L’Amanita muscaria, un fungo… che strega

Ci sono funghi da raccogliere e mangiare e funghi solo da ammirare mentre fanno capolino nel sottobosco. Uno di questi è sicuramente l’Amanita muscaria, assai conosciuta e da cui ormai tutti si tengono alla larga.

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Io mi diverto un mondo a fotografarla, perché coi suoi colori attira l’attenzione durante le passeggiate e crea scenari fiabeschi, stregati. Di questo fungo oggi voglio raccontarvene qualcuna, perché è davvero particolarissimo.

Appartiene alla classe dei basidiomiceti ed è della famiglia delle Amanitaceae. Alcuni esemplari possono raggiungere anche i 25 cm di altezza e il cappello misura dagli 8 ai 20 cm di diametro, sono veri e propri ombrelli per le più piccole creature del bosco. Allo stadio giovanile, appare chiuso in un velo che assume forma di uovo, il quale poi si apre per lasciar fuoriuscire il corpo fruttifero del fungo, ovvero il cappello. Nel suo sviluppo, il velo può restare attaccato al fungo stesso formando un caratteristico anello sul gambo, e parti di quel velo formano anche le vescicole bianco-giallastre tipiche del suo aspetto, che fanno contrasto con il rosso acceso. Talvolta il cappello può essere anche di un rosso meno intenso, quasi aranciato, e presentare meno vescicole o addirittura non averne più nemmeno una.

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Cresce in estate e in autunno nei boschi di conifere e latifoglie, e difatti nelle zone umide della Valle Argentina non è difficile imbattervisi. In particolare, predilige Pioppi, Abeti, Pini e Betulle. Il nome “muscaria” deriva dal suo collegamento con le mosche: contiene, infatti, una sostanza che pare sia moschicida. E’ un fungo spia della presenza del Porcino, per cui, topi, aguzzate la vista!

Un tempo in Italia l’Amanita muscaria si usava in cucina, consumata previa preparazione adeguata per eliminare tutte le sue sostanze più pericolose, ma è oggi considerato non edibile.

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C’è un motivo, infatti, se è conosciuto con il nome di ovolo malefico o anche come fungo dei pazzi. Infatti, era già conosciuto e utilizzato tra il 2000 e il 1000 a.C per le sue proprietà allucinogene, soprattutto nel nord dell’Europa. E’ a tutti gli effetti una sostanza psicoattiva, la più antica che sia stata utilizzata nella storia, topi.

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E per cosa lo usavano i nostri antenati? L’uso che se ne faceva era soprattutto rituale, era un fungo assai conosciuto dagli sciamani, che lo assumevano in quantità precise e ridotte e preparato in un determinato modo (guai a provarci in tana, topi! Da molti, infatti, è considerato letale) per alterare il loro stato di coscienza e connettersi al mondo degli spiriti per chiedere loro aiuto nella risoluzione di problemi riguardanti la comunità, la sopravvivenza, la salute di un individuo e per molti altri motivi. Era, pertanto, ritenuto magico a tutti gli effetti, poiché permetteva di accedere a un regno invisibile, quasi divino. I suoi effetti sono più o meno potenti e dannosi in base al luogo in cui cresce, cosa che rende la portata della sua tossicità difficilmente classificabile, ecco perché è ritenuto molto pericoloso.

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Nel medioevo divenne simbolo del male – da qui il soprannome ovolo malefico – e del demonio, ma in verità è sempre stato un simbolo positivo, legato alla magia e al soprannaturale. Quante volte avrete visto i topini disegnare funghi rossi a macchie bianche? L’Amanita muscaria è infatti collegata al mondo fatato, nel folklore è la casa di gnomi, folletti e piccoli abitanti magici.

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E in tutto questo brulicare di leggende, credenze e usanze legate all’Amanita muscaria, volevate non ci fosse qualche riferimento alle nostre care streghe? Eh già, topi! Pare la conoscessero anche loro, almeno stando a ciò che viene tramandato dagli anni bui dell’Inquisizione. Come ben sapete, la Valle Argentina vanta storie di streghe di una certa importanza e, se quello che si racconta è vero, può essere che questo fungo fosse conosciuto e utilizzato dalle donne di conoscenza d’un tempo.

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Si dice che le streghe usassero un particolare unguento dalla ricetta pressoché segreta, un preparato assai particolare, che utilizzavano appositamente nelle notti dei loro Sabba all’aria aperta. Tale unguento serviva loro per volare, ma non nel modo superstizioso in cui si è soliti credere. L’unguento, infatti, conteneva sostanze allucinogene in grado di provocare visioni, tra le quali la sensazione del volo, e sembra che un ingrediente fosse proprio l’Amanita muscaria.

