La Topina e le streghe della Valle Argentina in un progetto universitario

Oh topi, ma guardate che me ne succedono davvero delle belle! L’ultima proprio qualche giorno fa, in cui in una mail, una giovane studentessa ligure ha voluto intervistarmi (un’intervista a me… a me! Ma che bello!) per un progetto universitario che coinvolgerà anche la Sicilia e la Sardegna.

Tale progetto si occupa di indagare le figure femminili del nostro passato e, di conseguenza, anche le leggende e le superstizioni nate nel tempo. Io sono stata ben felice di dare il mio contributo e quindi vi lascio qui di seguito l’intervista per intero, così che possiate goderne anche voi. Ringrazio ancora Nicoletta e le sue colleghe di corso per avermi coinvolta!

  1. Conosci qualche leggenda che abbia come protagonista una strega?

Ci sono molte storie e leggende legate alle streghe nella zona in cui abito, molte delle quali sono realmente accadute. Alcune sfumano nella superstizione e nelle credenze popolari, ma l’entroterra della Liguria di Ponente pullula di questo genere di racconti. Da me, a seconda delle zone, le streghe sono chiamate “bàzue” “bagiue” o “bàzure”, e nel cuore delle Alpi Liguri, in Valle Argentina, vantiamo la presenza di quella che è definita “la Salem d’Italia”: Triora. Il borgo è famoso per essere stato protagonista di processi alle streghe da parte dell’Inquisizione, che qui fu particolarmente severa. Una storia molto sentita e ricordata è quella di Franchetta Borelli, che fu torturata e resistette a diverse ore di cavalletto, nonostante la sua età avanzata. Famosa è rimasta la sua frase: “Stringerò i denti e diranno che rido”, tramandata e documentata fino ai giorni nostri. Franchetta sopravvisse alle torture e al giogo dell’Inquisizione, fu rilasciata, ma il suo corpo restò segnato nel profondo, portandone le conseguenze per gli anni che le restarono da vivere. Il suo caso è emblematico perché apparteneva alla nobiltà, e questo suscitò non poco scalpore nel borgo e in tutta la Repubblica di Genova, alla quale Triora apparteneva. Altra storia legata alle streghe di Triora è quella delle sorelle Isotta e Battistina Stella, entrambe processate. Di Isotta sappiamo che non resse alle torture e morì. Un’altra donna torturata uscì di senno e si gettò dalla finestra di Palazzo Stella, nella Piazza della Collegiata (quella centrale al borgo, che reca lo stemma della città, il Cerbero). La leggenda  dice che il corpo della donna non fu mai ritrovato. C’è poi la storia di un’altra figura femminile triorese, tale Magdalena, di cui si sa poco, ma ai tempi del processo alle streghe di Triora era una ragazzina in età adolescenziale. In molti dicono che fu istruita alle arti magiche da sua madre, strega esperta e di alto livello, anche lei imprigionata e torturata come la figlia. In alcuni scritti compare l’accusa a una donna, interrogata e torturata perché si diceva che stesse imparando l’alchimia da un giovane medico del posto. Si dice che i fantasmi di queste streghe che furono accusate, torturate e che morirono durante il processo si riuniscano ancora oggi nei luoghi che le hanno viste protagoniste. Per quanto riguarda le streghe più in generale, ancora oggi, in certe zone, gli anziani credono che avere i capelli rossi per una donna sia segno di stregoneria. Anche il manto delle mucche, dalle mie parti, non poteva avere sfumature rossicce, tant’è che la razza bovina che produce i formaggi delle mie zone ha il pelo bianchissimo, tanto era radicata questa superstizione. Fino al secolo scorso si credeva che le bàzue potessero maledire il bestiame e tormentare i neonati con il loro malocchio. Ci sono diversi racconti popolari al riguardo, ogni famiglia ha il proprio che si tramanda da generazioni. Ci sono poi anche le storie e le dicerie legate ai luoghi, come Lago Degnu (nel territorio di Molini di Triora), una polla d’acqua profonda contornata da fitti boschi, un tempo impenetrabili, che si credeva fosse luogo prediletto per il Sabba che le bàzue facevano con il Demonio in persona. Ci sono poi il Lavatoio del Noce e la Fontana di Campomavue a Triora, dove le streghe lanciavano il malocchio e dove si racconta che una bàzua in particolare diede un saggio consiglio al capostipite di una famiglia che sarebbe diventata tra le più facoltose del paese, proprio grazie al buon consiglio della donna. Altro luogo legato alle streghe trioresi è la Cabotina, antico forte di cui oggi restano i ruderi, situata ai margini più poveri del borgo. Qui si dice si riunissero le streghe per i loro malefici.

