Case Carmeli: un nido in Valle Argentina

Si ritorna a viaggiare per la mia splendida Valle e a scoprire luoghi magici dal profumo antico che affascina e lascia di stucco. Come ad essere in un’altra dimensione.

Sono incantata e non vedo l’ora di condividere con voi questa gioia. Non accadeva da tanto tempo, visto il mio lungo letargo… abbiate pazienza… però, ora, seguitemi perché un posto fiabesco vi attende per mostrarsi in tutta la sua umile ma attraente bellezza.

Un posto che non vi concederà di venir via tanto facilmente, vi terrà nel suo morbido abbraccio silenzioso e ricco di meraviglia.

Sotto la più nota Realdo, borgo caratteristico e assai suggestivo dell’Alta Valle Argentina, affacciato a strapiombo sulle falesie che incorniciano Rio Sant’Antonio, c’è una piccola frazione che non ha nulla da invidiare alle altre.

E’ circondata dalla pace e da Castagni secolari, da orti ben curati e al di sotto di lei scorrono le limpide acque del Torrente Argentina che ne ravviva l’anima.

Sono a Case Carmeli Topi! E oggi vi porto con me in un tour mozzafiato!

A circa 1.000 mt s.l.m., in un angolo appartato della mia Valle, sboccia un gruppetto di case prevalentemente in pietra, un tempo nido di parecchie persone che si dedicavano soprattutto alla raccolta delle castagne da vendere verso la costa.

Terrazze pianeggianti e pulite, abitate da grandi Castagni, circondano questo minuscolo paesino e accoglievano molti anni fa i mulini dove quei frutti venivano lavorati e trasformati in farina.

C’è persino un campo da bocce sotto l’ombra di questi alberi. Un campo da bocce come se ne vedono molti nei dintorni dei borghi della mia Valle.

Sgattaiolo sopra a quelle foglie che adesso, durante la fredda stagione, dopo essere cadute in autunno, scrocchiano sotto le mie zampe. Un terreno ben diverso da quello che poi troverò tra le dimore, realizzato in ciappe di ardesia come i tetti antichi che qui ancora sorgono.

Tra i terrazzamenti spunta un’edicola bianca dedicata alla Madonna che, negli anni, ha ricevuto diversi restauri. Il culto mariano, nella mia Valle, è sempre presente e mai viene dimenticato.

Man mano che mi avvicino al mucchietto di case sono ora gli orti con la terra arata e soffice ad accogliermi. Orti piccoli ma numerosi e importanti.

Sembrano sistemati da poco e, non so perchè, mi mettono allegria.

Queste piccole distese scure fanno capire che esiste, tutt’oggi, una quotidianità.

Ebbene, che ci crediate o no, da circa tre anni, a Case Carmeli vivono un’arzilla coppietta e un signore che hanno deciso di ripopolare questo luogo anche se, umilmente, raccontano di essere una quantità assai scarsa. Io invece ne sono felicissima e quel numero, considerato “povero” da loro, mi sembra già una ricchezza!

Fino a qualche anno fa, infatti, Carmeli era completamente disabitato. Le persone utilizzavano le loro seconde case solo in estate. E lo fanno ancora ma, oggi, qualcuno ci vive tutto l’anno e ha persino disposto delle – Case Vacanze – per accogliere eventuali ospiti.

Ora, come vi ho preannunciato prima, cammino su questa pavimentazione storica realizzata dalla mano di uomini che costruivano ogni cosa.

Se alzo il muso verso l’alto posso vedere case splendide, ancora ben curate. Verande, balconi e travi riempiono i miei occhi. E non mancano i messaggi di “Benvenuto” vicino alle porte d’ingresso. Qui, sono tutti cordiali.

Arrivati a Case Carmeli ad accogliervi saranno i padroni del paese e cioè gattini dall’espressione furba che lì vivono felici e liberi formando una simpaticissima gang. Sono abbastanza socievoli ma anche guardinghi e io, che sono un Topo, devo dire che apprezzo il loro osservarmi da lontano e avvicinarsi con estrema cautela.

