver capito molte cose e altre, invece, come i giri della coincidenza, non voglio nemmeno capirli. Eppure una cosa mi è rimasta nella testa, alla quale mi piacerebbe dare una spiegazione. Dov’era? Come faceva a essere lì senza che noi lo vedessimo? Da dove è uscito così all’improvviso? E chissà da quanti giorni stava lì con noi.

Ti ricordo ancora.

Pigmy.

M.