  1. Sai se esistono altre versioni?

La storia di Franchetta è reale e documentata, ma sono sorte leggende che la vedono come protagonista, sussurrate un po’ a mezza voce, come a voler favoleggiare su un personaggio che è divenuto simbolo di una lotta importante. C’è chi dice che sia vissuta a lungo dopo le torture, forse proprio grazie alle sue conoscenze della magia; alcuni ipotizzano si sia trasferita altrove, in un borgo non lontano, e che qui abbia fondato una stirpe di donne sapienti e conoscitrici della stregoneria. Lo stesso si dice delle altre donne che furono incarcerate e torturate insieme a lei, di alcune si racconta siano morte al rogo, anche se pare non ci sia testimonianza di alcun rogo di streghe in Valle Argentina. Di tutte le accusate non vi è più traccia negli archivi, ad oggi ancora non abbiamo certezze riguardo l’epilogo del processo, e questo ha permesso a molti di fantasticare sull’accaduto. Esistono anche tante versioni delle superstizioni legate al malocchio perpetrato ai danni di bambini e del bestiame, ognuno ha la propria. Ci sono storie di neonati che non smettevano di piangere per via di un maleficio e che ritrovavano la calma solo dopo che la strega, smascherata, veniva intimata di smettere o dopo l’azione di una contro-fattura da parte di qualche altra buona donna conoscitrice di rimedi magici. Ci sono anche storie riguardanti le pecore che, per via di una fattura ricevuta, non producevano più latte, o scappavano senza motivo, irrequiete.  Non conosco tutte le versioni che sono state raccontate sulle storie che riguardano le streghe, ma di sicuro ne esistono di diverse.

  1. Come l’hai conosciuta? Te l’ha raccontata qualcuno?

La storia di Franchetta, di Isotta e Magdalena è famosa e l’ho conosciuta al Museo Etnografico e della Stregoneria di Triora. Da lì mi sono poi documentata su alcuni testi. Le leggende e le storie legate al bestiame e ai luoghi le ho conosciute leggendo dei libri sulla stregoneria locale e grazie ai racconti orali della nonna di una cara amica.

  1. Se ti è stata raccontata, ti è stata raccontata in lingua italiana o in dialetto?

A me in italiano, ma la nonna della mia amica le raccontava in dialetto.

  1. E tu l’hai raccontata a qualcuno o la racconteresti a qualcuno? Se sì, in italiano o in dialetto?

Io racconto tutto quello che posso per non spezzare quel filo magico che ci lega al passato. Le racconto in italiano perché tra chi mi segue non tutti sanno parlare o comprendono il dialetto. Tramando queste storie in particolar modo sul mio blog, cosicché siano fruibili dal maggior numero di persone, ma mi è capitato anche di leggerle ad alta voce davanti a diversi ascoltatori.

  1. Credi che ci sia un fondo di verità in questa leggenda?

Quella di Franchetta, delle sorelle Stella e di Magdalena, come già detto, sono storie vere, documentate da testi originali consultabili. Per quanto riguarda invece le altre leggende, credo fosse solo la paura della gente dell’epoca ad alimentare certe storie, un po’ anche per invidia. È vero, però, che le donne d’un tempo si tramandavano la conoscenza delle erbe e delle energie naturali; erano guaritrici e levatrici, e si sa che la loro posizione fosse molto pericolosa. Non era difficile che qualche loro paziente o che la puerpera morissero, e a quel punto diventava semplice pensare subito a malefici e fatture. Non credo nella superstizione. Credo piuttosto nel fatto che ognuno sia artefice del proprio destino e che l’uomo sia in grado, con il proprio pensiero e le proprie emozioni, di creare la propria realtà. Le presunte conseguenze del malocchio, quindi, così come delle fatture, sono per me provocate dalla convinzione degli effetti negativi e del male che si poteva ricevere da altri. In sostanza, ognuno si attirava ciò su cui poneva di più la propria attenzione. Per quanto riguarda le storie e le dicerie legate ai luoghi, in particolar modo quelli con una forte presenza dell’acqua (come Lago Degno, lavatoi e fontane), moltissimo tempo fa nelle mie zone era praticato il culto delle fonti e delle acque, che si credevano presiedute da divinità femminili benevole. Credo che le donne accusate di stregoneria in epoca medievale praticassero culti più antichi, o che semplicemente mantenessero vive le conoscenze legate a tempi remoti di cui s’era già persa la traccia. Difficile risalire alla verità, ma credo che un fondo di realtà ci sia in queste storie, anche se il significato è stato travisato dal cristianesimo e dalla paura della gente dell’epoca.