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Il suo collegamento con le streghe non finisce qui, topi! A causa del suo crescere in cerchio (come accade a molti altri funghi, d’altronde) lo ha reso simbolo dei cerchi delle streghe, ritenuti pericolosissimi nell’antichità. Si diceva, infatti, che chi vi finisse in mezzo avrebbe perduto il senno, avrebbe ballato fino allo sfinimento e alla morte o sarebbe stato trasportato in un altro mondo, popolato di demoni ed esseri infernali. Anche i pastori si guardavano bene dal far pascolare il loro bestiame all’interno di simili cerchi, poiché gli animali avrebbero contratto malattie e prodotto latte velenoso dal colore rosso sangue.

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I contadini lo chiamavano picchio di Marte, poiché tra i suoi effetti c’è quello di rendere chi lo assume bellicoso, guerresco e più forte del consueto, tant’è che veniva consumato dai guerrieri prima di una battaglia, soprattutto in ambito vichingo, o almeno così si tramanda.

Quali che siano i suoi effetti e gli usi effettivi che se ne sono fatti in passato, ciò che per me è certo è che resta un fungo meraviglioso, dall’aspetto magico e fiabesco, stupendo da fotografare.

Un bacio stregato a tutti!

 

 

 

Badalucco – Porta Santa Lucia in notturna

Oggi voglio farvi conoscere la porta di Badalucco in notturna, chiamata Porta di Santa Lucia. Vi ci porto di notte perché la trovo davvero molto suggestiva immersa nell’oscurità, e poi si affaccia su un panorama davvero stupendo, se visto in alla sola luce dei lampioni.

Troneggia sul meraviglioso Torrente Argentina, che brilla di più alla sera, luccicando grazie alle luci artificiali e soffuse del paese.

Porta Santa Lucia è infatti anche la porta di un ponte omonimo, il quale permette di arrivare in Regione Ortai attraversando il fiume, appunto.

Guardate che bellezza, che atmosfera intima e antica. Guardate che luminosità particolare offerta anche dalla luna.

Questa porta, anticamente entrata del borgo assieme ad altre quattro porte, è sorretta dal ponte romano ad archi diseguali che è stato costruito nel 1551 e ultimato nel 1606.

Si tratta della porta a Sud che permetteva l’entrata in paese da chi arrivava da Taggia o dal mare.

Una porta che è anche una piccola e assai minuta chiesetta e dedicata anch’essa alla Santa alla quale gli abitanti di Badalucco sono molto devoti, in quanto guaritrice degli occhi e dei problemi a essi legati. Sotto di essa infatti si trova una targa che riporta la seguente scritta “Divae Luciae Lux in Via Fa B. 1336 Rest. 1936″ che dovrebbe voler dire “Luce per Santa Lucia” o qualcosa di simile.

Attraversando questa porta e calpestando i ciottoli dei quali è formato il lastricato, si prosegue per un sentiero che conduce anche al cimitero, oltre che a un rinomato ristorante, “Il Ponte”, e un nuovo agriturismo, “L’Adagio”. L’attraversamento del ponte così amato, come simbolo dell’”ultimo viaggio”, rende questo luogo ancora più caro per i badalucchesi, nel mio dialetto chiamati anche baucogni.

Un tempo, questa porta si trovava tra mura difensive in grado di proteggere l’abitato dalle irruzioni dei nemici, ma oggi dei muraglioni del medioevo non è rimasto quasi più nulla.

Porta Santa Lucia accoglie chi entra in Badalucco e non si può non vederla. Innalzata sopra la strada, permette anche di far notare, al suo avvicinarsi, di una stradina recentemente rifatta che costeggia il fiume abbracciando il centro del paese e mostrando una natura meravigliosa.

Pare di essere ancora in tempi antichi. Le casette in pietra che si affacciano sul torrente sono davvero carine.

I Conti di Ventimiglia, tra i quali il famoso Oberto, scelse proprio Badalucco come luogo di residenza per molto tempo.

E’ un paese molto particolare e bello già solo per come accoglie i visitatori proprio grazie questa porta, che un tempo rappresentava il punto di accesso obbligato. La strada che si percorre oggi, infatti, non esisteva.

C’è silenzio attorno, ma questa zona è viva. C’è gente che porta il cane a spasso per l’ultimo giretto della giornata, c’è un vociare calmo che esce dai bar e qualche auto che passa lenta. Tutto è splendido ed è magnifico stare un po’ qui seduti, su queste panchine in pietra appoggiati a questo tavolino, proprio sotto Porta Santa Lucia.

Che ne dite, topi? M’invidiate un po’, vero, per questa serata prima di rientrare in tana? Lo so, ma sono stata brava e generosa, ho portato con me anche voi! Squit!

