Il Dio Marte abbraccia la Valle Argentina

Col tempo, cercando di conoscere sempre di più la mia bella Valle e i suoi segreti, ho scoperto qualcosa di molto interessante riguardo (secondo me) un Dio della tradizione romana noto a chiunque: il Dio Marte.

Come tutti saprete, si tratta del Dio della guerra, della battaglia, ma anche della tempesta.

Detta così sembra di parlare di un Dio violento e bellicoso, beh… sì, Marte non era certo serafico, ma Priapo insegnò lui l’arte della guerra rendendolo un vero guerriero e rendendolo in grado di rappresentare la lotta per la vittoria, la gloria e la forza della natura tutta, della vita, del movimento. Di quel potere perpetuo che crea e si manifesta.

Molte volte vi ho raccontato di come sia significativo, nelle zone che vivo, questo movimento vitale e, sempre di più, mi sono imbattuta proprio in questo Dio.

Ci tengo a sottolineare che sono soltanto mie supposizioni, non sono uno storico lo sapete, ma quello che ho scoperto serba in sé qualcosa di davvero interessante e penso di non essere poi così lontana dalla realtà…

Realtà… che poi, il termine “realtà”, come sinonimo di “verità”, lascia sempre un po’ di punti interrogativi. Bellissimi punti interrogativi che portano alla scoperta e alla voglia di conoscere, non trovate?

Ma veniamo a noi.

Ad Ovest della Valle Argentina, quindi siamo sui confini che abbracciano il mio mondo, una splendida zona dalla storia assai antica si chiama – zona di Marta – (Marta/Marte).

Perché si chiama così? Alcuni affermano che sia per via dello spettro di una pastorella di nome Marta, caduta in un precipizio, che ancora si aggira di notte per gli infiniti pascoli.

Altri dicono, senza dilungarsi troppo, che sia proprio per onorare il Dio Marte, tenendo conto che quella zona è stata da sempre palcoscenico di guerre e battaglie anche in tempi molto antichi, altri ancora sono sicuri che il nome Marta derivi dal termine scientifico con il quale vengono chiamati due animali molto presenti in questi luoghi; si tratta di due mustelidi molto astuti, veloci e avidi: la Martora e la Faina, rispettivamente “Martes martes” e “Martes foina”.

Io li trovo simpatici entrambi ma non hanno una bella nomina. Vengono ritenuti subdoli, bellicosi, scaltri, violenti e, nell’antica arte degli animali di potere, vengono proprio correlati al Dio Marte come suggerisce il loro nome.

Come ho detto sono molto presenti nella mia Valle e nei dintorni. Sono anche molto simili tra di loro. Serve una vista molto acuta per identificarli. La Martora presenta una macchia chiara dal colore giallognolo nel sottogola, mentre la Faina, la stessa macchia, ce l’ha più bianca e più estesa. E poi hanno una lieve differenza nella forma delle orecchie e nella tonalità del naso ma sembrano davvero lo stesso animale.

Andiamo avanti.

Oltre alla Fauna, serve osservare anche la Flora.

Durante il periodo estivo, infatti, proprio in queste zone, nasce un fiore particolare e bellissimo. Si tratta del Giglio Martagone (Lilium Martagon) uno dei Gigli selvatici più belli.

Si innalza sopra la vegetazione nel suo splendido color viola maculato e i suoi petali, girati all’insù, lo rendono elegante e virtuoso.

La nascita di un fiore rappresenta sempre il risveglio della vita, il rinnovo, il movimento della natura, l’energia vitale, proprio come il Dio protagonista di questo articolo ma, in tali termini, l’argomento può apparire senz’altro abbastanza generico. Ebbene, lasciatemi allora scendere in profondità. Sono una Topina e sapete che amo i cunicoli, anche metaforici.

Non avete notato nulla nel nome Martagone? Marta – gone. Esatto! Di nuovo Marte! E dovete sapere che, questo fiore, che vi ricordo essere una specie protetta, era davvero sacro a Marte perché simboleggiava la fatica di una battaglia e di un eroe. Per gli antichi soldati era considerato un vero e proprio amuleto di protezione e gloria e ne portavano sempre una piccola parte con sé o lo disegnavano come stemma. Pare che anche in Francia e altre parti d’Europa, il Giglio, assunse un valore militare.

Nel linguaggio dei fiori, il Giglio (a parte il Giglio bianco che simboleggia la purezza, l’innocenza, l’alba e l’amore) è emblema di fierezza, visto il suo lungo e ritto stelo a rappresentare la posizione di un soldato sull'”attenti”. Ma è emblema anche di nobiltà, fedeltà e procreazione. Tutte virtù degne di un vero guerriero e parecchio associate con le espressioni della Sorgente creatrice di tutta la natura.

La zona di Marta è una zona che supera i 2000 mt di altitudine.

Qui l’aria è salubre e il paesaggio incontaminato.

E’ un angolo di mondo meraviglioso che presenta, a tratti, balsamici boschi di conifere, pascoli infiniti e dolci pendii ma è anche una delle zone più impervie e più difficili da vivere soprattutto durante il periodo invernale.

Le falesie che la circondano sono severe, le temperature rigide, il territorio diventa aspro e pungente pur mantenendo il suo fascino.

Sarò ripetitiva ma anche tutto questo mi ricorda un po’ Marte.

Le piante e gli animali che vivono qui sono esseri coraggiosi, forti, resistenti e queste loro virtù non posso che associarle proprio a Marte e a quelle di Madre Natura che, molto spesso, ci insegna come anche attraverso le difficoltà si possa vivere e trovare la forza di andare avanti…

…in un fiore che sboccia nel cemento o nell’aridità di una pietra.

In una pianta che trionfa nonostante il gelo, in una creatura che corre dove pare impossibile muoversi.

Tante sono le indicazioni che riportano a vari Dei e a vari culti nella mia Valle.