  1. Per quanto riguarda le fate, invece, conosci qualche leggenda che abbia come protagonista una fata?

Nelle zone in cui vivo si parla poco di fate, ed è un argomento di cui io stessa vorrei sapere di più. La Liguria, infatti, è più famosa per le sue storie di streghe e fantasmi, che non per altri abitanti soprannaturali. Tutto quello che so è che alcuni luoghi sono legati a queste figure, come il Bosco di Rezzo, nel territorio di Imperia, che viene spesso soprannominato Bosco delle Fate. C’è uno scoglio misterioso tra i comuni di Badalucco e Montalto-Carpasio, ancora una volta intitolato alle fate, ma il motivo di tale appellativo si è perso nel tempo. Alcuni storici non ufficiali affermano che un tempo la Valle Argentina fosse soprannominata la Valle delle Fate, ma non si sa da dove e da cosa derivi tale appellativo. So che la Liguria ha in comune con la Sardegna una figura femminile che sosta sulle rive dei torrenti, lavando panni insanguinati. In Sardegna le chiamano Panas e sono donne morte di parto, qui da noi, invece, sono simili alle Banshee irlandesi e sono descritte come fate piangenti e addolorate che fingono di provare strazio per attirare gli ignari uomini di passaggio, al fine di farli impazzire e annegare per poi nutrirsi della loro energia vitale. C’è poi un’altra leggenda legata alle fate che abitano le grotte. Anche questa caratteristica le accomuna alla “vicina” Sardegna, che ha le Janas, ma le nostre fate delle grotte sono ancora una volta di natura malevola. Pare si pettinino di continuo e che non possano perdere il loro magico strumento, pena la perdita della strada di casa. Non aiutano volentieri gli uomini, tutt’altro, ma se questi ultimi aiutano loro, sono disposte ad elargire doni e consigli.

  1. Sai se esistono altre versioni?

Purtroppo no, conosco solo quelle che ho raccontato.

  1. Come l’hai conosciuta? Te l’ha raccontata qualcuno?

Ho conosciuto queste storie sui libri e tramite racconti lasciati sul web da conterranei.

  1. Se ti è stata raccontata, ti è stata raccontata in lingua italiana o in dialetto?

In italiano.

  1. E tu l’hai raccontata a qualcuno o la racconteresti a qualcuno? Se sì, in italiano o in dialetto?

Anche qui, vale la stessa risposta che ho dato alla domanda n. 5.

  1. Credi che ci sia un fondo di verità in questa leggenda?

Anche in questo caso, mi trovo a ipotizzare che il fondo di verità legato a queste storie sia sempre l’antico culto legato a divinità femminili che era particolarmente sentito nelle zone più interne delle valli dell’imperiese. Ci sono molte grotte sulle alture della Valle Argentina, così come anche nella vicina Val Roya. In tali grotte sono stati trovati reperti archeologici importanti che testimoniano il culto dei defunti e della Madre Terra da parte degli uomini primitivi che abitarono queste zone. La grotta era principalmente luogo di sepoltura, sono stati trovati scheletri in posizione fetale, il che fa pensare all’intento di far tornare i cari estinti nel ventre, nel grembo materno della Terra. Tale culto sopravvisse a lungo, insieme a quello delle fonti di cui parlavo poco fa, e, per sradicarlo, il cristianesimo inventò storie di demoni, streghe e fate malvagie, affinché la gente temesse ciò in cui aveva fermamente creduto fino a poco tempo prima.

  1. Credi di essere superstiziosa? Credi che nel tuo paese/città/regione ci sia una forte superstiziosità?

Io non lo sono, ma nella mia zona c’è ancora chi crede alle antiche dicerie e pratica scongiuri, soprattutto nei paesi.