Una fontana, una chiesa e una porta

Oggi, andiamo nella località più antica, presumo, di questo paese. Una fontana, una chiesa e una porta topini. Tre luoghi assai famosi in quel di Taggia.

Tre tappe SONY DSCda non sorpassare, ne sottovalutare, senza prima essersi fermati a capire dove siamo. Una vasca di pietra, guardate. Sembra quello e nulla più. Semidistrutta, che sarà mai? Ahi, ahi, fermi! Non è certo un qualcosa di banale sapete? Questa è una splendida fontana quattrocentesca eretta in questo paese nel 1555. E’ la fontana dell’antico acquedotto di Taggia, punto di arrivo di un canale tardomedievale che dava acqua alla parte alta (e oggi anche la più vecchia) di questo bellissimo e storico borgo. Venne qui posizionata per volere del Podestà Melchiorre Da Monleone e, in Taggia, c’èSONY DSC probabilmente un’altra vasca appartenente allo stesso periodo situata tra il quartiere di Piazza Grande, all’angolo tra Via Littardi e la salita di Via Nicolò Calvi, in quanto si dice che le vasche “ordinate” fossero due. Davanti a lei, uno dei vicoli più impervi del paese, un ciottolato grigio che sale, senza remore. Si è circondati dalla pietra pura, dalla storia, le cose antiche, dal sole caldo e, qualche passo dopo, anche dagli Ulivi.

E’ un bellissimo e vecchioSONY DSC campanile quello che vediamo tra i rami di un verde militare. Un campanile che sembra di pietra calcarea che riveste i mattoni pieni. Una campana, in ottone ormai ossidato, fa pendant con le fronde degli alberi a noi cari e una magra e sottile croce pende leggermente all’indietro. E’ la campana che risuonava negli orti e nelle fasce coltivate da sempre. Il panorama inizia ad essere bellissimo. Un muraglione e poi eccola, bianca, come una chiesa messicana, la piccola chiesa di Santa Lucia. Una chiesa che, a vederla da fuori, sembrerebbe inusata da tantissimo tempo.

Il portone in legno, è devastato, fatiscente, persino pasticciato. Le pareti esterne, godono davvero di ben poca manutenzione ma, nonostante tutto, è affascinante. Una chiesa in bilico su ampi gradini di mattonelle granata e piatti sassi, le sbarre alle finestre in spesso ferro battuto SONY DSCe, di fianco, un muro di epoca romana. Essa viene considerata uno dei titoli più antichi tra tutte le chiese di Taggia. L’aspetto attuale, come recita il cartello di latta verde che la descrive, è frutto di ricostruzioni cinquecentesche rinnovate da interventi barocchi. Vi è ancora oggi, al suo interno, conservata in modo esemplare, l’originale ed elegante acquasantiera di un tempo e, in cima al suo modesto altare, un bellissimo ed enorme dipinto. Oggi, questa chiesa, è sede della Compagnia di SantaSONY DSC Maria Maddalena. Questa topini, è la prima chiesa costruita dagli abitanti di Taggia. Una chiesa costruita fuori dalle mura di protezione, ardentemente desiderata ma, al di qua dei muraglioni non c’era abbastanza spazio.

Questa chiesa, si trova tra due porte importantissime: Porta Soprana, più distante, in cima al paese e che oggi non conosceremo, e Porta Sottana, subito sotto questa piccola chiesetta, sotto la quale passeremo insieme per andare al centro del paese. La parte di paese più moderna. Quest’ultima portaSONY DSC, è chiamata anche Porta di Santa Lucia, prendendo il nome dalla chiesa che vi ho appena descritto. Anche la salita si chiama così. Per arrivarci, occorre discendere la scalinata soleggiata. Da fare in salita non è uno scherzo, ve lo assicuro. E il punto è strategicoSONY DSC; di fronte a noi, in lontananza, si può vedere Castellaro e, dietro, la cresta del monte che porta alle Neviere e a Santa Rita e anche all’Eremo della Maddalena. Una vista stupenda. La discesa, ci conduce dritta, dritta, sotto ad un arco splendido.

Pensate, assieme alla sua “Porta” antagonista, questo è l’accesso più antico della città. E’ tutta in pietra e, le pietre, soprattutto quelle che formano l’arcata, sono messe con grande maestria, lo vede anche una come me che non se ne capisce nulla di architettura. Ti chiedi come possano star lì, ferme, a testa in giù. Dall’alto, a scendere, sono prima larghe e piatte e poi diventano tondeggianti o quasi cubiche. Grosse. Immagino pesantissime.

