L’Incidente del Junker JU 88 sopra Rocca Barbone

Cari Topi,

finalmente ritorno a scrivere, con immenso piacere, dei luoghi che amo e degli avvenimenti che li riguardano. Ho pensato di ricominciare con un post che da parecchio volevo pubblicare.

Tempo fa vi raccontai di un fatto eccezionale accaduto nella mia Valle il 28 giugno del 1942.

Da come avrete già capito dalla data siamo nel tempo della Seconda Guerra Mondiale e il fatto del quale vi raccontai qui https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2019/05/20/lincidente-aereo-contro-rocca-barbone-o-quasi/ tratta di un insolito incidente aereo avvenuto sopra la famosa Rocca Barbone; chiamata da noi della Valle Argentina – Rocca Barbun -.

A quel tempo scrissi un articolo in base ai racconti di un caro topoamico ma, col passar dei mesi, parlando con un altro topo della mia zona, venni a scoprire ulteriori precisazioni sull’accaduto.

Ricapitolando: un aeroplano, più precisamente un bombardiere bimotore ad ala bassa, siglato JUNKER JU 88, costruito dall’azienda tedesca Junkers GmbH intorno agli anni ’30, andò a schiantarsi sopra a Rocca Barbone, più o meno tra le falesie di Garlenda e del Cimonasso. Cioè contro la Catena Montuosa del Saccarello che abbraccia la fine della mia Valle.

Rocca Barbone, come già vi avevo spiegato, è un dente anomalo che cresce al di sotto dei crinali più alti di questo tratto della Liguria di Ponente.

Il pilota, convinto che la Rocca fosse l’ultima altezza da superare, non si accorse che, al di sopra di essa, altre montagne lo stavano attendendo e, ahimè, andò a schiantarsi proprio contro quei crinali impervi.

Il fatto è che vi raccontai che c’era appunto soltanto il pilota. Ebbene, non fu così! I membri dell’equipaggio erano ben quattro. Anzi… tre di sicuro, perché vennero trovati i loro corpi ma l’aereo era a quattro posti e difficilmente non venivano impegnati tutti in quei frangenti.

Questa testimonianza giunge proprio dalla gente di Realdo che si precipitò sul luogo dell’incidente individuando i tedeschi nemici ormai privi di vita.

Ma cosa accadde quando molte persone della Valle, oltre ai realdesi, si recarono in quel luogo? Accadde che – tutto quel materiale – non era certo da buttare via. Siamo in tempo di Guerra Topi, non dimenticatelo, ogni cosa poteva essere o poteva diventare una vera ricchezza.

Alcune parti del velivolo finirono (e ci sono tuttora) nel Museo della Resistenza di Costa (Carpasio) ma altre parti vennero prese e lavorate dalla povera gente che, con quelle, si costruì attrezzi e arnesi per la propria quotidianità.

Si tratta di materiale ottimo, lamiere difficili da trovare e se alcune parti di quell’aeroplano divennero delle porte, altre divennero coperchi per pentole.

Le pentole dei nostri nonni.

Non solo, all’interno di quell’abitacolo si trovarono anche diversi oggetti come: proiettili, sacche, lucchetti… e tutto poteva tornare utile a chi non aveva niente.

Mi sono sentita di precisare questo racconto perché è per noi della Valle davvero un fatto insolito e incredibile. Tenendo anche conto che i fatti riguardanti una Guerra lasciano sempre un gusto particolarmente amaro in bocca.

Ciò non toglie ch’io sia contenta di avervi potuto raccontare, in modo più preciso, questo fatto e per farlo ho utilizzato la splendida conoscenza di Francesco Barucchi che è anche il proprietario delle foto che vedete nell’articolo.

Un uomo che ringrazio tantissimo perché, sulla Valle Argentina, conosce davvero tanti avvenimenti e aneddoti inerenti soprattutto a un tempo che fu e che sarebbe un gran peccato andasse a finire nel dimenticatoio. Quindi tengo molto a questa amicizia.