  1. Credi che la superstizione possa giustificare la nascita delle leggende?

Di alcune sì, quasi sicuramente. Prendendo, ad esempio, la storia delle fate lavandaie, immaginiamo che essa sia nata in epoca cristiana, quando la chiesa cercò di estirpare il culto delle acque – e quindi di divinità femminili – che si praticava con convinzione in Valle Argentina. A questo punto, per via del nuovo culto imposto, iniziarono a circolare superstizioni – e quindi leggende – riguardo certi luoghi. Per esempio, dalle mie parti si diceva che le fonti fossero presiedute da draghi (lo testimonia il toponimo della Fonte Dragurina sul Monte Toraggio), e il drago per il cristianesimo era un altro aspetto del demonio e del male. Questa mia tesi la deduco anche dal fatto che in queste zone l’evangelizzazione fu molto capillare, e si può notare dalla grandissima quantità di santuari, chiesette e cappelle sparse in tutti gli anfratti della vallata. E, guarda caso, sorgono quasi tutti vicino a delle fonti e sono dedicati quasi tutti alla Madonna o a sante. Senza contare che a Triora è stato chiamato addirittura un pittore illustre ad affrescare i muri di una chiesetta di montagna, quella di San Bernardino (i dipinti sono attribuiti al Canavesio, anche se non sono firmati), lo stesso che affrescò la vicina Notre Dame Des Fontaines a La Brigue che le è valso il soprannome di “Sistina delle Alpi”. Perché scomodare così tante forze ed energie per una valle piccola e sperduta, mi vien da pensare? Doveva esserci un motivo ben preciso, e secondo me non si discosta tanto dal voler distogliere l’attenzione del popolo dal culto delle antiche divinità femminili, legate all’acqua, alla terra e alla fertilità.

  1. Credi che le leggende si stiano estinguendo?

Credo che l’essere umano abbia un atavico bisogno di raccontare storie e di tramandarle. Purtroppo, però, mi trovo a dover dire che c’è una certa chiusura in questo. Sono in molti a non voler raccontare, vuoi per paura, per superstizione o semplicemente per una scarsa propensione personale, e trovo sia un peccato, perché molto del patrimonio orale va perdendosi. La nota positiva, però, è che sono in molti a volerlo riscoprire, a ricercarlo e a raccoglierlo.

Allora, topi? Che ve ne pare? Io sono proprio contenta di aver avuto questa opportunità. Un grazie a Nicoletta e un bacio a voi!

 

La Carlina, un sole con le spine

La Carlina, topi, è una pianta niente male e oggi ve la presento per benino.

Appartenente alla famiglia delle Asteraceae e delle Compositae, reca con sé un aspetto a metà tra una margherita e una stella. La troviamo tra i 500 e i 2000 metri di altitudine, nei luoghi aridi e sassosi, ma anche in quelli  boschivi ed erbosi, per cui ne deriva che si adatti bene a diversi tipi di ambienti.

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La si può trovare facilmente nei pascoli montani, talvolta qui diventa addirittura infestante. Le spine che la ricoprono e la proteggono, infatti, tengono ben lontani gli animali, e in questo modo la pianta non solo sopravvive, ma si propaga velocemente.

I fiori raggiungono i 12 cm di diametro, motivo per cui sono anche utilizzati come decori in alcune tane, conservandosi per altro molto bene nel tempo. E, a proposito di questo, c’è chi la utilizza come barometro naturale, sapete?

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Infatti, i petali del fiore si chiudono quando l’umidità dell’aria è in aumento, preannunciando l’imminente sopraggiungere della pioggia. E’ una strategia che la Carlina ha escogitato per non perdere il suo prezioso polline, che produce in grandissima quantità. Pare che il comportamento di barometro continui a verificarsi anche a distanza di anni da quando il fiore è stato reciso. Fenomenale, non vi pare?

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Un’altra curiosità legata alla Carlina è l’origine del suo nome, che secondo la leggenda deriva da un uomo illustre: Carlo Magno! Si racconta, infatti, che questa pianta fu rivelata all’antico sovrano come un miracoloso rimedio contro la peste. Il suo esercito, infatti, transitando verso Roma, aveva contratto il morbo e l’imperatore si preoccupava per i suoi uomini. Una notte gli venne in sogno un angelo, il quale gli rivelò dove trovarla e come prepararla e somministrarla ai malati, assicurandogli che avrebbe scacciato il male e salvato i soldati.

Anche i sassoni amavano la Carlina, poiché la consideravano un potente antidoto contro i veleni e una panacea per ogni male.

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Le sue folte spine, inoltre, la rendevano utile a prevenire il malocchio e ogni tipo di male, secondo le dicerie della tradizione popolare.

La Carlina ha un aspetto particolare: somiglia a un cardo, ma da esso differisce. Il fiore è privo di fusto ed è quasi adagiato al suolo insieme a tutte le sue spine, disposte intorno all’infiorescenza come fossero raggi solari.

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In periodi di povertà era usata anche in cucina, poiché simile al carciofo, sebbene sia molto più difficoltoso pulirla dalle spine e lavorarne il cuore tenero.

Che dire, poi, delle sue proprietà fitoterapiche? Le radici raccolte in autunno ed essiccate sono cicatrizzanti, detergenti, diuretiche, digestive e sudorifere, un peccato che non venga più usata in erboristeria.

