Il divino nella Vite, nell’Uva e la Vendemmia

Topi cari, l’estate ci abbandona e i suoi colori sgargianti si spengono per lasciare posto a tinte più scure. In tutta la Valle e le sue zone limitrofe le aree collinari sono cariche degli acini succosi e tondi dell’Uva, uno dei frutti autunnali per eccellenza. Com’era divertente, quando ero topina, schiacciarli con le zampe per aiutare con la vendemmia! Una vera gioia, una di quelle che difficilmente si possono dimenticare.

vite e uva

Ebbene, proprio una manciata di sere fa è venuta nella mia tana Maga Gemma. L’ho invitata per condividere con lei l’abbondanza del mio raccolto ed è stata entusiasta di  unirsi a me. La mia tavola era imbandita: non mancavano piatti a base di zucca, mele e frutta secca, ma l’attenzione della Maga era rivolta interamente verso quello che è divenuto il vero protagonista della serata…

«Il tuo vino è squisito, Pruna. Ah, la Vite… che pianta divina!» mi ha detto sorseggiando dal bicchiere.

vino rosso

«Sono proprio contenta che ti piaccia, lo abbiamo fatto io e topo-papà. Non è molto, perché non abbiamo una vigna ampia, ma quel poco che ricaviamo è prezioso, lo usiamo per le occasioni speciali, come questa per esempio.»

«Ti ringrazio, Pruna. Davvero molto gentile da parte tua. Un tempo, così come oggi, il vino era considerato una bevanda sacra, legata al Divino: per questo mi fai ancor più onore offrendomelo con la generosità che ti contraddistingue.»

 

«In effetti, ora che ci penso, il vino insieme al pane non manca mai sulle tavole della Valle…»

«Esatto. E come accade sempre, dietro ogni abitudine ci sono origini e motivi ormai quasi dimenticati.»

«Il pane e il vino sono simboli importanti della religione cristiana, alla quale gli abitanti della Valle sono molto devoti. Credo sia noto a tutti il significato di questa usanza… no?»

Gemma ha annuito: «Hai ragione, certo. Ma persino nella gestualità e nelle parole della religione si celano significati più profondi di quelli che siamo abituati a cogliere in superficie. Fin dall’antichità la Vite è stata assunta come simbolo della divinità, dell’amore e della purezza. Si sono celebrate feste e cerimonie in onore di questa pianta e dei suoi frutti…»

vite

«Parli dell’antica Grecia?»

«Certo, ma non solo.» ha puntualizzato sorseggiando ancora un po’ dal calice. «La Vite divenne uno dei simboli per eccellenza dell’immortalità, sai perché?»

Ho riflettuto un secondo prima di darle la mia risposta: «Be’, i frutti della Vite sfamano esseri umani e bestioline d’ogni genere. E poi dall’Uva si produce il Vino e quest’ultimo viene consumato abitualmente da tutti. Non è difficile trovare la sua analogia con il ciclo di vita, morte e rinascita.»

«Brava, topina!» ha detto soddisfatta. «La Vite ci racconta proprio questo. Ci parla del ciclo delle stagioni, della Trasformazione alla quale nessuno è immune e che coinvolge tutti gli esseri viventi del pianeta. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Lo stesso atto della vendemmia, per esempio, rappresentava nell’antichità la morte, il disfacimento del corpo. Il Vino che si ricava da tale procedimento, necessiterà di buio e temperature basse per essere chiarificato e divenire limpido, come noi lo beviamo. Freddo e assenza di luce sono, guarda caso, due elementi che associamo per antonomasia alla morte, ma l’antica saggezza racchiusa anche nella Vite e nel Vino ci insegna che questi due elementi sono necessari per giungere all’essenza delle cose. Accade nella morte fisica, ma anche simbolicamente nelle avversità che tutti siamo chiamati ad affrontare. Si scende metaforicamente in quelli che chiamiamo gli inferi per poi ascendere al paradiso, al regno celeste.»

damigiana vino

Ero affascinata dall’interpretazione di Maga Gemma, i miei occhi brillavano di meraviglia: «Insomma, niente di diverso da quello che tocca a tutti noi in questa stagione appena cominciata, quella autunnale: attraverseremo il buio e il freddo del prossimo Inverno, per rinascere rinnovati in Primavera, in un ciclo che si ripete sempre e che noi bestioline conosciamo molto bene!».