Il sole fa fatica ad entrare nel centro di questa galleria. Deve fermarsi prima, forse non è gradito. Per attraversare tutta Porta Sottana, bisogna percorrere parecchi passiSONY DSC. Il sole, non riesce a scaldare l’unico portone sotto di lei. Un portone color mogano che, in alto, su un bellissimo e lucido blasone di ardesia, nera come la pece, porta i simboli della chiesa e del paese. Di parecchi di questi stemmi, la Repubblica di Genova, ne volle la distruzione.

Originario dello stesso periodo di Porta Sottana è il famoso castello di Taggia sul quale sventola la bandiera del paese. Questo SONY DSCtunnel, è stato rimaneggiato nel corso dei secoli XVI e XVII e, ai tempi, permetteva un comodo collegamento con un’altra fontana situata in questa zona, che dava acqua alla popolazione. Siamo nel centro storico topini, la vita non era semplice e, ancora oggi, bisogna avere gambe buone ma assaporare tutte queste tradizioni e respirare l’aria di un tempo ripaga ogni fatica.

E ora topi, lo avrete capito, dobbiamo per forza andare a riposare; abbiamo sgambettato anche oggi e abbastanza direi! Se volete, domani vi porterò in un posto nuovo!

Un bacione a tutti, la vostra Pigmy.

M.

Malva, non solo per ammorbidire.

Il nome di questa pianta, Malva Silvestris, appartenente alla famiglia delle Malvaceae, deriva proprio dal termine latino “mollire” che vuole appunto intendere “rendere morbido”, non per niente è la pianta dalle capacità emollienti più potenti chSONY DSCe ci sia in natura. Lo sapevano bene già Ippocrate, Plinio e tutti i Greci che la chiamavano Mallachè, morbida. appunto. Anche le sue foglie vellutate e i suoi delicati fiori sono morbidissimi. E’ una pianta delicata. Vi sieteSONY DSC mai chiesti come mai sia usata per dentifrici o detergenti intimi?  E’ ricca di vitamina A, B e C, mucillagini, tannini, flavonoidi e malvina, la sostanza più lenitiva che possieda. Viene utilizzata anche per le sue doti lassative e idratanti per l’intestino. Malva è così gustosa e utile che per i poveri divenne un cibo quotidiano. Ancora oggi, credetemi, è ottima se lessata nelle minestre o cruda nell’insalata. Calmerà i vostri nervi, se quel giorno li avete a fior di pelle! E’ talmente delicata da poter essere utile, senza abusarne, anche per la stitichezza, quasi sempre presente durante una gravidanza, per esempio. E poi ha un’altra proprietà che tutti conosceteSONY DSC: disinfiamma. Non l’avete mai messa sulle gengive o su un dente dolente? Quante volte avete pregato perchè potesse prendere il posto del dentista? Bene, noi topi la mettiamo su qualsiasi tipo di ferita, infiammazione o infezione. E, credetemi, funziona! Non fa miarcoli, ma funziona, davvero.

Quanta Malva ho raccolto per tutta la famiglia! E’ molto usata nella mia Valle. Spesso la si vede appesa fuori a essicare raccolta in grossi mazzi. Mettetela all’ombra, però.

La Malva combatte, rinfresca e attenua anche le piccole infiammazioni della pelle del viso, come l’acne, l’herpès, un brufolo e naturalmenteSONY DSC le punture di insetti. Malva è una pianta che non arriva a un metro d’altezza, a volte con foglie larghe come una padella, altre piccoline, ma sempre protette da sottilissimi peletti. Le foglie piccine usatele tritate, fresche o secche, da mettere nei decotti o nelle tisane, tanto non sono abbastanza grandi da fasciare una parte dolorante.

Volete anche la ricetta di un buon té serale? Fate bollire le foglie e i fiori di Malva per 10-15 minuti. L’acqua diventerà verde e ve la berrete, bella calda e senzaSONY DSC zucchero, dopo averla filtrata. Lo zucchero fermenta e visto che, come vi dicevo prima, è ottima contro i disturbi intestinali e gastrici è bene farla lavorare senza interferenze. Non buttate via ciò che avete strizzato nel colino! Se accanto a voi c’è qualcuno con un disturbo alla schiena, un dolore reumatico, un nervo infiammato… mettetelo su una garza e fategli un impacco di Malva cotta.

Malva è perenne, dal portamento cespuglioso, spesso eretto, ma talvolta decide di sdraiarsi sui prati in cui nasce formando una specie di morbido tappeto. I fiori, che spuntano all’ascella delle foglie, sono di colore rosa-violaceo con striature più scure. Colorano i prati. Malva, così delicata eppure così forte, è fragile ma tenace.