Io, dopo avervi dato queste precisazioni, vi lascio le immagini da osservare perché vado a preparare un altro post per voi!

Alla prossima e vi prometto che il nuovo articolo parlerà di cose più allegre.

Uno squit bacio!

La foto del velivolo è stata presa da Wikipedia.

L’incidente aereo contro Rocca Barbone… o quasi

Cari topi, oggi sono venuta a conoscenza di un aneddoto inerente alla Valle Argentina davvero curioso anche se molto triste. ​Non ho potuto appurare nulla e mi baso sul racconto di una cara persona mia amica, quindi, se qualcuno conosce qualche dettaglio in più, sarei felice di saperlo. ​

Narra la storia che, in tempo di Guerra, un aeroplano si schianto’ contro Rocca Barbone ma, in realtà, andò a sbattere contro la cresta di due monti prima del Saccarello, ossia dietro Rocca Barbone.

Il pilota, un tedesco in fase di ricognizione, innalzo’ il velivolo ulteriormente rispetto alla quota che stava mantenendo convinto che la Rocca fosse l’ultima vetta da superare ma, invece, non si alzò abbastanza. Ciò a causa della nebbia che spesso è presente sul profilo di questa catena montuosa. Rocca Barbone, questo dente roccioso anomalo, questo spuntone “in più”, lo ha ingannato.

La gente del posto, dopo aver udito un grande boato, si recò sul luogo della tragedia e c’è chi dice che, alcuni, fecero man bassa di quello che trovarono.

Una testimonianza certa però la si ha nel Museo della Resistenza di Costa (Carpasio) dove, ancora oggi, pare sia custodita un’ala di quell’aereo.

Nessuno può sapere se quell’uomo si accorse o meno di ciò che gli stava succedendo. Se ebbe paura, o se morì senza rendersene conto ma una cosa è sicura, lasciò sgomenti i suoi parenti.

Vi posso dire questo perché, tempo dopo, una donna portata a passeggiare in quei luoghi, arrivata in quel punto, versò tutte le sue lacrime.

Era la sorella del pilota che, con profonda tristezza, si trovava nel punto in cui il fratello, anni prima, aveva perso la vita a causa di un qualcosa di più grande di tutti noi.

I miei monti abbracciano e accolgono tante storie come questa, custodendole caramente nel loro cuore e permettendo loro di uscire soltanto attraverso i ricordi e la voce di persone che hanno vissuto eventi passati.

Queste montagne, che trattengono segreti e che per questo le considero ancora più affascinanti.

Quello che hanno visto, che hanno sentito, oggi offuscato da una natura dalla rara bellezza.

Andando oltre, si scoprono tratti di vita che oggi non conosciamo e nemmeno possiamo immaginare, ma ci sono stati e sono ancora là, fermi su quei monti che con braccia invisibili li trattengono.

E io invece abbraccio voi aspettandovi per la prossima storia…​ ​

Il Ponte di Mauta

Che meraviglia, topi miei!

Qui nella mia Valle ci sono tantissimi ponti, sono antichi, veri e propri monumenti storici che resistono con tenacia allo scorrere del tempo, e spesso ve ne ho parlato.

Oggi voglio farvi conoscere meglio il Ponte di Mauta, proprio sotto quello gigantesco e colossale di Loreto.

ponte di mauta triora loreto

E’ romanico e il suo arco è lungo ben sedici metri. Sopra di esso svetta il capolavoro di architettura moderna che dal 1960 è divenuto uno dei simboli della Valle Argentina. Prima del ponte di Loreto, a essere usato era quello di Mauta, immerso nel bosco e invaso da rampicanti che lo incorniciano tutto, come fosse un quadretto. Sotto di lui scorre in gole profonde il torrente Argentina. Non si può descrivere la bellezza di questo luogo, il cuore palpita dall’emozione guardando in giù, affacciandosi dal basso parapetto per raggiungere con lo sguardo l’acqua scura che scende impetuosa a valle, con innumerevoli giochi d’acqua, curve e sfumature. L’Argentina pare contorcersi, è facile rassomigliarlo a un serpente che striscia via, lontano. La natura rigogliosa pare voler proteggere il ponte e il corso d’acqua, li abbraccia, impedendo di godere appieno della loro vista.