Le mie amiche api ne vano davvero ghiotte. Facendo un po’ di attenzione, non è difficile vederle tuffarsi letteralmente al centro del fiore e strofinarsi ben benino per raccoglierne il polline. Sembra quasi che si divertano a star lì, che sguazzino in tanta abbondanza con vero godimento.

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A proposito di tutte queste sue caratteristiche, c’è da dire che la Carlina si presenta con un aspetto quasi dimesso. Chi non la conosce, la scambia spesso per un fiore ormai secco o appassito, ma la sua tenacia nel crescere là dove molte piante desistono e dove l’aria è indubbiamente più tersa la rendono un simbolo di purezza e protezione, oltre che di riservatezza e difesa.

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I suoi petali immacolati riflettono la luce dell’astro padre del nostro pianeta, il Sole, e anche il fatto che cresca su terreni molto assolati rimanda al collegamento con la meravigliosa stella che ha permesso la vita nel nostro Sistema Solare. Ecco perché la Carlina è anche simbolo di forza vitale. Con le sue spine, che tengono lontani gli animali che potrebbero cibarsene, sa difendersi da sola, senza l’aiuto di enti esterni, e questo la rende indipendente, quasi autosufficiente.

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Eppure questa apparente chiusura è equilibrata dalla grande voglia di espansione di questa pianta dei semplici: a dircelo è la grande quantità di polline che produce, che la rende assai fertile, insieme alla qualità del nettare che le api ne traggono, considerandola un’ottima mellifera.

Insomma, ancora una volta la Natura dimostra di avere un linguaggio profondo, diverso rispetto a quello a cui si è abituati… ma qualche volta basta semplicemente saper guardare con occhi diversi, topi!

Un saluto spinoso e solare a tutti.

Le Fate lavandaie

Topi, guardate che oggi ve ne racconto una niente male, sono andata a scovare per voi una leggenda che sembra appartenere alla credenza popolare ligure, così come di altri popoli. Lo so che è una storia da brividi, ma sentite qua.

bosco valle argentina fiume

L’entroterra ligure, fatto di monti a picco sul mare, è bagnato da numerosi corsi d’acqua. Alcuni sottili rigagnoli, altri più gonfi e generosi, creano cascate, gole, anfratti suggestivi che non hanno fatto che alimentare la fantasia e il timor panico nei confronti di certi luoghi.

torrente argentina loreto

Vi ho parlato di alcuni di essi su questo mio blog e di come alcuni angoli di valle sembrino proprio ospitare le fate, pare di vederle sbucare da dietro le foglie, tra le onde dei laghetti montani e fra le pieghe degli alberi secolari.

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Ebbene, ci sono spiritelli che accomunano la Liguria con la vicina (ma non troppo!) Sardegna e persino con la più lontana Irlanda, ci avreste mai creduto?

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Illustrazione di Arthur Rackham

Qui da noi non hanno nome, o per lo meno se ce l’hanno è a me sconosciuto, ma in Sardegna sono chiamate Pànas, in Irlanda sono le beansidhe (termine anglicizzato con banshee). Appaiono come lavandaie, con gli occhi spesso arrossati dal pianto… perché questa creatura fatata piange, piange da tempo immemore, riversando le sue lacrime nel corso d’acqua in cui lava i panni.

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Erano credute presagi nefasti di grande sventura, vederne una avrebbe significato morte certa. Nonostante abbiano caratteristiche molto simili tra loro, le fate liguri differiscono da quelle sarde e irlandesi per alcuni tratti.

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Illustrazione di Alan Lee tratta dal libro “Fate” di A. Lee e Brian Froud

Mentre le Panas sono fantasmi di madri decedute di parto e le banshee piangono dall’alba dei tempi per la prossima morte di uno dei membri del clan (o della famiglia) di cui sono protettrici, le fate dei fiumi nostrane preannunciano la morte degli uomini che malauguratamente capitano vicino a loro. Lavano i panni dal sangue immergendoli in acqua, qualche volta si lamentano per il peso della biancheria zuppa.

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L’uomo, allora, mosso a compassione, aiuta la fata travestita da giovane ed esile donna dalla pelle cerulea e dai capelli chiari, ma un incantesimo gli impedisce di fermarsi e continua a lavare finché le sue braccia mortali cedono e si spezzano fino a condurlo alla morte. Si dice compaiano in specifici momenti della giornata, e cioè al crepuscolo, quando la luce del giorno sta cedendo il passo alla notte, ma non è ancora tenebra pura. Questi frangenti erano considerati magici, talvolta pericolosi, da ogni popolazione antica: erano momenti in cui il cosiddetto “velo tra i mondi” si fa più sottile e le creature fatate, gli spiriti e gli elementali potevano essere visti dai mortali.