Pizzo Penna, Rocca delle Penne… pare derivino dal Dio Penn, divinità venerata proprio dagli antichi liguri. Colle Belenda e, più in là, il Monte Abelio, ricordano il Dio Belenos (luminoso) come vi avevo spiegato qui https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2018/05/04/belenda-belenos-belin/ e allora, forse, anche il Dio Marte è stato in qualche modo considerato.

Gli indizi combaciano tutti e, che le mie teorie siano vere o false, devo ammettere che ho trovato davvero affascinante e divertente fantasticare su questi toponimi….… TOPO-nimi… eh…! Lo vedete che tutto è collegato?

Io vi mando un bacio mitologico e vi aspetto per il prossimo viaggio assieme. Chissà se il prossimo sarà reale o di nuovo fantastico…

Il torrone viaggiatore e l’arte della lentezza

Ma che ve lo dico a fare, topi? Le feste si avvicinano e in tana è tutto un affaccendarsi e uno spandersi di dolci profumi tipici di questo periodo dell’anno. E allora m’è venuto in mente che non vi ho mai parlato di un torrone molto speciale, dalla storia particolare.

Pare, infatti, che la ricetta sia originaria di Agaggio, ma che il “magico” e “segreto” procedimento per realizzarlo fosse in mano a una signora che vendeva questo dolce tipico della Valle fino a Badalucco. Tuttavia, visto che la frutta secca costava assai cara e, di conseguenza, anche il torrone aveva prezzi elevati per i poveri topi che un tempo abitavano in Valle Argentina, alla fine le donne dei paesi si ingegnarono e presero a fare in autonomia questo antico torrone, la cui ricetta è giunta nelle zampe della vostra adorata topina (chi altri, sennò?) e, guardate un po’… siccome non ho nessuna intenzione di vedermi recapitare dalla Befana un vagone di nero carbone (perché poi lo so che mugugnate se non v’accontento, e i mugugni li sente pure lei dall’alto della sua scopa volante), ho deciso di condividerla con voi.

Sono o non sono una brava topina? Bene, e allora cominciamo!

Il torrone in questione si produce oggi con noci e mandorle, che lasciano al piatto il tipico sapore dolce-amaro. Bisognerebbe prepararlo in una casseruola di terracotta, poiché questo contenitore trattiene meglio il calore degli ingredienti, permettendo poi di stenderli meglio tra i due strati di ostia, che bisogna procurarsi preventivamente.

Si prende allora un bel tagliere di legno e si cosparge con una spolverata di fecola di patate o di mais, sulla quale andrà adagiato il primo strato di ostia, cosicché non si attacchi alla superficie sottostante.

La frutta secca va sgusciata, pulita e tritata grossolanamente, poi la si mette da parte. Si prediligono le noci, ma nessuna vieta di sostituirle con le nocciole, insieme alle mandorle.

Questo è il momento anche di preparare le bucce dei mandarini (non trattati) che danno un tocco in più al torrone, dandogli un gusto d’agrumi tipicamente invernale e festivo. Le bucce vanno private della parte bianca, chiamata albedo, e si grattugia finemente.

A questo punto, nella casseruola bisognerà far andare il miele, portandolo a ebollizione, dopo di che si abbasserà la fiamma e lo si lascerà cuocere per 30-40 minuti, a seconda della densità del miele scelto, controllandolo spesso. Trascorso un po’ di tempo, bisogna procurarsi un piccolo recipiente d’acqua fredda e lasciarvi cadere una goccia di miele caldo: questa operazione andrà ripetuta con frequenza, fino a quando la goccia di miele non si rapprenderà all’istante all’interno dell’acqua fredda. Il procedimento che vi ho descritto, infatti, ci indica il momento giusto in cui il miele sarà pronto ad accogliere la frutta secca, che andrà amalgamata al composto.

Trascorso il tempo di cottura, si aggiungono le bucce di mandarino tritate e si mescola bene con un cucchiaio di legno, poi si stende tutto sulla sfoglia d’ostia il più velocemente possibile, altrimenti il miele e la frutta secca non aderiranno alla superficie dell’ostia e ne rimarranno slegati. Lo strato di miele e noci deve essere alto circa mezzo centimetro, e deve essere ben livellato, poi vi si pone sopra immediatamente l’altra sfoglia di ostia.

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E qui viene il bello, topi! No, perché io vi vedo, sapete? Sarete già lì con l’acquolina in bocca che rischierà di finire dritta dritta tra gli ingredienti del vostro capolavoro… ma non sarà ancora tempo di gustarlo, nossignori! Che tortura alle papille gustative, che supplizio! Bisognerà mettere un peso sopra il torrone e attendere finché il dolce non sarà completamente freddo, prima di rimuoverlo. Andrà fatto raffreddare per ben otto ore (sempre che resistiate al profumino che a quel punto avrà invaso tutta la vostra tana e, magari, anche quella dei vicini), poi potrà essere tagliato e gustato.

Negli anni in cui ogni cosa è sempre più veloce e si ricerca la soluzione più pratica per non rinunciare ai dolci delle feste, io sono qui a proporvi una ricetta antica e che di antico ha anche i tempi lenti di preparazione, oltre che i sapori. Perché le tradizioni sono belle da tener vive, buone da condividere e perfette da tramandare.

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Ringrazio di cuore Gianna per questa ricetta, insegnatale da suo papà, e a voi auguro delle feste all’insegna della dolcezza.

A presto!

Metti una sera di mezza estate ad Arma

Nel periodo estivo Arma si trasforma, e lo fa soprattutto nelle sere di questi mesi caldi. A colorarla, ora, sono le tinte del crepuscolo: le regalano tinte tenui, paiono di velluto quando si adagiano sull’orizzonte, sul mare, e accarezzano con sfumature  morbide i profili della città.

Contrastano le sue case, le sue piante, i suoi numerosi panorami che si stagliano contro il cielo che in questa stagione è di un blu intenso.

Arma offre allo sguardo diverse vedute: il mare, le colline, i monti, l’infinito…

Oltre i colori tipici della Liguria sulle case costiere, il verde e l’azzurro sono i colori predominanti e, alla sera, diventano ancora più nitidi.