A dire il vero, arrivando dalla stradina principale, comoda e asfaltata, la prima cosa che vedrete sarà una fontana in pietra, con una tettoia in legno.

Si tratta di una fontana dedicata a Edoardo Alberti, un anziano muratore della Valle Argentina, nato a Realdo e considerato una memoria storica.

Poi ecco lo svolgersi del borgo. Il sole lo bacia ovunque.

Illumina anche gli attrezzi per coltivare, le ringhiere che proteggono, le canne e i bastoni che servono nelle campagne.

Gli arnesi sono appoggiati ai muri. Alcuni sono arrugginiti mentre altri sembrano essere stati sempre usati. C’è davvero di tutto: seghe, rastrelli, imbuti, mestoli, vanghe, carriole…

Solo alcuni carruggi restano in ombra. Sono carruggi brevi, fatti di scale e antri.

Diverse porte in legno conducono a delle cantine.

Al posto della ringhiera, una grossa corda è utilizzata come scorrimano. Per non cadere. I gradini sono ripidi in effetti.

Troviamo ancora qualcosa dedicato alla Vergine Maria accompagnato da una frase assai conosciuta nel mio mondo: “Oh passegger che passi in questa via volgi lo sguardo a salutar Maria”.

A volte si legge anche: “Oh pellegrin che passi da ‘sta via, non ti scordar di salutar Maria”… il significato non cambia.

A Carmeli ci sono una piccola piazzetta, aiuole e vasi ovunque, staccionate e… i miei adorati monti tutt’intorno.

Al di sopra di quei tetti, laggiù in fondo, posso ben vedere, stagliati contro il cielo, la statua del Redentore e il Monte Saccarello che svettano sopra Verdeggia, ultimo paese della Valle Argentina.

Così vicina alle mie montagne, questa frazione, regala scorci davvero particolari e penso riesca a farlo in ogni stagione dell’anno essendo già bellissima in inverno, periodo dai colori più spenti e opachi.

Sulle rive del piccolo rio che costeggia Carmeli da un lato, cioè Rio Paves, la Natura è già desta e vispa pur essendo gennaio. Quei raggi luminosi rendono tutto più tiepido e piacevole.

Alcune Lucertoline corrono sulle pietre adesso calde e, con sorpresa, noto persino la presenza di qualche Cincia Bigia abbastanza rara da vedere.

Appare simpaticissima con il ventre bianco e tondo come una pallina e il caschetto nero sulla testa. Il suo “Tciùùùù”, che emette di continuo, mi fa alzare lo sguardo verso il cielo terso e sotto ai balconi degli edifici adiacenti al rio.

Chi alloggia qui ha davvero una splendida vista su un gran pezzo di Valle! Un panorama da invidia! Forse anche la Cincia, dall’alto dei rami spogli, si sta godendo questo spettacolo.

Decido di continuare a guardare meglio e più da vicino quelle case. Le viuzze sono poche ma permettono di raggiungere ogni abitazione.

Non ci vuole molto a girare per tutta la borgata ma sono diversi i punti in cui soffermarsi ad osservare, annusare e immaginare il passato.

Le scale non mancano e sono tutte circondate da erba e fiori che stanno nascendo per festeggiare, in largo anticipo, la primavera.

Intorno a Carmeli, infatti, ci sono già le Violette, la Veronica e tantissime Primule a regnare con il loro giallo che spicca tra quelle tinte marroni.

Queste Primule, nate qua e là, circondano anche il vecchio lavatoio. Oggi di acqua non ce n’è più nelle sue due vasche ma lui è ancora lì, in memoria di mestieri antichi che incuriosiscono.

L’acqua la si può comunque ottenere dalle varie fontanelle che ci sono sparse per il paese. Piccole ma molto caratteristiche.