Nel linguaggio dei fiori simboleggia la forza dSONY DSCella giovane madre. Essendo riconosciuta fin dall’antichità come una panacea di tutti i mali, la si è potuta paragonare alla protezione totale e affettuosa che solo una madre sa avere nei confronti del proprio figlio. Attualmente il linguaggio che esprime è quello di una calma pacatezza e di un amore materno ricco di dolcezza, saggezza e caparbietà, doti da lei conquistate già nei primi anni dell’800 grazie agli studi effettuati da monaci, medici e signorotti.

E, come una madre, non smette di agire finchè non vede guarigione. “Malva vuol bene all’organismo umano”, si è detto. E vuol bene anche all’amore! Potete immaginare le gentildonne di un tempo che, credendola altamente afrodisiaca, ne legavano alcuni pezzi di radice ai genitali del nobile consorte? No, non me lo sono inventato. Forse era iIl viagra di un tempo, perchè no?

Pensate che, invece, nel Medioevo, soprattutto tra le streghe, la reputazione di Malva era esattamente l’opposto e veniva usata per l’effetto contrario, ossia per pozioni volte a inibire il desiderio sessuale dell’amato che, probabilmente, aveva ahimè scelto un’altra fiamma con la quale amoreggiare. Devono esssersi resi conto solo in seguito che queste pozioni non funzionassero e che un mazzetto di Malva appeso ai “gioielli” del partner avesse, in realtà, una grande efficacia in mabito riprouttivo.

Torniamo alle cose serie, anche se queste non sono bazzecole. Oggi, vi sto descrivendo un’erba fantastica. Carlo Magno la definì addirittura come “pianta obbligatoria” nella sua ordinanza “Capitulare de Villis”. Pianta eliotropica, come il Girasole, orienta i suoi fiori verso il sole. E’ una pianta dolce, amata da tutti gli insetti. Il suo profumo tenue non dà fastidio – mi duole dirlo – nemmeno alle zanzare. Fiorisce durante l’estate e l’autunno, perciò i nostri amichetti alati possono farne grandi scorpacciate. Anche i nostri topini andrebbero trattati con detergenti o prodotti alla Malva, perchè sono i più delicati e, inoltre, le sue mucillagini riducono le proprietà schiumogene di alcuni tensioattivi.

Che altro posso raccontarvi, di lei? Penso di avervi detto tutto, ma spero di avervi reso partecipi di alcune proprietà di Malva che magari non conoscevate ancora. Vi mando un bacino e vi aspetto per il prossimo appuntamento nel magico mondo della flora… ops, quasi dimenticavo! Malva, il mercoledì, ha un profumo più intenso rispetto agli altri giorni della settimana, ma non chiedetemi il perchè: misteri della natura!

Baci.

M.

Indietro nel tempo

Ed eccoci qui, giunti al grande giorno!

Quest’oggi potremmo vedere, anzi ammirare, tutti i rioni tabiesi che si sono impegnati al massimo per far sì che questa giornata fosse indimenticabile. E allora, topi, tra poco vi ritroverete catapultati nel 1600, in un mondo sconosciuto e in un’epoca lontana.

I taggesi iniziano a mettere in atto ciò che vedrete mesi e mesi prima. È un lavoro che dura interi giorni e tiene occupata tutta la comunità. Gli sforzi sono incredibili! Oltre a cucire abiti d’epoca di gran valore, radunare tutta l’attrezzatura, sistemare i luoghi eliminando o coprendo tutto ciò che è indice di modernità, ricercare oggetti antichi, gli abitanti di questo borgo devono inventarsi, scrivere e imparare a memoria delle scenette, rigorosamente in lingua dialettale e inerenti a fatti o leggende della Valle Argentina. Preparano poi il loro “set” nel miglior modo possibile. Eh sì, non lo sapete ancora, ma illustri professori di storia e intenditori di belle arti dell’Università di Genova si aggirano curiosando e valutando, per dare poi un giudizio che porta al premio finale. I giudici della giuria sono molto severi quindi, e a ragione, quindi tutto è davvero come un tempo.

L’atmosfera che si respira, credetemi, è indescrivibile. E allora eccole le loro storie: il rione Piazza Nuova con “La Profezia”, il rione Orso con “Tormenti e…supplizi!”, il rione Pozzo con “A ragia de cheli ch’i travajia” (la rabbia di quelli che lavorano), il rione Pantano con “FantasiMe?!?”, il rione Paraxio con “La buona novella”, il rione Santa Lucia con “U pan de Paulin pegàu d’oiu d’uive tagiasche” (il pane di Paolino pucciato nell’olio di olive taggiasche), il rione San Dalmazzo con “Il mistero della sorgente”, il rione Trinità con ” Vizi e stravizi”. Sono una più bella dell’altra.

Su per la scalinata di Via San Dalmazzo le comari ciapettano (sparlottano) sui vari amori di quello e quell’altro, mentre il povero Bartolo chiama invano la sorella Luisa, uccisa dai briganti e divenuta un fantasma.