Maga Gemma ha sorriso: «Esatto, Pruna. Non esiste il tempo dei fiori, se prima non viene il tempo del seme: il momento del buio, del riposo, di un’energia che si concentra all’interno per poi manifestare la bellezza della vita all’esterno.»

A quel punto, restava un solo piccolo nodo da sciogliere nella mia testolina di sorcio: «Maga Gemma… che mi dici, allora, del fatto che i cristiani associno il Vino al sangue?»

vino bianco e rosso.jpg

«Una domanda davvero interessante, la tua. Vedi, Pruna, come immaginerai il Vino è diventato sinonimo del sangue per via del suo colore e le sue caratteristiche. E’ il sangue di Cristo offerto per l’umanità. Non siamo abituati a pensare in questi termini, ma il sangue rappresenta la gioia, quella di vivere in armonia con il Creato e le sue leggi, tant’è che perdere sangue, sia esso in piccole o grandi quantità, equivale a perdere un po’ di quella vita preziosa che ci è stata donata. Il sangue che Cristo ci offre è la sua gioia, la gioia di chi vive seguendo i suoi principi. E quella gioia è offerta con amore a tutti noi. Possiamo attingere in ogni istante al suo calice, ma troppo spesso lo dimentichiamo.»

«Wow!» ho esclamato.

vite dipinta

La Maga ha continuato: «Ma il simbolismo in sé nasce dal fatto che, come sai, Gesù ha sempre accettato la volontà del Dio suo Padre “barcollando” molto raramente in fatto di Fede. Ebbene, la prima volta che ebbe paura fu proprio durante la sua notte passata nel Getsemani, nell’uliveto, dove sapeva bene che le guardie sarebbero andato a prenderlo da lì a poco per crocifiggerlo. In quel momento Gesù esclamò: “Padre, tu che puoi tutto, allontana da me questo calice!”, ma subito si riprese e continuò: “Tuttavia, sia fatta la tua volontà, non la mia”. La sua angoscia, Pruna, era così forte e tanti erano il suo spavento e la sua sofferenza che si dice abbia sudato sangue. Quel suo sudore, talmente concreto e intriso di terrore, aveva i bagliori rossi e purpurei del sangue. Lo stesso sangue, sostituito dal Vino, che ancora oggi viene offerto. Ancora una volta, la Fede totale e assoluta verso Dio aveva prevalso in quel cuore puro. Quello venne considerato dai teologi un momento catartico della vita del Messia.»

«Cavoli… non conoscevo questa precisazione. Però, tornando al discorso della gioia… Be’ mi pare proprio di capire che, ancora una volta, gli esseri umani si facciano tanti problemi, quando in realtà avrebbero la soluzione a portata di mano, sotto i loro occhi, dico bene? Basterebbe solo comprendere di avere dentro una riserva preziosa di gioia e amore, per non focalizzarsi sempre e solo sulle cose negative.»

«Hai detto proprio bene, amica mia. Pensaci tu a ricordarlo, ora però propongo un bel brindisi.» ha detto, alzando il calice.

«Alla gioia!»

«E all’Amore, di cui dobbiamo ricordarci sempre.»

«E sia!»

Unitevi a noi, topi! Brindiamo insieme! In alto i calici, allora, e… Cin cin!

Storia di E. che difese suo padre dai Tedeschi

La storia che vi racconto oggi è successa davvero, anche se questo attempato signore che mi parla con i grandi occhi chiari fissi nel vuoto preferisce mantenere l’anonimato. E’ una storia che fa riflettere, ma rimandiamo a dopo i pensieri importanti.