Non si possono non citare le nuances dei fiori: il Plumbago, l’Oleandro, la Bouganvillea, il Carpobrotus…

Tutto sembra una festa dai toni leggeri.

Ci sono orari in cui Arma si fa più silenziosa, abbracciata dall’afa di agosto che pare rendere tutto ovattato.

Solo dalle finestre aperte si ode il vociare delle televisioni accese o il ticchettio metallico delle posate che scontrano i piatti durante la cena. In queste particolari ore di quiete nemmeno i gabbiani osano garrire. Le spiagge sono deserte, dopo avere finito da poco di accontentare tutti con la loro sabbia dorata e le loro onde a infrangersi sulla battigia.

Sono ore che trascorrono veloci, lasciando il posto alla prima parte della notte. In questo momento prendono vita luci, suoni e abbagli.

Durante il tramonto, nonostante il sole prenda congedo con lentezza, Arma rimane splendente.

Continua, nel suo insolito chiarore notturno, a esistere tranquilla e pacifica, e in quel mentre sono tanti i ricordi che riemergono con nostalgia. È il momento del giorno in cui i suoi abitanti la osservano quasi in silenzio, ormai fermi e rilassati dopo le calde e frenetiche giornate. Poltrendo sui balconi, sfiniti per il gran caldo, osservano per ore panorami che ogni giorno hanno davanti, ma raramente contemplano. Lo dico in senso buono, pensando a chi mi dice divertito: “Ma sai che non mi ero mai accorto che lì c’era… “.

Le sere di Arma si riempiono persino di lustrini e paillettes; vengono sfoggiati sulla sua passeggiata in un andirivieni continuo, acceso e pacato al tempo stesso, uno sgambettio di godimento della brezza che ogni tanto, come un balsamo, passa ad accarezzare la pelle. Arma non è un paese spumeggiante, è per lo più tranquillo, quasi scostante, per questo certi eventi fanno furore, curati a puntino e fulgidi come bagliori.

Per apprezzare Arma occorre entrare nella sua anima, nell’anima di chi la nutre, di chi a essa tiene particolarmente e ne fa sbocciare tutte le bellezze. Se si riesce a notare questo, non si può non amarla. E’ così ostica a volte, così indisposta… ma tutto fa parte della sua natura ligure. Essere ligure, in alcune zone di questa striscia di terra che forma un sorriso all’incontrario, significa essere coriacei, saper affrontare le difficoltà, non lasciarsi sorprendere dalle bazzecole. Per stupire un ligure ci vuole molto, non si accontenta di poco, perché quel poco lo porta già nell’animo da tempo ed è il suo Tutto. I suoi occhi han già visto, la sua bocca ha già parlato, le sue orecchie hanno già udito. “Ora, o porti qui la meraviglia equivalente al tuo cuore, o di entusiasmo ho già il mio… grazie.”

Arma dice questo. E se vi può sembrare snob, sappiate che è l’esatto opposto: è saper trasformare il nulla in Bellezza pura. È saper creare dove nessuno regala niente. È saper andar avanti. Sempre.

Arma è una curva da attraversare. Offre ciò che ha a chi vuol vedere e, soprattutto in estate, viene messa alla prova. Alla fine della stagione appare quasi stanca o, forse, torna solo alla sua quiete. In alcune occasioni si riempie delle grida dei bambini, in altre del passo stanco degli anziani che respirano salsedine.

Arma alla sera asciuga i teli per l’indomani, per tornare in spiaggia a giocare, a nuotare, a correre… perché, forse, fino all’anno dopo non si potrà più.

I suoi punti di riferimento sono gli stessi, che sia giorno o notte non importa: la Fortezza, la chiesetta di San Giuseppe, la fontana, la Darsena, Piazza Chierotti…

I punti in cui ci si ritrova, sgattaiolando veloci dopo cena, con i capelli ancora umidi e la pelle che sa di bagnoschiuma.

E, infatti, ci sono odori nuovi, in queste sere. Profumi di pelli, aromi di cucine che lavorano di più, il sale del mare, la freschezza del crepuscolo… Mi piace Arma, alla sera, d’estate. Mi piace viverla in questi momenti, prima di tornare nel mio bosco.

Un affettuoso bacio a voi.

 

Gli occhi, il cuore e le mani della Valle

C’è chi vi osserva, mentre passeggiate tra i carruggi, e se non vi conosce il suo sguardo vi segue per un po’. Sono occhi attenti, quelli dei topi della mia Valle.

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Occhi che parlano da soli, traboccanti di ricordi e storie da raccontare. E che belle quelle rughe disegnate intorno allo sguardo, sulle mani segnate dal tempo, sulle guance arrotondate oppure smunte! Sono belle, sì. Paiono pagine antiche, sulle quali sono scritte storie in un linguaggio indecifrabile e arcano.

Sono occhi sempre semichiusi come a scrutare. Come ad avere costantemente i raggi del sole sul viso. Abitudine nata dal lungo lavoro nella terra. Sono occhi attenti, talvolta stanchi, talvolta curiosi e vogliosi di racconti che si serrano ancora di più quando sotto di loro appare un sorriso a strizzare le ruvide guance.

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La pelle dei miei convallesi, di quelli vecchio stampo per lo meno, è una carta spessa, forte, che non si strappa facilmente. E così è anche la tempra della mia gente.

Se vi dicono che il ligure è tirchio, non credeteci, topi! Bisogna sempre capire le origini di questi detti, lo so che non è semplice, ma non fermatevi alla prima impressione. Nella mia Valle siamo tutti molto generosi, ma lo siamo con chi è meritevole, con chi ricambia i nostri sguardi e non si ferma all’apparenza.

E se possiamo apparire avari è perché, credetemi, discendiamo da persone che hanno davvero dovuto faticare tanto per racimolare due spiccioli. Vi ricordate quando vi parlai della costruzione dei muri in pietra per poter coltivare a più di 1.000 mt s.l.m. a causa del territorio tanto aspro in cui viviamo? E senza nessun mezzo meccanico.