In una traversa di Via Lercari, invece, si può notare come venivano trattate, un tempo, le donne che si credevano essere streghe. Venivano punite con torture innominabili, mentre tutto il popolo urlava loro contro frasi oscene. Le poverine – perché di questo si trattava – venivano giudicate di atti in realtà mai avvenuti. Certe persone recitano così bene queste scene e le loro parti da meritare davvero un premio.

In piazza della Santissima Trinità un nobile, stanco di essere considerato solo per i suoi soldi da amici e parenti, si finge morto per farsi una grassa risata, ascoltando i litigi degli eredi, compresi la moglie adultera e il fratello soprannominato Bracciocorto.

Ebbene sì, se una scenetta ti fa rabbrividire per come venivano trattate certe persone, l’altra invece ti fa spanciare dalle risate. Vi rendete conto che ci sono teatrini nei quali lavora un gruppo di trenta-quaranta persone? Capite cosa vuol dire, alla sera, finito di lavorare, riuscire a ritrovarsi tutti quanti insieme per le prove? È davvero incredibile a pensarci.

In alcune rappresentazioni, poi, compaiono addirittura  bambini o neonati, stanchi morti, ma che con l’orgoglio dipinto sul viso stanno lì a recitare vicino alla mamma o al papà. E dovreste vedere i loro vestitini che spettacolo!

Vengono coinvolti persino gli animali. L’asinello, le galline, le pecore, i gatti… Tutti partecipano ai festeggiamenti di San Benedetto!

Si possono ammirare gli antichi mestieri, come l’arrotino, il podestà, la fattucchiera, la balia. Le persone vestono questi panni trasformandosi radicalmente. Pensate che per la sedicesima volta, ossia per il sedicesimo anno consecutivo, si è svolta la cerimonia di consegna della “Sequella”.  Il termine antico “Sequella”, registrato nel 1381, indicava il giuramento di fedeltà e solidarietà da parte di ogni cittadino nei riguardi del proprio paese e del Podestà. Questo perchè i taggesi, senza alcun obbligo e senza alcuna retribuzione, hanno volontariamente preso a cuore una causa comune e portata a termine con massima dedizione. Non ci sono parole, vero? Tutte queste ambientazioni, che ogni anno cambiano insieme al copione, prendono spunto da fatti accaduti realmente, da leggende che ci accompagnano fin dalla tenera età o da fiabe e canzoni della mia Valle. È bellissimo il modo in cui riescono a coinvolgere tutti, anziani e giovani.

Le nuove generazioni si ritrovano così a dover recitare in una lingua che ormai si sta perdendo. Mi chiedo, a proposito, cosa abbiano compresp i turisti e gli stranieri di quelle stesse scenette alle quali ho assistito da spettatrice, perché il nostro dialetto, come tutti gli altri, non è di facile comprensione per chi non lo mastica ogni giorno almeno un po’.  Ridevano e applaudivano entusiasti, coinvolti dalla rappresentazione. Ma sapete cosa penso? Non ci vuole molto a capire il talento e a farsi trasportare dall’atmosfera.

Infatti, camminando tra una scena e un’altra dello spettacolo itinerante, a un certo punto si sente urlare: è la rivolta del popolo contro chi impone troppe tasse, lasciandolo morire di fame. E allora giù a tirar verdura addosso a chi comanda e… questo scoppio? Ma sì, sono gli archibugi dei rivoltosi che sparano come delle bombe e fanno tanto fumo! E quel canto che, mentre si passeggia alla ricerca di una nuova emozione, ti rapisce a prescindere da quale sia la lingua che parli. Mentre corri tra gli spettacolari vicoli del centro storico, su e giù per i carrugi zampettando su scalini di pietre e mattoni rossi, inizi a salutare. Sì, saluti cortesemente ora il buon frate, poi il povero schiavo, t’inchini davanti al nobile e scappi di fronte a una guardia, giri veloce l’angolo e davanti a te c’è un fantasma…. oh Santo cielo, ma dove sono capitata?! A Taggia, signore e signori, in un mondo magico, in un giorno in cui si è tutti amici e, se chiedi un’informazione, ti viene risposto con una riverenza. Sui volti sono dipinti sorrisi e un magnifico sole inaspettato ha reso tutto ancora più gradevole.

Certo, la giornata è stancante. Alla sera, dopo aver trascorso tutto il giorno a trottare, non si sentono più le gambe, ma ti senti diverso, pieno di gioia. In questo giorno, topini, ho fatto quasi 400 foto. Scattavo a tutto andare, volevo immortalare ogni momento, ogni costume. Sono stata ore ad aspettare su un muretto il momento della premiazione per catturare in uno scatto i vincitori, ma non vi svelerò ancora chi si è aggiudicato la coppa più grande. Sarà una sorpresa per la prossima volta, quando vi parlerò del famoso corteo storico e ve ne mostrerò le immagini.