Vi parlo di E. che, nei primi anni ’40 del secolo scorso, aveva all’incirca tredici/quattordici anni.

Ci troviamo vicino alla mia Valle, nella zona della Riviera dei Fiori e del Parco Naturale di San Romolo e Monte Bignone.

I due fratelli maggiori di E. erano partiti da Partigiani, mentre la sorellina minore viveva con il padre e la madre in un casone nascosto nel bosco di Pian della Castagna. Il padre di E. non poteva farsi vedere, i nazisti (dai nostri vecchi chiamati “i tedeschi” con una s scialba) lo avrebbero ucciso o portato via. E., invece, era troppo giovane per i nemici: quei militari non potevano servirsi di lui. C’era solo una rara possibilità che potessero fargli del male, che si sarebbe potuta presentare in occasione di una delle razzie messe in atto da loro durante le quali non guardavano in faccia nessuno, nemmeno le donne, gli anziani e i bambini.

E allora fu proprio E. a farsi carico di andare a vendere la legna giù in paese per poter acquistare riso, pasta e farina. Il suo era un carico sia fisico che psicologico: partiva con il carretto da Pian della Castagna e, percorrendo ogni giorno circa 8 km all’andata e 8 km al ritorno, arrivava fino alla Chiesa della Madonna della Costa, in territorio sanremese, per vendere la legna che tagliava lui stesso. Il carretto reggeva 7 quintali di ciocchi di legno e la strada si presentava in discesa all’andata, ma al ritorno era tutta in salita, anche se il carretto era ormai vuoto.

Scendendo, il carretto che era molto pesante e prendeva velocità; E. faticava molto a reggerlo. Dunque, mano a mano che camminava, rubava qualche pietra dai muri a secco in cui si imbatteva lungo il cammino e lanciava i massi davanti a sé affinché frenassero le ruote del carro. Dai oggi e dai domani, portò via parecchie pietre, anche se durante il ritorno alcune le ricollocava al loro posto per paura di provocare qualche frana. Un giorno il proprietario delle terre trafugate delle pietre di contenimento lo colse sul fatto e, avvicinandosi a lui, lo redarguì: «Fiu, se ti cuntinui cuscì, mì prie de chi in po’ a nu ghe no ciü!» (Figliolo, se continui così, di pietre tra un po’ non ne avrò più!). E. si scusò e continuò il suo cammino.

Un giorno dovette scendere nel centro di Sanremo per vendere la sua legna. Quel giorno i tedeschi avevano deciso di mettere in fila tutti i ragazzi e gli uomini che erano nei pressi di Piazza Eroi Sanremesi per fucilarli. Dalla piazzetta di fronte, dove oggi sorge un parcheggio, molte donne piangevano disperate.

C’era anche E. tra i presi di mira, era l’ultimo della fila dal lato monte e una sentinella gli marciava davanti, osservando che le vittime fossero tutte ben posizionate. Sarà stata l’incoscienza o il brivido istintivo della sopravvivenza, ma E., appena il soldato si voltò e non lo ebbe più sotto gli occhi, scappò di corsa verso San Romolo, in direzione delle sue montagne. Le conosceva bene e, nella fuga, aveva lasciato in piazza la legna con tutto il carretto. Gli spararono, ma lui stava già sgattaiolando tra le case vicine e i carruggi intorno al piazzale. Per 7 km non arrestò la sua fuga disperata. Quei 7 km, che macinava a fatica e lentamente ogni giorno, ora scivolavano sotto i suoi piedi, il fiato corto di sottofondo ai passi affrettati. Il battito del cuore gli rimbombava nelle orecchie, così come gli spari di poco prima. Quando giunse al casolare nel bosco cadde a terra svenuto.

Questa vicenda possiamo definirla quasi “una delle tante” (descrizione che  personalmente trovo quasi offensiva, in quanto ogni memoria è unica e riporta drammi ed emozioni che al giorno d’oggi non riusciamo neanche a immaginare), ma il punto sul quale vorrei focalizzare l’attenzione, anche se può sembrarvi assurdo, riguarda la reazione del proprietario dei muretti a secco.