torrente argentina forra grognardo ponte mauta

Un tempo era temuto, questo luogo. Il bosco era ritenuto la dimora di creature malvagie, demoni e streghe. Qui la vegetazione si faceva – e si fa – più fitta e quel torrente scuro per via della luce del sole che fatica a sfiorarlo divenne con facilità il luogo prediletto per le congreghe delle bàzue. Più in basso del ponte di Mauta, dove l’Argentina si incontra con il Rio Grognardo, si forma una conca d’acqua celebre e conosciuta come Lago Degno. Ve ne ho già parlato altre volte, per cui non mi soffermerò a farlo ancora.

E’ un luogo suggestivo, uno dei più belli della mia Valle, non esagero! In questa stagione, poi, credo dia il meglio di sé in quanto a colori.

Qui convergono le mulattiere del Langan, in un antico sentiero che permette di raggiungere addirittura le Cime di Marta e il Monte Gerbonte. Fino agli anni Sessanta del Novecento – non molto tempo fa, quindi – il Ponte di Mauta rappresentava l’unico collegamento con Cetta e passaggio per raggiungere la vicina Val Nervia e la Francia. Sono percorsi ancora oggi praticabili, di cui il ponte è un crocevia. Risalendo il sentiero poco prima di esso, si può giungere a Loreto, tornare a Triora, oppure andare avanti per Creppo, Bregalla, Realdo e Verdeggia. Proseguendo, invece, si giunge a Cetta oppure a Molini di Triora.

Un ponte importante, insomma, anche se oggi è stato quasi dimenticato per il suo cugino più moderno. Eccolo qua, il contrasto tra i due: il parapetto di pietra del vecchio confrontato col cemento in lontananza del nuovo. Che strano effetto fa, non trovate?

ponte di mauta e ponte di loreto

Il Ponte di Mauta è conosciuto, invece, da chi pratica canyoning nei torrenti della Riviera dei Fiori, uno sport che consiste nella discesa a piedi di corsi d’acqua che scorrono in gole strette e modellate nella roccia, formando cascate. Da Loreto, infatti, un cartello  esplicativo sulla Forra Grognardo riporta tutte le regole e le caratteristiche del percorso torrentistico, segno della grande frequentazione del luogo da parte di appassionati.

Nei pressi del ponte è stata posta una lapide a ricordo di un giovane che qui perse la vita per via di una caduta accidentale che gli fu fatale. Per la precisione, su di essa si legge:

A Roberto Moraldo di anni 17 da caduta mortale decedeva il 14.09.1927. I genitori e parenti inconsolabili posero.

lapide ponte di mauta

Eh, topi, bisogna fare attenzione alle pendenze di questa zona, purtroppo. Lo strapiombo è notevole, non lo si può negare, intimorisce per la sua profondità. Un tempo non era sicuramente difficile che questi incidenti accadessero, ma oggi, per fortuna, sono facilmente evitabili e, con la giusta prudenza, possiamo godere del panorama mozzafiato che questo angolo di Valle Argentina offre ai nostri occhi.

Vi mando un vertiginoso saluto!

La vostra Pigmy.

 

Pigmy Jones e il muretto impraticabile

Eccomi qua, pronta a raccontarvi la mia ennesima topoavventura. Questa volta, il primo che ride lo banno e non lo faccio più entrare nel blog, sappiatelo.

Allora, l’altro ieri, un bel pomeriggio di fine aprile, Pigmy e tutta la sua allegra famiglia di topolini decidono di andare a fare una bella scorpacciata in montagna. Una volta riempite le pance, avrebbero camminato lungo un bellissimo sentiero nel bosco fino a un santuario in mezzo a un prato, dove i cuccioli avrebbero sicuramente dato sfogo alla loro felicità.