Il cuore della Valle sono loro, i topi che hanno fatto e vissuto la storia dei luoghi che vi descrivo sempre con tutto il mio amore. Sono uomini e donne che, come il timo selvatico, hanno messo radici sull’arida roccia, là dove nessun altro popolo avrebbe osato crescere. E il ligure, da bravo testun qual è, è in grado di vivere ovunque. Non importa se la terra è poca, se ci sono più sassi che altro o se i prati pianeggianti sono una rarità e un lusso per pochi: lui sa come fare, sa come ricavarsi uno spazio per sé, per la propria famiglia e il suo sostentamento.

lavoro campi

In tempi antichi si è combattuto così tanto per ricavare un lembo di orto, che ogni centimetro dello stesso valeva come oro, nel cuore di chi lo coltivava. E quell’oro veniva trattato e considerato come tale. Ecco perché si dice che noi liguri abbiamo il braccio corto! Ma credetemi: abbiamo vissuto con grande fatica, resistendo tenacemente a un territorio aspro e all’apparenza inospitale come quello che si trova nella mia Valle. Eppure, per quanto sia stato difficile terrazzare le montagne, costruire i muretti, estrarre pietre dal terreno per renderlo adatto alle coltivazioni… noi non riusciamo a detestare la nostra terra, topi, proprio no! Al contrario, la amiamo di un affetto immenso, smisurato, perché sappiamo che è lei a darci la vita, che è il suo ventre che rende possibile tutto. Ogni goccia delle sue acque è sacra per noi, così come ogni zolla di terra: è il corpo di una madre severa e amorevole al tempo stesso, che sa donare molto, ma non senza sacrificio.

amore per la natura

E’ vero, siamo diffidenti. Ma riuscite a immaginarne il perché? Ve lo spiego subito. Tutto quello che c’è in Valle è prezioso, ha un valore inestimabile per noi. Ci preoccupiamo di mantenere vivi i nostri ricordi, temiamo un po’ che altri possano cancellarli, per cui preferiamo rimanere sulle nostre e non sbilanciarci troppo. Abbiamo sempre dovuto difenderci. La nostra terra fu ambita da molti potenti fin dai tempi più remoti! Non mostriamo facilmente i tesori che abbiamo dentro, né quelli racchiusi nei borghi, sulle montagne, in riva ai torrenti… ma quando decidiamo di farlo, allora apriamo tutto il nostro cuore e in grande stile!

mani

A quel punto potreste vederci aprire le porte di casa e invitarvi a bere un bicchiere di vino con noi. Potreste sentirci chiacchierare per ore di una chiesetta abbandonata, dei negozi che c’erano un tempo e che ora non ci sono più e di tutti gli acquisti che vi abbiamo fatto. Potreste sentirci raccontare le storie della nostra famiglia con gli occhi che brillano per l’emozione, partendo dagli avi leggendari per finire con i nostri figli e nipoti. Potreste anche ricevere un dono: che sia una piuma o una nuova amicizia non ha importanza, state pur certi che quel dono sarà stato fatto col cuore.

Siamo un po’ tradizionalisti e anche malinconici, pur non dandolo a vedere. Ci dispiace che molti giovani di oggi non apprezzino e non sappiano dei tesori che li hanno circondati e che tutt’ora vivono attorno a noi.

Proviamo a farglieli conoscere attraverso i solchi delle nostre mani, che hanno innalzato muri, case, edifici, chiese, fortezze con la sola forza delle braccia. Sono mani oggi ricurve e zigrinate, dalla pelle coriacea sempre pronta a mettersi all’opera. Mani mai ferme, raramente delicate che condiscono ancora discorsi che escono dal petto.

Siamo così, che volete farci? Nostalgici, un po’ misteriosi e buone forchette, sempre pronti a fare baldoria e mostrare la nostra autentica originalità. Il mugugno (il lamento) ci contraddistingue spesso, non possiamo farne a meno, è nel nostro DNA, ma sappiamo ancora restare in silenzio davanti a un fiore, bagnare la terra col nostro sudore, fermarci ad accarezzare un gatto e… amare, amare davvero.

Io vi saluto, topi! A presto

La vostra Pigmy.

 

 

 

L’Estate – il tempo dei frutti

Se la Primavera è il tempo dei fiori, l’Estate è quello dei frutti e, fortunatamente, nella mia Valle Argentina, le stagioni si distinguono ancora molto, offrendo ognuna le proprie meraviglie.

Il verde è il colore regnante, un verde acceso che ammalia e anche i doni di Madre Terra sono verdi, per il momento… o almeno quasi tutti.

Oggi vi porto a vederne qualcuno, sono bellissimi e golosissimi. Naturalmente, nella mia Valle si trovano ovunque, perché quelli autoctoni nascono selvatici nei boschi e nei sentieri.

Per conoscerli meglio andrò a trovare Maga Gemma, lei sa tutti i loro segreti e sono sicura che mi racconterà molte cose su questi straordinari regali della natura dei quali io sono ghiotta.

Inizio già a vedere alcune piantine che conosco, sento qualche dolce profumo e vedo le loro tinte sgargianti, che meraviglia! E’ tutto offerto dal pianeta… mi sento grata e ricca! Qui c’è da mangiare per mesi e mesi!

«Pigmy, cara!» esclama una bellissima voce femminile dietro di me. «E’ possibile che pensi sempre a mangiare?!» la maga mi sorride.

«Maga Gemma! Ma come hai fatto a capire che…»

«Oh! Pigmy, suvvia… sono una Maga…» sorride ancora.

Io sono sbalordita da tanta bellezza che mi circonda. Attorno alla casa di Maga Gemma, una stupenda dimora in mezzo al bosco, c’è qualsiasi ben di Dio e, curiosa come sono, inizio subito a gironzolare e a infilare il muso ovunque, rapita da tanto splendore.

«Quelli sono Piselli Pigmy. Tra pochissimo si potranno mangiare.»