E allora adesso andiamo in piazza Cavour ad attendere l’arrivo dei protagonisti di questa giornata e, nell’attesa,  sgranocchiamo un canestrello o un biscotto al finocchio, due tipici prodotti di questo paese, uno più buono dell’altro.

Allora, che ne dite? Vi è piaciuta questa avventura in maschera? Verrete a vederla dal vivo il prossimo anno? Io ve lo consiglio vivamente. L’unico avviso che vi do è quello di giungere al mattino presto, o non troverete parcheggio. È incredibile il numero delle auto che arriva qui in questo giorno.

Potrete anche approfittarne per acquistare artigianato locale. Nella via principale del paese, mentre alcuni inscenano momenti di vita quotidiana di un tempo, altri mettono sul banco del loro mercatino fantasticherie da comprare. C’è chi vende oggetti suonando la fisarmonica o chi cucina davanti ai passanti piatti prelibati, chi si è inventato qualcosa di stravagante e chi urla per farti vedere uno scudo medievale “che non troverai in nessun’altra parte del mondo!”. A passeggiare tra i banchi, ecco i cavalieri su splendidi cavalli bardati, e poi ancora i falconieri che lasciano liberi per la città i loro obbedienti rapaci. Quasi commuovono, pendono dalle labbra del loro amico umano. Questi ultimi personaggi che vi ho descritto non recitano una parte: vivono proprio così, ma in questo giorno possono sfoggiare le loro passioni davanti a un intero popolo.

E voi, cosa vorreste essere quel giorno? Un conte? Una damigella? Un vescovo? Una serva? Una guardia? Scegliete pure… Quel giorno è il vostro giorno. E per un intero anno non si ripeterà.

Non vedo l’ora che sia l’anno prossimo e mi vien da ridere, se penso che tutto è appena finito eppure non passerà molto prima che i taggesi si rimetteranno all’opera per affrontare nuovamente la manifestazione del 2013. Chissà cosa inventeranno per la diciasettesima edizione!

Ci tocca aspettare e, nel mentre, vi farò continuare a sognare con un altro post sul magnifico corteo che si è tenuto subito dopo. Continuate a seguirmi, quindi, anzi, continuate a seguire questo caloroso impegno del paese di Taggia.

Alla prossima!

 

M.

Villa Curlo – la Villa del Giudice

Oggi topi andiamo a Taggia, paese ricco di storia, leggende e caratteristiche costruzioni.

Al di là del torrente, chiamato Argentina, al di là del ponte romano, al di là delle coltivazioni di Pitosforo e Ruscus, s’innalza maestosa Villa Curlo, una splendida villa settecentesca di colore rosa. Il rosa tipico delle case della Liguria.

Qui, dove oggi sorge questo nobile palazzo, nel 1489 venne firmata la pace tra i Guelfi, i Ghibellini e i Doria e, più precisamente, il giorno 13 del mese di Aprile.

Questa villa, considerata una specie di castello, apparteneva al giudice G.B.Curlo e oggi è usata come sede per musei ed eventi. Vorrebbero farla diventare sede della Biblioteca Comunale, mi sembra di aver capito, ma i lavori di ristrutturazione non sono ancora iniziati ma speriamo comincino presto. Come altre parecchie belle opere a me pare un pò lasciata andare al suo destino.

L’imponente caseggiato gode di una bellissima loggia e di un parco immenso.

Ovviamente il luogo è chiuso e non possiamo entrare ma ci basta affacciarci dal cancello verde, in ferro, per respirare tutta la sua storia e la sua nobiltà.

Un lungo viale la circonda oltre le inferriate che la proteggono e si scorge un giardino che un tempo doveva essere bellissimo con tante piante grasse e alberi secolari.

Essendo situata dopo il ponte romano di Taggia, è stato scritto in rilievo, sull’arco che porta al parco, “Villa Ponte” e, subito dietro questa prima arcata, si erge la cappella dotata di altri quattro piccoli archi. Da qui si può vedere tutto il centro storico di Taggia. E’ bellissimo, la chiesa di San Benedetto, la chiesa della Maddalena, la Fortezza con la bandiera gialla e rossa che si muove seguendo il vento.

Siamo davanti ad un Palazzo protagonista di molti dipinti e studiato anche dall’Accademia delle Belle Arti. Al suo interno infatti, si dice siano parecchi gli affreschi del pittore Cambiaso, un artista che ha decorato tantissimi monumenti e chiese nella zona della Liguria di Ponente. Non c’è costruzione storica, qui dalle mie parti, che non contenga un suo dipinto.