Portiamo con noi il nocciolo-pallone. Chiunque avrebbe volentieri dato due calci a quella cosa pseudo-sferica che ruzzolava un po’ ovunque. Arriviamo davanti alla chiesa. Le piante, i fiori e il panorama sono bellissimi e, davanti al santuario c’è una bellissima Madonna azzurra che…. avrebbe dovuto benedirmi, ma probabilmente quando mi ha visto si è girata dall’altra parte.

Avrei visitato volentieri l’interno della chiesa, ma era chiusa, per cui, dopo averci girato intorno, ci siamo accomodati sulle panchine di legno mentre i piccoli giocavano instancabili. A un certo punto, il pallone scappa sopra a una sorta di alto terrazzamento. Un muro di pietre e delle rocce lo frenano e il pallone rimane incastrato tra le radici delle piante. Con un lungo bastone riusciamo a tirarlo giù per ben due volte. La terza volta, ahimè, il pallone, vola ancora più in alto, nella boscaglia e il bastone, a quel punto, non serve più. Bisogna arrampicarsi su quel muro, alto quasi tre metri, e arrivare così ai piedi del bosco.

Chi parte per arrampicarsi? Io, naturalmente. Tsk! Che problema volete che ci sia? Sono cresciuta arrampicandomi ovunque: alberi e muri, per me, non hanno mai avuto segreti.

Vado tranquilla. Primo piede, mano. Secondo piede, mano… l’agilità di una topina è indescrivibile, ve l’assicuro. Et voilà, arrivo in cima in un batter d’occhio, nessun problema, ormai ho da fare l’ultimo slancio di gamba per poter davvero dire di essere  nel bosco. Lo slancio l’ho fatto, sì, peccato che l’ultima pietra sulla quale poggia il mio piede fuoriesca da quel perfetto puzzle tridimensionale. Cade al suolo, lasciando entita il vuoto sotto di me. Mi faccio forza con le zampe anteriori, ma la pietra, creando un buco nel muro, fa sì che tutte le altre pietre la seguano.

Sono riuscita a devastare un’opera d’arte di anni e anni fa.

Cado come un sacco di patate, tre metri di volo. Rovino per terra, le pietre tutte addosso e ovunque intorno a me. Picchiano così forte da sembrare una lapidata, in quel momento. Topobabbo con la sua topocompagna e i topini rimangono letteralmente senza parole.

Mi rialzo in men che non si dica per non farli spaventare. Topino stava già per mettersi a piangere e allora mi son messa a ridere prendendomi in giro da sola. Topina, invece, assorta com’era a contemplare una mosca, della mia rovinosa caduta non je ne poteva frega’ de meno. Che donna! Anche topobabbo, per cercare di salvarmi si è preso qualche pietra addosso, ma per fortuna non è successo niente di grave.

Non mi sono fatta nulla e quindi, imperterrita, torno a riprendere il pallone che era ancora là. Questa volta devo passare dalla roccia rimasta, non ho altra scelta. Mi arrampico nuovamente ed eccomi in cima, come una conquistatrice testarda pronta  a prendere la palla colorata.

Mi accuccio per afferrarla con le mani e, all’improvviso, tutto il mio braccio, la mia coscia e il fianco iniziano a riempirsi di un sangue rosso vivo che gocciolava, anzi sgorgava, incessante… dalla mia testa! Niente panico… l’unico problema sono i topini, provo a evitargli la scena, ma è così copioso che tutti gli altri topi non pensano ad altro che a me.

Ridiamo loro il pallone e li mandiamo a giocare, ma non sono intenzionati a obbedire. Topino accorre alle borse per cercare dei fazzolettini di carta. Il mio amore… (topini svezzati e pronti a tutto). Tutti mi prendono e mi buttano la testa sotto una fontana di  acqua ghiacciata. Per fortuna!