Ma che meraviglia! Sono buffi e molto carini, delle piccole palline con le quali si possono realizzare minestroni, contorni, insalate, creme, zuppe…! Mi volto di scatto attirata da altre biglie. Questa volta sono colorate di un rosso fuoco e sono appese a un albero: «Le Amarene!» urlo raggiante.

«Esatto! Più aspre delle Ciliegie ma anch’esse ricche di proprietà.» mi rivela la Maga.

«Davvero?» sono una grande conoscitrice di piante e fiori, ma vorrei che Gemma mi dicesse qualcosa di suo. «Racconta!» la esorto.

«Beh…contengono melanina e quercetina, la stessa sostanza che trovi nelle Cipolle. pensa. Quindi sono antitumorali, ma rilassano e fanno dormire sereni. Ottime contro lo stress. Tu non ne soffri, ma i tuoi amici umani sì!». Ecco, questa cosa non la sapevo.

«Nel dialetto della Valle si chiamano “Agriotti”», dico. «Alcuni frutti assumono nomi davvero strambi. Le Fragole sono “Merelli” e le Albicocche “Miscimì”. Bah!» ridiamo entrambe e continuiamo la nostra gita tra erbe e alberi.

Ecco, una delle poche piante senza fiori e senza frutti, poiché sono invernali. E’ il Kiwi e, per ora, offre una gradevole ombra proprio davanti alla casa di Maga Gemma grazie alle sue foglie larghe e tonde. Il Melo, invece, ha già fatto nascere piccole melette ancora verdi. Saranno aspre anche quando saranno mature, ma succose e buonissime perché contengono un’acidità molto piacevole. Fanno proprio bene, tra l’altro! Queste sono le vere Mele che tolgono il medico di torno, se mangiate ogni giorno!

«Seguimi Pigmy, voglio farti vedere uno spettacolo» mi invita la Maga e, fiduciosa, mi avvio dietro di lei. Mi fa chiudere gli occhi, mi fa fare qualche passo e, quando spalanco il mio sguardo rimango allibita! Neanche qui i frutti ci sono ancora, ma quello che vedo è il loro preludio! Gli Ulivi, alberi quasi sacri per noi liguri, sono completamente bianchi perché ricolmi di minuscoli fiorellini che tra qualche mese saranno Olive, le migliori al mondo: la speciale Oliva Taggiasca. Sono un trionfo di candore, sembrano pieni di lana, di neve! Qui da noi si dice “con la panna”! Appena si sfiorano con le zampe, cadono lievi a terra, perciò è bene non toccarli troppo! Un affascinante manto bianco che incanta.

«E questa invece sai cos’è?» mi dice quella splendida donna. Riconosco il frutto, non sono mica nata ieri, in fondo: «L’Uva Spina!».

«Bravissima! Per chi soffre di problemi all’intestino, questa è un vero toccasana!»

«Oh, sì!» replico. «So che contiene anche tantissima Vitamina A e tantissima Vitamina C,ed è anche molto dolce.»

«Esatto. Ancora poco tempo e sarà pronta anche lei. Questa, come vedi, è la varietà bianca, ma c’è anche quella rossa o violacea.»

«Che splendore!» Ammiro tutto estasiata.

Non posso credere di essere circondata da tanta ricchezza. Neanche a dirlo mi sono fatta una bella scorpacciata di parecchie cose mentre quelle che devono ancora maturare sanno che dovranno attendermi, perché tra qualche giorno verrò ovviamente ad assaggiarle.

Saluto Maga Gemma, la ringrazio e me ne torno alla tana con un bel cestino pieno di tante prelibatezze e, nelle narici, il dolcissimo profumo dei Tigli che mi ha riempito i polmoni. Qualche Zucchino, due Albicocche, un po’ di Pomodori… posso sfamare un reggimento. Ora devo lavare tutto, cucinarlo e farmi un po’ di provviste, quindi vi saluto e vi aspetto per il prossimo tour nel bosco dove andremo a mangiucchiare altre squisitezze, tutte naturali.

A presto Topi! Preparate le dispense!

Belenda, Belenos, Belin!

Il post di oggi è luminoso, anzi, luminosissimo!

Il titolo è tutto un programma, sembra una formula magica, vero? Be’, in un certo senso è di magia che tratterà, ma la smetto di tenervi sulle spine e inizio a raccontarvi.

Recentemente ho iniziato a interessarmi ai toponimi della mia zona – e no, nel caso in cui ve lo steste chiedendo, questa volta i topi non c’entrano niente! – e ho scoperto delle cose davvero interessanti che voglio condividere con voi.

Vi siete mai chiesti, cari miei amici liguri, da dove provenga l’imprecazione da noi più utilizzata? Ve lo spiego subito, belin! Prima, però, mi tocca fare una premessa importante.

colle belenda

Sul confine tra le valli Nervia e Argentina c’è un colle che si chiama Belenda, di cui vi ho già parlato nel post “Da Loreto a Colle Belenda tra castagni e betulle”. Lo stesso nome, però, appartiene anche a un’altra altura, situata tra le valli Nervia e Roia. Questi luoghi erano frequentati fin da tempi remoti dagli Antichi Liguri, quelli che subirono, pare, le influenze dei Celti. Non è un caso che la radice “Bel-” si ritrovi in vari luoghi delle nostre zone (il monte Abellio nell’intemelio, per esempio).

I Celti veneravano una divinità maschile che fu assimilata dai nostri antenati Liguri, il dio Belenos (o Belanu), che può essere tradotto come “il brillante”. Si tratta di una divinità legata alla luce e, di conseguenza, al sole. Tuttavia, Belenos il Brillante non era solo questo. Era collegato a tutto ciò che aveva bisogno di luce per prosperare, per cui era la divinità dell’agricoltura e dell’allevamento, presiedeva le stagioni e “illuminava” l’intelletto degli uomini per guidarlo a nuove invenzioni e innovazioni. Belenos aveva una consorte, i cui nomi sono molti, ma il significato è uno solo: “la più brillante”. Belisana, Belisma, Belenda… comunque la si voglia chiamare, a lei erano sacri il fuoco e la scintilla della creazione.