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Una reminiscenza di queste antiche credenze legate all’acqua è riscontrabile nella superstizione di probabile origine medievale che vedeva i lavatoi come luoghi in cui era più facile essere colpiti dal malocchio. Il lavatoio della Noce a Triora, per esempio, è uno di questi.

Quel che c’è di sicuro è che l’acqua ha sempre avuto una grande importanza per i popoli antichi. Ne ho già parlato in un altro articolo, perciò non mi dilungherò sull’argomento, ma una volta le fonti si credevano abitate da draghi (lo testimonierebbero alcuni toponimi liguri, come la Fonte Dragurina, sul versante del Monte Toraggio) o da esseri divini che le proteggevano.

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Ancora oggi se ne venerano le proprietà sacre e curative, tant’è che spesso nei luoghi in cui abito ci sono madonnine e santuari a vegliare su fiumi e sorgenti, poste lì anche per scacciare le paure umane e il timore reverenziale che spesso si accompagna a questi luoghi.

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Non vi ho spaventati troppo, vero? Dai, non siate fifoni, ché zampettare per valli e per monti resta sempre un piacere!

Vi saluto con un bacio da brivido e vi do appuntamento al prossimo articolo.

 

La bazua spaventata ritira l’incantesimo

Oggi vi racconto un’altra storia, accaduta davvero, nella mia Valle, molto tempo fa.

Siamo nei dintorni di Casa Cuumbeia (Columbera) e ci troviamo nel piccolo paese di Agaggio.

Nonna Rosa aveva da poco partorito una splendida bambina sana, paffuta e rosa come una pesca, affettuosamente chiamata Netin, diminutivo di Anna.

Quella bimba era l’orgoglio di mamma e papà e riceveva sempre molti complimenti da tutti gli abitanti del posto perché aveva un visino bellissimo ed era anche quieta e serena.

Tra quelle persone però, viveva anche una vecchia, che trascorreva la sua vita isolata dalla comunità ed era conosciuta come una signora un po’ strana. Tutti la chiamavano “la bazua” e cioè “la strega”.

Un giorno, questa vecchia, bloccando il passo a Rosa, si avvicinò alla piccola neonata e, con fare malizioso, la accarezzò e le fece diversi complimenti. La Nonna rimase un po’ turbata da quell’incontro ma non ci fece caso più di tanto. Continuò a passeggiare con la sua piccola e poi rincasò.

Quella stessa sera la bimba iniziò a piangere senza nessun motivo e non ne voleva sapere di attaccarsi al seno materno per nutrirsi. Un comportamento che non era certo da lei, sempre allegra e tranquilla. Nonna Rosa iniziò a preoccuparsi un po’ e, quando giunse a casa suo marito, Nonno Augustin, gli raccontò dell’incontro con la vecchia bazua.

Il buon Augustin, dopo aver osservato la situazione e soprattutto quel comportamento anomalo della figlioletta, non ci pensò due volte. Guai a toccargli la famiglia.

Uscì per strada e si diresse immediatamente verso la dimora della strega. Un tempo nessuno chiudeva a chiave la porta di casa, anzi, la chiave veniva lasciata addirittura nella toppa e quindi, quell’uomo, risoluto e arrabbiato, poté piombare nella cucina della megera senza neanche chiedere il permesso. Convinto di avere tra le mani la colpevole del disagio di sua figlia, la prese per il collo e senza delicatezza alcuna le disse《Cos’hai fatto a mia figlia?!》 ma senza neanche aspettare risposta continuò《Vedi di porre subito rimedio altrimenti io…》

La donna, spaventata da tanto impeto, non gli lasciò neanche finire la frase e cercò subito di rassicurarlo dicendo 《 Torna pure a casa! Da questo momento la tua bambina sta bene! 》

Infatti, quando Nonno Augustin tornò a casa, la sua piccola stava bene. Aveva mangiato e ora dormiva serena sognando meraviglie.

Ancora una volta vi chiedo: coincidenze? Realtà? Suggestione? Superstizione?

Non si sa e non si saprà mai ma così andò.

Gli avvenimenti, oggi racconti, pieni di mistero, sono sempre esistiti nella mia Valle. Oggi non se ne sentono più. Come se non accadessero più ma c’è qualcosa ancora, come un velo sottile, che aleggia su questi luoghi e che non intende far dimenticare.