Topobabbo è preoccupato, non riesce a capire da dove esca il sangue perchè è così tanto che sono completamente rossa ovunque: testa, orecchio, collo, capelli… tutto. Mi lava, mi tiene premuta la ferita… insomma, è eccezionale, considerando che anche lui ha un polso gonfio per via di una pietra che gli si è rovesciata addosso nella mia caduta. Decidiamo di tornare indietro e la gentilissima coppia di gestori del ristorante nel quale abbiamo mangiato mi offre del ghiaccio. Non voglio altro, capisco di stare bene e, dopo circa un’ora, la ferita inizia a rimarginarsi. Ora scende solo una gocciolina di sangue ogni tanto.

Dallo zampillo che faceva prima, sembrava quasi che qualcuno avesse sgozzato un vitello! Non immaginavo che da un taglietto in testa potesse uscire così tanto sangue. Probabilmente, oggi il santuario non ha voglia di essere rimirato, oppure non ci sono più i Romani che fanno i muretti come si deve.

A parte gli scherzi, quel muro dietro era vuoto, mai visto un muretto così. Anche le nostre terrazze sono pietre appoggiate soltanto, ma sono ancorate al terreno… Babbo dice che quelli si chiamano muri morti. Ho imparato una cosa nuova e pensate che, prima di andare via, abbiamo anche dovuto ricomporlo, altrimenti guai a lasciare davanti a un luogo sacro uno scempio simile: i miei amici della valle mi avrebbero inseguita per mari e per monti.

Comunque io sto bene, davvero. mi sento solo la schiena e la gamba un po’ indolenzite, ma la testa sta bene. Ce l’ho dura! Per ora, dunque, posso ancora continuare  a scrivere i miei post.

Va be’, dai, prima scherzavo: potete ridere, se volete. Ho riso anch’io pensando alla caduta, perchè credo di essere stata buffissima. Chissà se ho fatto il triplo carpiato? E topobabbo mi ha detto: «Pigmy, te l’ho già detto mille volte che sei un Jerboa e non uno scoiattolo volante!».

Un bacione a tutti!

Vostra Pigmy

M.

Un incidente inaspettato

Per fortuna sono una topolina che ha tanti amici e tante persone che le vogliono bene. Tra tutte queste conoscenze, però, due topine della mia età sono quelle che si definiscono compagne d’avventure e sono proprio loro a partecipare alle vicende che la vita mi regala di tanto in tanto per non farmi annoiare. Una, come avrete già letto, è stata mia complice nel post “Altro che Halloween!” e non solo, l’altra, invece, sarà protagonista in questo post. Prima, però, devo comunicarvi una particolarità di questa mia amica. Dovete sapere che lei non ha mai, e dico mai, voglia di uscire. Se ci vediamo, è perchè io vado da lei, altrimenti è rarissimo vederla al mio mulino. È una persona che ama la sua tana, la sua campagna, i suoi animali e di andare fuori, in un locale, non gliene frega niente. Anch’io sono come lei, ma più malleabile. Spesso, infatti, mi capita di uscire a cena con un topo-parente o con i topini, alla ricerca di un locale che si differenzia un po’ dai soliti. Ebbene, non ci potevo credere, ma quella sera c’ero riuscita: l’avevo convinta ad andare a bere qualcosa fuori. Un after dinner come ai vecchi tempi, come quando eravamo, sigh, giovani. Una Caipiroska alla fragola, un Margarita, quelle cose alcoliche che bevi due volte l’anno in una piacevole serata tra amici. Dopo mille «Ti prego!» accettò. Non potevo crederci. Alle 21:30 dalla vecchia quercia e poi saremmo andate. Che bello!

Prendemmo il fuoristrada e non la vecchia 500, che è proprio carinissima ma… be’, ve lo spiego dopo.

Salimmo in macchina con lo spirito giusto e la voglia di divertirci davvero. Io e la mia amica, da brave comari, iniziammo a spettegolare del più e del meno.

Avremmo dovuto percorrere un chilometro, forse meno.

Imboccammo la Strada Aurelia, la più larga, la più dritta, quella che collega i vari paesi della costa ligure.

Semaforo rosso.