Che coppia… divina, non trovate?

Ebbene, non è certo un caso che molti siano ancora oggi i riferimenti a queste due figure, che influenzarono la vita dei liguri così tanto che l’eco di quel culto si sente ancora oggi. Come? Nell’intercalare tanto usato e tanto amato da tutti, dai monti al mare, da ovest a est: belin!

Oggi ha assunto il significato di un’imprecazione, che assimila questa parola all’organo riproduttivo maschile. Ma cosa c’entra quest’ultimo con Belenos? Ebbene, un tempo l’uomo primitivo aveva una concezione della vita ben diversa dalla nostra. Sapeva che il maschile e il femminile si univano per dare origine a una nuova vita e riproducevano questo anche in natura. Per ottenere un buon raccolto, dunque, ecco che conficcavano simbolicamente nel ventre della Madre Terra una pietrafitta o un bastone, assimilandolo al fallo maschile. Molte sono le simbologie legate al culto della fertilità della Terra, non starò qui a spiegarvele tutte, ma il nostro beneamato belin sembra derivare proprio dalla divinità luminosa tanto cara ai nostri antenati. È come se, nelle nostre frasi, nei nostri proverbi e nel nostro quotidiano richiamassimo ancora a noi l’energia di Belenos e di sua moglie, a ricordarci che la Luce è Vita.

Belin, s’è fatto tardi! Non mi resta, dunque, che mandarvi un brillante e luminoso saluto.

Vostra Pigmy

 

 

 

Streghe liguri, Fate sarde, Streghe-Fate…. Ditelo anche voi!

Cari topi, questo post nasce da una simpatica discussione che ho avuto con una mia  amica blogger qualche sera fa.

Lei si chiama Marta, è sarda, offre a tutti la bellezza di questo suo blog http://tramedipensieri.wordpress.com/ ed è amante di tante cose: la musica, la poesia, tutto ciò che è arte e la sua Sardegna. La sua Sardegna fatta sì, di luoghi incantevoli, di acqua cristallina, di storie, di costruzioni, ma anche di tradizioni e folklore. A segnare indelebilmente, nei ricordi e nel linguaggio di tutti, queste ultime due cose che affascinano moltissimo Marta, ci sono le protagoniste di questo post, le Streghe o Fate. Ebbene sì perchè, anche Marta, ha le “sue” Streghe. Streghe diverse dalle “mie”. Streghe/Fate che hanno un nome arcaico, poetico: esse si chiamano Janas. E sono Fate molto diverse dalle mie Streghe che hanno invece il nome di: Bazue.

Da non confondere la vera Strega con la vera Fata, questo lo so, ma quel che ci faceva ridere e discutere, a me e Marta, era comunque un dialogo basato su queste figure femminili misteriose, delle quali abbiamo sempre sentito parlare, e con le quali siamo cresciute. E c’è chi le chiama in un modo, chi in un altro. Sono pochi i paesi in cui le distinguono. Sono i paesi ricchi di questi personaggi, nei quali esistono anche gli Elfi e gli Gnomi. Esistono o sono esistiti, chi lo sa.

Fatto sta che, le figure della mia amica, si comportavano in un certo modo e vivevano in un certo modo e avevano un loro obbiettivo, completamente diverso dalle mie che, come le ho fatto notare, erano molto più indaffarate delle sue 😀 Beh… sì, lo sapete ormai, le mie magiche figure erano vere e proprie maghe, ideavano filtri e pozioni adatte ad ogni necessità, addestravano gatti neri sempre pronti a servirle, conoscevano tutte le piante officinali esistenti, utilizzavano enormi pentoloni, volavano con la scopa, facevano il malocchio, rapivano i bambini e poi… sono esistite davvero, lasciatemelo dire e… a buon intenditor poche parole. Erano donne, ma questa è una storia lunga.

Le Janas invece? Cosa facevano le Janas? Come vivevano? Nonostante le tante similitudini che legano storicamente, geograficamente e culturalmente la Liguria alla Sardegna, queste creature magiche sono totalmente diverse e questo è ciò che mi ha incuriosito. Lascio a Marta la parola, leggete infatti cosa racconta lei stessa, in uno dei suoi articoli, che mi ha davvero affascinato molto, qualche giorno fa:

Si narra che un tempo lontano, in terra di Sardegna vivevano le Janas.

Erano fate leggendarie, spesso buone, talvolta cattive.

Belle, schive e misteriose, erano preda dei pastori, dai quali si proteggevano rintanandosi tra le rocce.

A loro apparteneva un’arte: ricamavano arazzi stupefacenti che acquisivano poteri occulti, se esposti alla luna.

Perciò per azionare l’incantesimo, le fate erano costrette ad uscire e stendere sulla pietra le loro creazioni, concedendole alle tenebre.
Ma bastava rubare un solo filo dell’abito indossato dalle Janas, per possederle in eterno.

E i pastori questo lo sapevano…

JanasE questa che vedete è una rappresentazione, un’immagine che le ritrae. Oh sì, devo ammettere che sono sicuramente più carine di quelle liguri, ma una foto delle mie ve la metto lo stesso, tanto siamo sotto il periodo di Halloween, non dovreste aver paura. SONY DSCDai, cosa sono ‘ste smorfie? Hanno tutte e due i capelli neri e il vestito nero, non sono poi così diverse! (Non me ne voglia la  ragazza della prima foto, che trovo bellissima!). Avete letto comunque le diverse credenze? Ecco cosa mi è venuto in mente. Quali altri magici personaggi ci saranno stati nel resto d’Italia? Quindi, le vostre? Campani, lombardi, pugliesi, veneti, etc… che mi scrivete, ditemi, come sono le vostre Streghe? O le vostre Fate. Quali requisiti avevano? Sono ovviamente ammessi anche i liguri nonostante ci sia già io. Sarei proprio curiosa di conoscere nuove cose che non so riguardo le mie Bazue. Dai, raccontantemi! Sono sicura che le vostre risposte interesseranno molto anche la mia amica Marta. Un bacione magico a tutti.