Sul suo portone principale la scritta, anzi la sigla, I H S, accompagnata da una croce e abbellita da piccole pietroline grigie. Il Cristogramma usato tantissimo nell’arte figurativa già fin dopo il Medioevo.

Sopra ad un piccolo tetto di Ardesia, costruito proprio a proteggere questa scritta, un’altra croce in ferro e, su un’altra porta di legno, pare scorgere le iniziali di Maria, la Madonna. Quest’ultima porta è particolare perchè è circondata da mattonelle in marmo grigio alternate ad altre in marmo rosso e lastre di Ardesia anch’esse. Un lavoro, tipo puzzle, ricco di fascino e originale. Non ci sono in zona altri caseggiati con questa caratteristica.

Davanti a Villa Curlo ci fa strano vedere la piccola e vecchia fontanella con, l’acqua completamente ghiacciata nella sua vaschetta. Fa freddo, un freddo che poche volte, nella mia valle, si è manifestato così pungente e prepotente.

Bellissimo invece è stato vedere, di fronte a questo nobile Palazzo, una pianta di Kiwi senza più foglie, avvinghiata ad un grande albero di Nespole. Un qualcosa che, a prima vista, sembrava quasi un raro incrocio.

Spero che anche questo viaggetto storico che vi ho fatto fare vi sia piaciuto. Ri-preparatevi però perchè, come sempre, non sarà l’ultimo quindi, tenetevi pronti, tra non molto si ripartirà per un’altra avventura nella mia Valle, forse ancora più affascinante di questa.

Io rimango ancora un pò qui ad annusare l’aria che profuma di cultura e di un passato che ritorna, che non vuole essere dimenticato. Inizio a vedere particolari personaggi vivere questa Villa ma… ma questo sarà un altro articolo.

Un abbraccio la vostra Pigmy.

M.

 

Cos’è la Strada Marenca?

O Marenga che dir si voglia.

Vorrei riportarvi quello che, a Carpasio, è scritto su una tavola nella piazza del centro del paese. La spiegazione di ciò che era ed è, la Strada Marenca ossia la strada della mia Valle che si inerpica per i monti e non solo, alla quale, è giusto, dedicare un post assaporando ciò che ogni week end può offrirci ospitandoci.

La Strada Marenca, strada che porta al mare, è stata un’importante Via di Comunicazione fra Imperia Oneglia e Imperia Porto Maurizio con le Valli Monregalesi.

Snodandosi tra i crinali e le mezze coste dei monti, per un lungo tratto elevata oltre i 2.000 metri s.l.m., con le sue numerose diramazioni, ha segnato la vita delle nostre comunità, dall’alto Medioevo, sino all’avvento delle strade carrozzabili.

Lungo la Strada Marenca si inserivano tanti sentieri: risalendo le valli del Vermeragna, del Pesio e dell’Ellero quindi, attraverso le Alpi Liguri, discendevano lungo i crinali delle valli Arroscia, Argentina, Prelà, Impero, Maro, sino al mare.

Il percorso, necessariamente, variava al mutare delle stagioni, degli eventi atmosferici, delle contingenze economiche e politiche.

Sui percorsi di questa via venivano trasportate, a spalla o a dorso di mulo, le merci necessarie alla vita quotidiana: soprattutto il sale indispensabile non solo per insaporire i cibi e per conservarli dai batteri, ma anche per l’alimentazione degli animali, per disinfettare e cicatrizzare le ferite e per la concia delle pelli. Pensate che era addirittura un mezzo di pagamento che si utilizzava al posto dei soldi.

La Strada Marenca fu un importante “mezzo” per la comunicazione e non quindi di divisione tra gli opposti versanti alpini.

I siti archeologici presenti nella zona provano la frequentazione di questo percorso già in età preistorica, vi sono tracce di epoca romana ma, i primi documenti di cui si dispone, risultano datati 1207.

Nel Medioevo, la montagna vide accrescere la presenza umana, si svilupparono i commerci e i paesi alpini si popolarono, anche per sfuggire alle pestilenze, agli eccidi e alle persecuzioni religiose.

Oggi, soltanto alcuni tratti di questa strada sono ancora rintracciabili e percorribili, soprattutto nella zona che va dal Colle di Tenda al Monte Acquarone, dipanandosi come una matassa per campagne, monti e Alpi.

Un percorso fondamentale, come avrete potuto notare, cambiato negli anni ma pur sempre ricco di fascino.

Quelle che vi ho scritto sono solo le caratteristiche principali; niente a confronto di quello che è stata, in realtà, questa via definita millenaria.

Un abbraccio vostra Pigmy.

M.