Ci fermammo. Eravamo in coda, quarti di una fila di macchine.

A un certo punto sentimmo un boato, uno scoppio, un rumore fortissimo, non so nemmeno io come definirlo.

Un attimo di buio. Un attimo di silenzio. Un attimo della vita che mi mancò, che è come se non avessi vissuto.

Poi, guardai lei, la mia amica. Era strana, era… era più alta. No, non lo era, ma non era lì prima… Prima, mi guardava dritto negli occhi ora…

beeeeeeeeeeep, beeeeeeep, beeeeeeeeep….

Che frastuono! Ma cos’era?!

Intorno a me, di colpo, la stessa frase ripetuta più volte da voci diverse e da me stessa «Cos’è successo?», «Cos’è successo?», «Cos’è successo?»

E poi: «È scoppiata una bomba?», «Un palazzo? Una bombola del gas?», «No», «Sì», «No», «Sì».

….beeeeeeeep, beeeeeeep, beeeeeeeep….

È un clacson! Sì, è un clacson!

Ci riuscì il fidanzato della mia amica: «Ci hanno tamponato!».

Era così. Un pazzo furioso, a non so quanti chilometri all’ora, aveva picchiato dietro di noi con una potenza incredibile, così potente da sollevarci, fortunatamente, data l’altezza del fuoristrada e a non schiacciarci come sardine.

Si era infilato sotto di noi, incastrandosi nel motore. Scendemmo fuori dall’auto dopo esserci chiesti l’un l’altro come stessimo. Tutto sommato siamo stati molto fortunati, qualche ammaccatura qua e là, il collo, la schiena, l’anca, ognuno di noi aveva le sue. Nessun dolore all’inizio, quello è giunto il giorno dopo, tremendo. Il pazzo, invece, stava blaterando qualcosa con la faccia spiaccicata contro l’airbag, un rigolo di sangue che gli colava dal naso. L’odore di alcool intorno a lui era impressionante.

L’impatto fu così violento che la nostra auto picchiò contro la terza, la terza contro la seconda, la seconda contro la prima e, pensate, la prima andò a finire nel bel bezzo dell’incrocio! Meno male che nessuno arrivava dall’altra parte, essendoci il verde.

In tutto 12 persone coinvolte. Nell’urto, persi i miei occhiali, non li trovavo più. Al loro posto c’erano due cerchi rossi intorno agli occhi che divennero, via via che il tempo passava, viola, verdi, gialli, grigi.

Intorno a me non vedevo nulla, solo gli aloni delle luci blu lampeggianti di ambulanze e polizia e sentivo il vociare delle persone delle quattro macchine coinvolte.

Le forze dell’ordine e i medici accorsi non sapevano darsi una spiegazione. Ma la parte più bella è che il nostro tamponatore davanti a noi recitò. Fu il terzo e ultimo atto all’ospedale in cui venimmo a sapere che, al momento dell’incidente, era sotto l’uso di alcool e stupefacenti, dove sostituì le sue urine con l’acqua del rubinetto del bagno e dove sfotteva le infermiere cercando probabilmente di conquistarle. Gli avevano tolto la patente già quattro volte, questa era la quinta esperienza della sua vita nella quale aveva rischiato di uccidere o fare parecchio male a qualcuno.

Noi ci siamo salvati grazie all’altezza della nostra auto, se fossimo andati con la 500 della mia amica non sare stata qui a raccontare la nostra (dis)avventura. Buttammo via il fuoristrada. era irrecuperabile. L’ultima visione che ho di quell’uomo, è di lui che corre fuori dal pronto soccorso con i poliziotti dietro, al suo inseguimento, proprio come accade nei film.

Eravamo tutti allibiti. Avevamo preso una botta tremenda, ma eravamo vivi e non ci sembrava vero.

Eravamo fermi a un semaforo e ci siam trovati in ospedale. Eravamo seduti in auto e poco dopo in radiografia.

Eramo tranquilli e… e ora chi la convince la mia amica a uscire di nuovo?

M.