La magia, l’atmosfera, le circostanze di una Valle magnifica, resa ancora più ricca e suggestiva anche da chi, prima di noi, l’ha abitata.

Spero vi sia piaciuta questa storia e ringrazio la mia amica Vale per avermela raccontata.

Vi aspetto per il prossimo misterioso racconto di malocchio, fatture e rimedi che riguardano una cultura antica. A volte una medicina popolare, a volte tradizioni e usi, a volte, invece, il coraggio di chi, per difendere la propria famiglia, affronta anche le streghe. Ma che potere queste bazue!

Un bacio da brivido!

Il neonato e la mano misteriosa

Un mio topo zio, nato negli anni ’50 ad Arma di Taggia, stando a quanto si è sempre detto nel mio mulino soprattutto da parte dei topo nonni, è rimasto vittima quasi sicuramente del malocchio, ma vi racconto bene come andò.

Era una mattina di primavera e mio zio, piccolo e ancora in fasce, dormiva nella camera dei nonni dentro la sua culla. Quest’ultima era posizionata vicino alla finestra, aperta per far arieggiare la stanza e permettere ai tiepidi raggi del sole di entrare e scaldare con la loro luce.

La tana dei bisnonni era una semplice dimora, sviluppata su due piani, con un piccolo giardino attorno. La casa aveva le camere al piano di sopra e a piano terra le sale da giorno, fatta eccezione per la temporanea camera dei nonni che vivevano ancora con i genitori intanto che aspettavano di trovare un nido più adatto a loro. La bisnonna, tra l’altro, avrebbe aiutato volentieri la nuora nell’accudire il suo primo figlio. Il primogenito. Un bel maschio. Sano, pasciuto e rosa come una pesca.

Un tempo, inoltre, si aveva di più l’abitudine di vivere tutti assieme.

Quella mattina, nonna e bisnonna, rimaste sole a casa, si stavano dedicando alle faccende domestiche e preparavano da mangiare per gli uomini che erano andati al lavoro mentre il piccoletto, nel suo giaciglio, ronfava della grossa.

Non so dirvi il perché e non sa dirlo neanche lei, ma a un certo punto, la nonna volle andare a controllare il suo piccolo, cosa che ogni tanto faceva naturalmente (istinto materno).

Fu così che entrò nella stanza spalancando la porta socchiusa e… proprio in quel momento, vide una mano ritirarsi velocemente dal bambino e sparire dalla finestra. Rimase per qualche secondo esterrefatta e si tuffò su suo figlio spaventata, poi si affacciò dalla finestra, ma non vide nessuno. Presa dall’agitazione, iniziò a urlare richiamando la bisnonna che lei, affettuosamente, chiamava – Mamma -. Si usava molto, in tempi passati, chiamare i suoceri come i genitori.

La bisnonna accorse e, molto più calma della nonna, dopo aver capito che il malintenzionato ormai era fuggito, iniziò a studiare la situazione. Prese nonna e bambino e li portò in cucina, fece calmare la giovane mamma e iniziò poi con le domande come un investigatore della serie televisiva C.S.I. 

Nel giro di poco tempo, la metà delle comari della via erano a casa di nonna, radunate come i vecchi Indiani d’America. Ognuna diceva la sua e ognuna si metteva a disposizione.

Ora, dovete sapere che… la bisnonna mia, proprio del tutto normale non era. No, non era pazza, ma molto, molto saggia e ne sapeva una più del diavolo. Rimedi, consigli, guarigioni, etc… nulla aveva la meglio contro il potere di questa superdonna che tutti chiamavano quando avevano bisogno di una soluzione.

Dopo una buona ora di parlantina, si decise di mettersi in attesa e così, le comari amiche della bisnonna, tornarono tutte a casa loro per continuare i mestieri.

Ma si misero in attesa di cosa? Quello che colpì la bisnonna fu che nonna le disse che quella mano sembrava femminile, ma non ne era convinta perché la vide solo di sfuggita.

Bisnonna, certa di aver già capito, scrutò ancora bene il bambino e la culla e poi disse che si doveva aspettare qualche giorno.

Quella stessa sera mio zio iniziò a piangere senza la minima intenzione di smettere e senza nessun motivo apparente. Non mangiò nulla e, durante la notte, dormì poco e niente. Nonna era preoccupata, ma bisnonna le disse di andare a riposare e che avrebbe vegliato lei il bimbo.

Mio zio pianse per tre giorni e tre notti in continuazione, senza mangiare e senza dormire. Nonna era terrorizzata, ormai, ma la grande fiducia che poneva in quella specie di mamma non le fece chiamare nessun medico.