M.

I ponti della strada “di sotto”

E oggiSONY DSC topi, dopo avervi fatto conoscere la strada “di sotto”, una delle due strade dopo Badalucco, vi chiedo di guardarla più attentamente perchè vorrei farvi vedere i suoi numerosi e caratteristici ponti o… purtruppo si, per alcuni, quel SONY DSCche ne rimane. La pietra è, come vedrete, sempre la grande protagonista, soprattutto in quelli più antichi, in quelli romani o in quella dei miei antichissimi antenati; pietra nuda, visibile, dalle studiate proporzioni ma, in quelli creati dai miei convallesi più recentemente, è rivestita a volte da cemento. Un cemento che spesso occorre a costruire anche il SONY DSCmuretto di protezione. Alcuni si mimetizzano in questa stagione con i colori della natura spoglia, annoiata, svestita, una natura che lascia trasparire tinte spente. Alcuni, ingoiati dall’edera e dalla vegetazione. Alcuni, non servono più a nulla, sono solo ricordi, altri invece, sono la strada che continua, a zig-zagSONY DSC  sopra al torrente. E quanto è bello qui il mio torrente! Come scende sicuro sotto a questi ponti che ci sorreggono. E solo a guardarlo, si sente che è freddo. Lo dicono le sfumature che ha. Sfumature di vario verde e vario azzurro, metallico. Lo dice il suo boato, il suo rombo che assorda. I ponti, i loro piloni che toccano il torrente, sono ricoperti di muschio cupo e in alcuni tratti, i pesci, cercano di pulirli come dei bravi lavavetri. Succhiano quella molle erbetta tutto il giorno. Dev’essere saporita. E ce n’è per tutti. Sono piloni veramente enormi, chi ha costruito questi ponti, voleva assicurarsi che resistessero a qualsiasi peso. Sono ponti ad arco. Non sono lunghissimi, quindi qui nella mia valle solitamente si trovano ad una sola arcata e lo sapete chi, prima dei Romani, capì il metodo giusto per costruireSONY DSC i ponti in questo modo? Gli Etruschi. Ah, ah. E grazie a questa tecnica potevano costruire di tutto, non solo passerelle e cavalcavia. Ma i Romani, furono ottimi allievi e, come loro, i Liguri, seppero fare della pietra una vera celebrità. Qualsiasi cosa, a partire dai mitici ormai muretti in pietra, che dividono le particolari coltivazioni a terrazzaSONY DSC della Liguria. I Liguri, erano davvero abili a seguire i maestri del Grandi Impero, mi spiace solo che alcune tecniche oggi, sono sempre più rare e vanno perdendosi. E pensare che stiamo parlando di un’arte considerata sacra, pensate. Il “sommo maestro” (così era chiamato colui che governava la costruzione di un ponte), doveva infatti oltre che realizzare, saper valutare di avere roccia in abbondanza e calcolare bene dove far appoggiare le spalle del ponte evitando che alluvioni o piogge intense, potessero distruggerlo. Sono tutti ponti infatti che resistono al tempo da secoli e secoli. Ci pensate? E senza l’aiuto di collanti, se non un pò di argilla, come già vi avevo spiegato neiSONY DSC miei post antecedenti sui ponti della mia valle. E’ ovvio però che una manuntenzione dovrebbero farla. Pare però che a pochi importa e purtroppo, questo è il risultato.SONY DSC Consideriamo inoltre che la seconda guerra mondiale non ha certo aiutato la situazione. Quelle che vedete in queste immagini, sono le due parti di un antichissimo ponte ad unica arcata, al quale è crollato la parte centrale. Ok, ho capito, è bene ch’io mi avvicini un pò di più per farvi vedere meglio. Ci riuscite così? Eccolo, spezzato nettamente a metà. E’ impressionante e mi ci gioco qualcosa che in mille passano di qua davanti senza notare questo rudere rimasto. Che è anche significativo a mio parere. Sembra cheSONY DSC un gigante lo abbia preso e tranciato come un panino. E adesso? Come si fa ad andare da una parte all’altra? La casetta che vedete alla destra delle foto è oggi raggiungibile da una viuzza laterale, ma vi ho lasciato di stucco eh? Dite la verità. Quanti ragazzi hanno provato a tuffarsi in estate da questi spuntoni di pietra per scendere giù nel fiume che in questo punto è parecchio profondo? Bhè, qui i “senza paura”, non hanno che l’imbarazzo della scelta e presto vi farò conoscere aSONY DSCnche gli altri ponticelli perchè mostrarveli tutti in una volta era impossibile. In questo punto sono davvero numerosi. Però che fascino, che meraviglia. Guardate che larga la spalla di appoggio. E tanto più doveva essere lungo l’arco, tanto più grande doveva essere il pilone sostenitore. E lui ora non c’è più, lasciando lo spazio ad un panorama magnifico. Guardate che bella l’acqua che scorre veloce e impetuosa, ma fa paura guardarla da qui, sembra che il rimasto, possa non reggermi. Evitiamo, è meglio. E poi, queste rovine sono così affascinantiSONY DSC che è un piacere ammirarle da qui e rimango incantata. E spero che ammirarle sia piaciuto anche a voi amici. Perciò topi cari io ora vi saluto, vado alla scoperta di altri angolini fantastici e segnati dalla storia della mia valle e oltre. Scorci che possano rendervi nota la mia terra. Vado a fotografare altri ponti. Poche cose sono affascinanti e caratteristiche come loro, non trovate anche voi? E allora aspettatemi, tornerò presto. Un bacione! E, a proposito… state tranquilli, se venite nSONY DSCella mia valle, non abbiate paura a salire sopra uno di loro. E’ meraviglioso attraversarli, starci sopra e guardare giù che cosa accade. Datemi retta, potete stare tranquilli! Squit!

Altri proverbi

E oggi eccovi un altro elenco di proverbi liguri come già una volta vi avevo postato. Santi proverbi! Quanta ragione aveva chi li inventava! Chissà se anche questi, come alcuni che vi avevo fatto conoscere, esistono anche dalle vostre parti, magari trasformati un po’ e, ovviamente, nel vostro dialetto!