Molti la troveranno ovvia, visti i tempi che correvano: la guerra, la carestia, mentalità diverse, modi di fare d’un tempo… ma se paragonassimo quell’atteggiamento ai giorni nostri noteremmo che la gente reagirebbe in modo differente. Una volta, se si estraevano le pietre da un muro, non lo si faceva per puro divertimento o per far del male a qualcuno. Era per bisogno. Era una necessità spesso vitale. Per questo si incontrava compassione. Oggi non si avrebbe più la necessità di scendere con 7 quintali su un carro e dunque non c’è alcun motivo per rovinare i muri che altri hanno costruito con tanta fatica.

Anche E. faticava parecchio a condurre quella vita che svolse per due anni ogni giorno, due anni che videro suo padre nascosto nella macchia, senza poter uscire. Due anni in cui l’amico bosco, con le sue folte chiome, lo difese e lo riparò dal nemico.

Sono storie che oggi ci sembrano incredibili o banali, ma che i nostri padri o i nostri nonni hanno realmente vissuto… proprio poco tempo fa.

Un bacione topi, alla prossima storia.

Dunde ti hai lasciàu a burata

                Dunde ti hai lasciàu a burataSONY DSC

 

Arrucàu ai pei du munte inta ina ressega de càe

Bella mustra i fan e ciape de cava, prie picàe a duvè

Ch’i se puntèla una inte l’autra arregatàndu u tèmpu caìn

Che cian-cianin u-e cunsuma.

A gardu a ciassa da geixa, l’èrcu ch’u àrese l’unica revouta

Du paiise, stancu e scruscìu, surdu a chelu scivurelu de vèntu alegru

Ch’u s’infira de suta aa chintagna, purtàndu i sghizi d’i sbirri

Che festuuxi i svurassa da l’inturnu.

A luna runda a luuxe inte risse che agaribàe i l’astrega u camin

Luuxente u celu ch’u te fa as-sciarì u misteru de l’univèrsu,

e stù splendù u fa brilà tuti i barcùi ch’i agnima i casuneti.

U bèru d’ina pegura u s’acosta pè sercà l’amù d’ina caressa,

ch’u in faturiisu alegru ch’u t’aciacrina u co.

Inte rame de castagne, in po’ ciù aa vale, u canta a maciota….

Amagunèndu u sòn da campana che a seira a sona l’Ave Maria.

Turna mei fiju aa tò cà, turna a sentì parlà u tò giargun,

furestu insarvaighiu ti sei, ma inte chèle càe freide e in po’ derucà

tà maire e tò pàire…. i t’aspèita.

ITALO PIZZO

Ru Ciabàudu, 30 de marzu d’ina vota.

Ebbene, cari topi, ho copiato questa splendida poesia della quale vi farò leggere tra poco la traduzione da un foglio che mia madre trovò nel cassetto di mio nonno. Sono riuscita a tradurla tutta, ma, ahimè, mi manca la traduzione della parola “burata”(che forse significa Bambola). Sì, proprio quella. Il foglio è andato perduto non si sa dove e l’unica cosa che mi venga da pensare è che ho sbagliato a copiare e, anzichè “burata” avrei dovuto scrivere “burgata”. Tutto, allora, avrebbe un senso… oppure aiutatemi, convallesi!

Arrocato ai piedi di un monte in una manciata di case,

bella mostra fanno le pietre (tipiche ciappe liguri sui tetti), battute a dovere

che si puntano l’una contro l’altra, ricordando il tempo caino

che pian, pianino le consuma.

Guardo la piazza della chiesa, l’arco che regge l’unica volta

del paese stanco e decadente, sordo a quel soffietto di vento allegro

che s’infila di sotto al porticato (dovrebbe essere!) portando i canti degli uccellini

che festosi svolazzano intorno.