Al terzo giorno, la bisnonna, entrò in azione.

Nessuno sa cosa fece o cosa disse perché si chiuse con il nipote in una stanza disponendo che doveva rimanere da sola con lui.

Dopo parecchi minuti, attraverso la porta chiusa, la nonna e alcune comari che ogni giorno tenevano d’occhio la situazione, sentirono il neonato quietarsi e bisnonna cantare una nenia per farlo dormire.

Quando l’anziana uscì dalla stanza con il piccolo in braccio, caduto finalmente in un sonno profondo, tutte le donne sorrisero.

Bisnonna aveva l’aria stanca e, una volta adagiato il piccolo su una poltrona del salotto, si sedette anch’essa quasi stremata con tutte le amiche attorno a farle aria e a darle acqua fresca da bere.

Da quel momento mio zio tornò ad essere il bimbo calmo e sereno che era stato fino a tre giorni prima e tutti sono sempre stati convinti che si è trattato di un malocchio. Ricominciò a mangiare e a dormire per la gioia dei familiari che continuavano a ringraziare bisnonna per quello che aveva fatto.

Spesso lo faceva per gli altri, ma quella volta accadde a un membro della sua famiglia.

Realtà? Superstizione? Coincidenze? Quello che vi ho raccontato è accaduto realmente, ma ciò che davvero è successo non potrà saperlo mai nessuno.

Questa è solo una delle tantissime storie che appartengono alla cultura e alle tradizioni della mia valle e dei tempi che mi hanno preceduta. E questa vicenda è particolarmente “mia”.

Vi è piaciuta? Credo di sì e sono sicura che anche voi ne conoscete delle belle.

Un bacio misterioso a voi!

Il Malocchio al bestiame e il rito della scacciabazue

Uno dei malocchi più conosciuti e potenti assumeva nella mia Valle, e in tutta la Liguria di un tempo, il nome di perleguja o sperleguja.

La perleguja spaventava molto, poteva colpire i bambini o qualsiasi altra persona. Si credeva venisse mandato da una strega conosciuta come bazua o stria e la vittima iniziava così a sentirsi male. Poteva soffrire di sonnolenza o apatia, poteva dar di matto, essere troppo euforica e, nel caso dei bimbi, potevano rigurgitare il latte di continuo, avere la febbre o essere particolarmente noiosi. Ma questo maleficio riusciva a colpire anche gli animali e quindi il bestiame che spesso, nel mondo di un tempo, era l’unica fonte di sostentamento di una famiglia. Quando ciò accadeva, le bestie iniziavano a comportarsi in modo strano… Erano irrequiete o spaventate, non producevano più latte, i cuccioli morivano, stavano male o fuggivano recando seri danni all’allevatore o al pastore.

Dopo aver capito che sicuramente il tutto era causa di un malocciu (malocchio) veniva chiamata una scacciabazue (donna in grado di allontanare le streghe o i loro malefici) la quale, prendendo a cuore la situazione, con sicurezza e professionalità iniziava il suo particolare rito per liberare quelle creature dalla fattura che le aveva colpite, risanando anche i guadagni del proprietario.

Il rito consisteva nel far bere loro dell’acqua nella quale venivano prima messe delle foglie di Acacia, albero che si credeva essere portentoso nel combattere le energie maligne. Infatti l’Acacia è simbolo della vita, della connessione a Dio e offre la possibilità di passare da uno stato di “ignoranza” alla conoscenza divina. L’ideale per combattere il demonio che si era impossessato di quei corpi innocenti.

Ma quest’acqua non doveva essere un’acqua qualunque. Doveva essere raccolta a mezzanotte sotto la ruota di un mulino. Perbacco! Ho capito che vivo in una struttura molto importante, quindi!

Prima di porgere la tinozza alla mucca, o alla pecora, o a qualsiasi altro animale da esorcizzare, la scacciabazua recitava sottovoce delle parole completamente incomprensibili come a formare strane filastrocche e, dopo aver fatto bere l’animale, se ne andava sicura di se stessa e del suo lavoro portato a buon fine.

Dopo aver bevuto questo liquido addolcito dall’Acacia stessa, le bestie iniziavano a stare meglio e a tranquillizzarsi e la scacciabazue veniva ripagata o barattando qualcosa o in denaro.

Forse è per questo che per me non hanno mai dovuto chiamare l’esorcista. Io bevo sempre nelle fonti dove galleggia qualche foglia di Acacia la quale assume quel meraviglioso color madreperla. È una pianta molto presente nella mia Valle.

Un bacio benefico a tutti!