Anche il lavatoio, raggiungibile grazie ad un breve sentiero, è circondato dai Castagni e da quelle terre silenziose.

Siamo molto vicini alle cave d’Ardesia dell’Alta Valle e la presenza di questa pietra protagonista è assai nota anche qui. I portali, le vie, i gradini, i tetti… tutto la esalta. La si può vedere grezza oppure lavorata.

In Valle è la Regina nera della Natura!

Alcune case hanno più di un piano e parecchie sono state restaurate anche se l’atmosfera è rimasta quella di un tempo.

La maggior parte delle volte sono stati utilizzati materiali naturali per i restauri, come la pietra e il legno. Questo fa sì che il borgo resti affascinante e riporti ai tempi dei nostri nonni.

Notare il fumo di una stufa uscire da un camino e sentire odore di legna nell’aria è stato poi un vero tocco magico che ha completato quella bellezza.

Tra quegli edifici si continua ad affacciarsi sulla Natura che è davvero vicina e sfiora i muretti a secco e le strade. Non solo le rocce severe ma anche i fitti boschi sono proprio a un passo dalle dimore.

Partendo dalla costa, in un’oretta scarsa, si giunge dove il tempo si è fermato.

Ritrovo persino la Lunaria, che qui abbonda. Quando ero ancora una cucciola, la mia Topononna la usava essiccata per abbellire la nostra tana e la chiamava “Le Monete del Papa”.

Non vorrei più andar via da qui ma so che ho ancora tanto da scoprire e tanto da scrivere sulla Valle Argentina quindi mi devo incamminare verso la via del ritorno.

Non perdo l’occasione di guardarmi ancora intorno, come a voler immagazzinare tutto nei miei ricordi e immortalare con lo sguardo quella meraviglia, oltre che con la mia fida macchina topografica.

Quelle case, quelle piccole finestrelle con le persiane in legno chiaro… è come se mi salutassero e mi dessero appuntamento alla prossima…

Persino una Poiana viene a dirmi << Arrivederci! >> volando quieta, sulla mia testa, nel cielo azzurro di questa indimenticabile giornata.

Case Carmeli è un posto che tornerò a frequentare perchè mi è davvero piaciuto molto. E anche salendo a Realdo, o a Verdeggia, o a Borniga non si può non fare una tappa qui.

Ci si passa proprio davanti!

Saluto questo luogo che mi ha accolta splendidamente e a voi prometto che ci vedremo presto per il prossimo tour!

Restate con gli scarponi nelle zampe mi raccomando!

Ciao Carmeli e… a presto Topi!

Squit!

Nel ventre dell’antica Foresta dei Labari

E’ una soleggiata mattina di inizio autunno quando mi inoltro per un sentiero largo e pulito che passa sotto a dei Noccioli e dei Castagni meravigliosi.

Il silenzio assai apprezzato di quel luogo è rotto, di tanto in tanto, dai fruscii delle lucertoline veloci che si muovono tra le foglie secche a terra e il cinguettio di uccelletti felici.

Cardellini e Fringuelli, infatti, mi circondano e mi accompagnano in quella macchia che trionfa di vita.

Posso però udire anche il crocidare di qualche Ghiandaia che sembra alterata (come al solito, visto il caratteraccio che hanno, e mi riferisco soprattutto alla mia amica Serpilla) e il battere del Picchio che buca quei tronchi enormi alla ricerca di linfa e insetti. O forse vuole prepararsi un nuovo nido.

Attorno a me, l’Erica e i Noccioli, rendono tutto ancora più brioso e rigoglioso, colorando di rosa e di verde ciò che ormai sta assumendo tinte più calme e mature.

Nonostante la stagione, posso godere ancora della presenza di qualche fiore più temerario che non ha paura a sfidare i primi freddi.

Il sentiero scende a tornanti e mi porta verso il torrente che attraverso per ritrovarmi nell’antica Foresta dei Labari.