La luna rotonda illumina gli arbusti che garbati lastricano il cammino,

lucente il cielo che ti fa chiaro sul mistero dell’universo

e questo splendore fa brillare tutti i balconi che animano i casolari.

L’agnello di una pecora si avvicina per cercare l’amore di una carezza

con un fare allegro che intenerisce il cuore,

tra i rami dei castagni, più giù a valle, canta la maciota (non ho idea di cosa caspita sia… un animale!)

Avendo il magone al suono della campana che alla sera suona l’Ave Maria.

Torna figlio mio alla tua casa, torna a sentir parlar il tuo dialetto.

Straniero, inselvatichito sei ma, in quelle case fredde e un pò diroccate,

tua madre e tuo padre… ti aspettano.

Non voletemene per questa traduzione prego!

Uuuuhuuu… mi commuove! E’ bellissima. Insomma, potete vedere che anch’io spesso ho difficoltà a tradurre questa lingua che amo comunque, soprattutto quando usa termini abbastanza antichi. Il titolo, quindi, è “Dove hai lasciato la… borgata” (o Bambola) vi pare? Spero che vi sia piaciuta. Un bacione a tutti.

M.

La nostra Divina Commedia

Topi, scommetto che tutti voi avete studiato la Divina Commedia. Ebbene, ve lo ricordate il V canto? Esso si svolge nel Secondo Cerchio, dove sono puniti tutti i lussuriosi. Siamo, si presume secondo gli studi, nella notte tra l’8 e il 9 aprile del 1300. Questa traduzione di Federico Gazzo, riporta, in un antichissimo dialetto ligure, proprio un pezzo della Commedia di Dante Alighieri.

Qui, il titolo della sua opera in questo sito http://www.francobampi.it/zeneise/lengua/proposte/gazzo.htm in cui viene spiegato come si legge, come si scrive e come si pronuncia.

Padre Angelico Federico Gazzo
La «Divina Commedia» tradotta in genovese
Genova, 1909

DANTE ALIGHIERI

Divina Commedia – INFERNO:  Canto V

nella traduzione di Federico Gazzo (1845-1926):

 Dòppo d’avey da o mæ Dottô sentïo

nominâ i cavaggëi cu’e damme antighe

da’ pietæ vinto, sun quæxi smaxío:

e hò prinçipiòw: “Quarcösa voriæ díghe,

cäo Meystro, a quelli duï ch’insemme van,

portæ da o vento lêgii comme spighe

 

E a mi lê: ” Ti î vediæ quando sajan

ciù a noï d’ärente; e ti prêghili, allôa,

pe quello amô chi î porta, e lô vegniàn.”

Apeña o vento a noï o î arrigôa,

ghe daggo o crïo: “Öh, ànime affanæ,

parlæne, se nisciùn ve sèra a güa”.

 

Comme cumbiñe da l’amô ciammæ,

cu’ e sò äe averte e fèrme, a o düçe nïo

vêgnan per l’äja, da o soe voéy portæ;

da o roeo duv’ëa Didón, in çà d’asbrïo

cùran da noï, pe quell’ære maligno,

scì fòrte stæto o l’é o mæ amôôzo crïo.

 

“Öh ti animä’ graçiozo, e scì benigno,

che ti vegni a atrovâ, in te sto ære sperso

noï ch’hemmo tento o mundo de sanguigno,

se hæscimo amigo o Rè de l’ûnivèrso,

ô preghiêscimo noï per a tò paxe,

che ti hæ pietæ do nòstro mâ’ pervèrso.

 

De quanto a voï sentî e parlâ ve piaxe

stæmo a sentîve, e parliëmo con voï,

shiña che o sferradô, comm’aoa, o taxe.

Sëze a çitæ duve sun nasciûa ai doï

in sce a mariña duve o Pò o descende

pe finî in paxe insemme ai soe minoï.

 

L’Amô che in t’ûn coe fin lèsto o s’aççende,

o l’ha invaghïo ‘sto kì da mæ persoña

che m’han levòw; e ancon o moeo o m’offende.

No amâ chi n’amma, l’Amô o no perdoña!