1- Di ciapetti di atri nun te mescià se ti voeu vive in paxe e nu ratelà.

1- Non ti curare dei pettegolezzi degli altri se vuoi vivere in pace, senza litigare.

2- Desàndio, cicchetti e poca cua portan l’ommo a a seportua.

2- Disordine, bicchieri di alcool e poca cura portano l’uomo alla sepoltura.

3- I assidenti i sun cumme e foje, chi i caccia poei i raccogge.

3- Gli accidenti sono come le foglie, chi li getta poi li raccoglie.

4- L’è meju andà a cà cu unna raxon mal diita che cu a testa rutta.

4- E’ meglio andare a casa avendo torto che con la testa rotta.

5- I erroi dei meighi i asconde a terra, cheli dei ricchi i ascundun i soudi.

5- Gli errori dei medici li nasconde la terra, gli errori dei ricchi li nascondono i soldi.

6- Cu u mè i se piggian e vespe, cu e grame mancu a peste.

6- Con il miele si prendono le vespe, con le cattive non si prende nemmeno la peste.

7- Maiu, malanni e guai i nu mancan mai.

7- Marito, malanni e guai non mancano mai.

8- Trottu d’anse e foegu de paja pocu duan.

8- Trotto d’asino e fuoco di paglia durano poco.

9- Coae de lavurà sautame in dossu e travaia pe mi che mi a nu posciu.

9- Voglia di lavorare saltami addosso e lavora per me che io non posso.

10- Quandu i sun figge i gan quattru brassa, quandu i sun mariae ghe n’an due ben passe.

10- Quando sono ragazze hanno quattro braccia, quando sono sposate ne hanno due molto appassite.

Ecco, vi sono piaciuti? Spero di si. Mi piacciono tanto i proverbi che, nel nostro dialetto, si indicano come “modi de dì” ossia “modi di dire”.

Io vi abbraccio e vado a prepararvi un altro post!

M.

L’antica chiesetta di San Bernardo

E ora, topi, dopo piante e animaletti, torniamo a girovagare un po’ per la Valle.

Oggi andiamo di nuovo poco sopra il piccolo abitato di Andagna, saliamo dopo “la croce” ed eccoci davanti all’antica chiesetta di San Bernardo.

Davanti a lei, un secolare Ippocastano si erge altissimo, facendo ombra alle due panchine sottostanti.

Questa chiesa è molto antica e vorrei portarvi a visitarne l’interno, perchè merita davvero.

L’essenza di questo edificio religioso racchiude quella di molti abitanti della mia Valle, quelli di un tempo. Il suo aspetto è rude, aspro, solido… ma dentro, tutte le pareti sono ricoperte di affreschi meravigliosi. Anche noi Liguri dell’entroterra siamo un po’ come lei: sembriamo fatti tutti d’un pezzo, diffidenti e schivi, ma a conoscerci… ah! Quante bellezze si celano dentro di noi!

Gli affreschi, dicevo, risalgono al 1436. Si tratta di opere di pittori di cui oggi i non esperti come me non ne conoscono i nomi, ma sono davvero bellissime. I dipinti rappresentano Gesù, pontefici e regnanti, ma anche i vizi e le virtù.

Alcuni volti sono stati cancellati e subito c’è stato chi ha parlato di mistero. Le pareti, in realtà, sono davvero antiche e l’umidità purtroppo regna sovrana qui.

Il pavimento è in lastre di Ardesia, una pietra ampiamente usata in tutta la mia Valle.

Questo santuario del XV secolo, d’estate è la meta di vecchine che amano fare una passeggiata tra le campagne e poi sedersi per riposare. Nel frattempo si fermano a raccogliere la Menta, il Timo e l’Origano a volontà. Un tempo invece, sotto al suo portico, potevano riposare viandanti e pastori e trovavano ristoro persino all’ombra del grandissimo Fico d’India che, di anni, ne ha molti!

Quando si arriva qui, oltre a godere della pace che c’è, si può ammirare anche un bellissimo panorama. Infatti si vede da lontano tutto il paese di Andagna e parte della vallata.

I topini possono divertirsi sugli scivoli e sulle altalene che sono state  posizonate su un praticello proprio di fronte a San Bernardo.

La celebrazione di questo Santo, patrono appunto dei viandanti, si svolge d’estate e parecchia gente deve rimanere all’esterno, perchè la chiesetta ha dimensioni davvero esigue, è intima e raccolta. L’altare è dimesso, spartano: una croce, un muretto di pietra e, dietro, un dipinto di Cristo, nient’altro. Solo per la messa vengono posti dei mazzi di fiori su di esso.

Circondata da prati e da monti, San Bernardo risulta essere un bellissimo luogo religioso campestre. Non si può non fermarsi a rimirarla se si ci passa davanti per andare in cima alle montagne di Drego e di Rezzo.

Quante estati ho passato davanti a lei, con gli amici, seduti su quelle panchine! Di giorno davamo fuoco alle foglie secche dell’Ippocastano, sperimentando i raggi del sole che passavano attraverso una lente d’ingrandimento, e alla sera invece, ci inventavamo storie terrificanti, così traumatiche da aver paura a fare ritorno da soli al paese. All’epoca, non c’erano cellulari e i lampioni scarseggiavano per quelle stradine. Che bellissimi ricordi! E oggi San Bernardo è ancora là, piccola, ma sempre imponente.

Domina dall’alto della sua collina e il giorno della sua festa la processione parte proprio da lì e scende fino in paese. E’ un punto di riferimento, un’antichissima bellezza.

 

Spero tanto sia piaciuta anche a voi e, se vi capiterà di passare da queste parti, visitatela con attenzione. Fermatevi a rimirare il paesaggio e, in poco tempo, sarete circondati dalle  farfalline bianche che vivono sui fiori intorno al santuario, mettono molta allegria.

Un abbraccio, la vostra Pigmy.

M.