Do sò piaxey lê o m’ha iñnamoä scì fòrte,

che ancon, ti ô veddi!…kì o no m’abbandoña.

 

L’Amô condûti o n’ha a ûña stessa mòrte:

Caiña a l’aspëta chi n’ha asciascinòw”.

Ecco quanto n’han dïto in sce a soe sòrte.

Sentìo o magon de questi, e o soe peccòw,

o mento kiño in sen, lì, mucco e basso,

shiña che o Poeta o me fa: “Ti ë alluow?”

 

Revëgno e diggo allôa: “Sun in t’ûn giaçço!

Quanti düsci penscëi, quanto dexìo

han portòw questi ao dolorozo passo!”

Pòi vorzéndome a lô cu’o coe abbrençoìo:

“Françesca! – esclammo – e peñe tò e i deliri

me fan cianze d’ûn cento tristo e pio.

 

Ma dimme, ao tempo di düsci suspiri,

cun cöse, e cumme v’ha conçesso Amô

che conoscésci i dûbbiozi dexiri?”

E allôa lê a mi: “No gh’é, no, maggiô dô

ch’arregordâ i feliçi dì, e a freschixe

in ta mizëja; e o ô sa o tò bon Dottô.

 

Ma pòi se de conosce a primma raïxe

do nòstro amô ti mostri tanto affètto,

comme quello fajö chi cianze e dixe.

Pe demôa, ûn dì lezéyvimo o libretto

de Lançilòtto, comm’Amô o l’ha vinto:

soli éymo lì, sença nisciùn suspètto.

 

Ciù e ciù vòtte i nòstri oeggi a n’ha suspinto

quella lettùa, e scolorìo a n’ha o vizo:

ma chi n’ha pòi derruòw o l’é stæto ûn pointo.

Ao lêze comme o suave fattorizo

baxòw o l’é stæto da scì illûstre amante,

questo, chi mai da mi o no sä divizo,

a bucca o m’ha baxòw tûtto tremante.

 

«Galiöto» scì! l’ëa o libbro e chi l’ha scrïto:

no gh’hemmo quello dì lètto ciù avante”.

Mentre ch’ûn spìrito questo o m’ha dïto

l’ätro o cianzéyva scì, che sença ciù

me sun sentìo mancâ da no stâ drïto,

e comme ûn còrpo mòrto hò dæto zù.

Anche in questo caso, si parla di una lingua così antica da essere difficile da tradurre anche per noi, però io la trovo bellissima. Padre Angelico Federico Gazzo, diceva sempre – Cume o zeneise o vegne da o latin -, ossia “come il genovese (il ligure) viene dal latino”. E da lì, ecco questa sua particolare traduzione.

Un abbraccio a tutti topini, alla prossima.

M.

Perchè “A cumba”?

“A cumba” perchè…? Perchè racchiude in sè un modo di pensare, un modo di essere. “A cumba”, topini e topine, ossia “La colomba”, la particolarissima canzone o, per chi preferisce nenia, di un Fabrizio De Andrè che utilizza per questa sua opera, un dialetto ligure antichissimo. Così antico che si fa fatica a tradurre.

° QUESTE LE PAROLE

Pretendente: Gh’áivu ‘na bélla cùmba ch’à l’è xeüa fôea de cá

giánca cum’â néie ch’â desléngue a cian d’â sâ

duv’à l’é, duv’à l’é

che l’hán vursciûa védde cegà l’áe a stù casâ

spéita cùme l’áigua ch’à derüa zü p’oú riá

nu ghe n’é, nu ghe n’é, nu ghe n’é

Padre: Cáu oú mè zuenottu ve porta miga na smangiaxún

che se cuscì fise puriésci anávene ‘n gattixún

nu ghe n’é, nu ghe n’é, nu ghe n’é

Pretendente: Végnu d’â câ du ráttu ch’oú magún oú sliga i pê

Padre : Chi de cúmbe d’âtri nu n’é vegnûe nu se n’é pôsé

 Pretendente: Végnu c’oú côeu maróttu de ‘na pasciún che nu ghe n’é

Padre : Chi gh’è ‘na cúmba gianca ch’ä nu l’é â vostra ch’â l’é a mê

nu ghe n’é âtre, nu ghe n’é, nu ghe n’é âtre, nu ghe n’é

Coro: Â l’é xêuâ a l’é xêuâ â cûmba giánca

de nôette â l’é xêuâ áu cián d’â sâ

 truvián â truvián â cûmba giánca

de mázu â truvián áu cián d’oú pán

Pretendente : Vuí nu vuriésci dámela sta cúmba da maiâ

giánca cum’â néie ch’â desléngue ‘nt oú rià

duv’à l’è, duv’à l’è, duv’à l’è, duve, duv’à l’è

Padre: Mié che sta cúmba bélla â stá de lúngu barbacíu

che nu m’â pôsse védde à scricchî ‘nté n’âtru níu

nu ghe n’é, nu ghe n’é, nu ghe n’é

Pretendente: Â tegnió à dindanáse sutt’à ‘n angióu de meigranâ

cu’ â cûa ch’oú l’ha d’â sèa â mán lingéa d’oú bambaxia

duv’à l’è, duv’à l’è, duv’à l’è, duve, duv’à l’è

Padre : Zuenu ch’âei bén parlóu ‘nte sta seián-a de frevâ

Pretendente: Â tegnió à dindanáse sutt’à ‘n angióu de meigranâ

Padre : Saêi che sta cúmba à mázu a xêuâ d’â mê ‘nt â vostra câ

Pretendente: Cu’ â cûa ch’oú l’ha d’â sèa â mán lingéa d’oú bambaxiâ

nu ghe n’é âtre, nu ghe n’é, nu ghe n’é âtre, nu ghe n’é

Coro: Â l’é xêuâ a l’é xêuâ â cûmba giánca

de nôette â l’é xêuâ áu cián d’â sâ

 truvián â truvián â cûmba giánca

de mázu â truvián áu cián d’oú pán

Duv’â l’é duv’â l’é ch’â ne s’ascúnde

se maiá se maiá áu cián d’oú pán

Cum’â l’é cum’â l’é l’é cum’â néie

ch’â vén zû deslenguä da oú riá

 l’é xêuâ a l’é xêuâ â cûmba giánca

de mázu â truvián áu cián d’â sâ

Duv’â l’é duv’â l’é ch’â ne s’ascúnde

se maiá se maiá áu cián d’oú pán

Cúmba cumbétta béccu de sêa

sérva à striggiún c’oú maiu ‘n giandún

Martin oú vá à pê cun’ l’âze deré

foêgu de légne ánime in çé

° E QUESTA LA TRADUZIONE

Avevo una bella colomba che è volata fuori casa

bianca come la neve che si scioglie a pian del sale (bagnasciuga)

dov’è, dov’è

che l’hanno vista piegare le ali verso questo casale

veloce come l’acqua che precipita dal rio

non ce n’è, non ce n’è, non ce n’è

 Caro il mio giovanotto non vi porta mica un qualche prurito

che se così fosse potreste andarvene in giro per amorazzi

non ce n’è, non ce n’è, non ce n’è

 Vengo dalla casa del topo che l’angoscia slega i piedi

Qui di colombe d’altri non ne sono venute non se ne sono posate

Vengo con il cuore malato da una passione che non ha uguali

Qui c’è una colomba bianca che non è la vostra che è la mia

non ce n’è altre, non ce n’è, non ce n’è altre, non ce n’è

È volata è volatala colomba bianca

di notte è volata a pian del sale

La troveranno, la troveranno

la colomba bianca di maggio la troveranno

al piano del pane (altare)

Voi non vorreste darmela questa colomba da maritare

bianca come la neve che si scioglie nel rio

Dov’è, dov’è, dov’è, dov’è, dove, dov’è

Guardate che questa bella colomba è abituata a cantare in allegria

Che io non la debba mai vedere stentare in un altro nido

Non ce n’è, non ce n’è, non ce n’è

 La terrò a dondolarsi sotto una pergola di melograni

Con la cura che ha della seta la mano leggera del bambagiaio

Dov’è, dov’è, dov’è, dov’è, dove, dov’è

Giovane che avete ben parlato in questa sera di febbraio

La terrò a dondolarsi sotto una pergola di melograni

Sappiate che questa colomba a maggio volerà dalla mia alla vostra casa

Con la cura che ha della seta la mano leggera del bambagiaio

non ce n’è altre, non ce n’è, non ce n’è altre, non ce n’è

È volata è volata la colomba bianca

di notte è volata al piano del sale

La troveranno la troveranno la colomba bianca

di maggio la troveranno al piano del pane

Dov’è, dov’è che ci si nasconde

si sposerà, si sposerà al pian del pane

Com’è com’è è come la neve

che vien giù sciolta dal rio

È volata è volata la colomba bianca

di maggio la troveranno a pian del sale

Dov’è, dov’è che ci si nasconde

si sposerà si sposerà al pian del pane

Colomba colombina becco di seta

serva a strofinare per terra col marito a zonzo

Martino va a piedi con l’asino dietro

fuoco di legna anime in cielo.

E allora perchè “A cumba”? Ma perchè innanzi tutto si parla di – casa del topo -… e bhè, bhè, no, non scherziamo, vedete, come cantano il grande De Andrè e suo figlio Cristiano, un tempo, tra due giovani che volevano mettere su famiglia, c’era il filtro dei genitori che avevano un relativo potere di veto motivato dalla loro esperienza, forse ancora in uso oggi in qualche parte d’Italia ma molto più raro. Poi è venuto il tempo del “…è mia, e me la gestisco io!” come dice il mio caro amico Bruno e corrispondente per i maschi ma, a 18 o 20 anni, non si ha ancora la capacità di valutare le implicazioni di un rapporto che deve durare a lungo.

I giovani non sanno ponderare le difficoltà, anche economiche, che sicuramente sorgeranno e soprattutto non pensano di dover cambiare completamente stile di vita. Si gettano allo sbaraglio pensando che poi tutto si aggiusti da solo, senza giungere a dei necessari compromessi con la compagna.

In questa canzone si parla della giovane sposa che è come una colomba, per la quale, il padre, gradisce gioia e serenità. Ascoltatevela topini, ve la lascio qui, io torno domani. Come vi ho detto è difficilissima da capire. E’ il mio dialetto più vecchio che c’è. Un dialetto che fa risultare questa canzone, quasi come un documento antico e, ahimè, troppo poco conosciuto.

Meriterebbe di più. Buon sabato a tutti.

M.

Altri proverbi

Ed eccoci per la sezione “Caro Squit” ad un altro elenco di proverbi tipici, delle mie parti:

– Pu Pantan i vende u pan, sensa soudi i nu ne dan.

– Chi nu da a mentu a pà e mae in erba, zu pe i garetti u ghe caa a merda.

– Chi fa arte e u nu cunusce, i soei denai diventan musche.

– Paie e maie pietusi i fan i fioi rascassusi.

– Busa de beu, busa de vacca tutu u ma u va in ta stacca.

Traduzione:

– Su per il Pantano (una via del paese di Taggia) vendono il pane, ma senza soldi non ne danno.

– Chi non da ascolto da giovane al padre e alla madre, da grande se la farà nei pantaloni.

– Chi fa solo arte senza cultura, i suoi soldi si trasformeranno in mosche.

-Padre e madre pietosi, fanno figli mostriciattoli, inetti, tonti.

– Cacca di bue cacca di vacca, tutto il male va nella tasca. (si usa con i bimbi quando si fanno male).

Eccoli, direttamente dalla gente di qua. Da un’anziana di Taggia, una persona a me molto cara. Una persona che quando ride, ride anche con gli occhi. Alla prossima!

M.