Sono sopra al paese di Corte, ho preso la strada che va verso Vignago, facendomi aprire la sbarra che ostruisce il passaggio, e mi sono diretta verso Case Loggia per la via che conduce ai Casai.

Qui, un percorso morbido di erbetta e foglie, scende alla mia destra e lo prendo per portarvi dove vedrete.

Il piccolo torrente si lascia attraversare con facilità anche se ci vogliono scarponi adatti per non bagnarsi i piedi. Gli scarponi adatti ci vogliono anche perché, nei Labari, la vegetazione è esagerata e senza la giusta attrezzatura e un abbigliamento adatto si rischia di farsi male o di non apprezzare tutta quella bellezza.

I Rovi, infatti, impediscono il cammino con il loro voler essere totalmente al centro dell’attenzione. Carichi di More gustose, che mi consentono una bella scorpacciata, si innalzano boriosi per far notare quelle meraviglie viola e rosse che li abbelliscono.

Altre piante legano le caviglie e trattengono come a voler essere notate anch’esse. Ci sono arbusti che graffiano e fronde che accarezzano ma, tra loro, qualche ragno ha costruito ragnatele resistenti e assai vaste.

Mi rendo conto che da questa descrizione, questo luogo può apparire poco piacevole, ma vi assicuro che non è così. Ci vuole un po’ di sacrificio per raggiungere la meraviglia e, inoltre, tutto quel verde è davvero suggestivo anche se all’essere umano può apparire antipatico. Io poi, che sono una piccola Topina, mi faccio meno problemi sgattaiolando sotto a tutta quella flora.

Quel bosco continua ad essere florido ed esuberante ma, ogni tanto, regala angoli stupendi e quando si giunge in questi piccoli eden si pensa davvero che sia valsa la pena della fatica di prima e di quella che si dovrà fare poi.

Queste zone sono delle affascinanti radure sotto a Castagni secolari dalla bellezza indescrivibile. Non bastano cinque uomini adulti per abbracciarli. Sono enormi, antichi, saggi.

Sono in quel luogo da tantissimi anni e mi chiedo cosa possano aver vissuto.

Hanno già partorito dei ricci che il vento forte dei giorni precedenti a fatto cadere a terra ancora acerbi. Il loro verde è sgargiante, quasi fosforescente ma, dentro, le Castagne protette sono sane, turgide e pronte per essere consumate.

Le chiome generose di questi alberi fanno ombra alle Felci sottostanti che rendono quel sottobosco prospero e fresco. Sono le piante che simboleggiano il mistero e infatti chissà quanta vita si nasconde sotto i loro rami leggeri. Piccoli roditori come me e insetti trovano il loro habitat naturale proprio tra questo cupo fogliame.

La Felce permette al bosco di essere più idratato e umido in quei punti. Lo si nota anche dalla presenza di molti Funghi strani attaccati ai tronchi.

I Noccioli persistono e con i loro fusti sottili e ramificati e le loro foglie a cuore nascono tra scogli ricoperti di muschio nuovo, rendendo quel palcoscenico un territorio simile a quello dell’Irlanda.

Mi aspetto di vedere un Druido uscire da dietro un arbusto e parlarmi.

Un’ulteriore radura, ancora più aperta delle precedenti, mi permette di vedere il cielo che da tempo non riuscivo ad osservare sotto a quelle alte piante.

Che meraviglia quelle montagne ancora verdi!

Non solo, vedo anche i profili dei miei monti e vengo salutata persino da un’Aquila Reale che sorvola su quei crinali alla ricerca di cibo.

Gli spunzoni delle Rocche più conosciute svettano nel vuoto e fanno impressione. Viste da qui assumono un aspetto austero e imponente.

Quella più dolce, dietro di me, è Rocca della Mela, il panettone della Valle Argentina. Un enorme masso bianco e tondo che amo sempre guardare come se fosse un punto di riferimento.

Da qui posso vedere anche il Toraggio e il Pietravecchia se mi volto verso Sud – Ovest e mentre mi accingo a scrutare quelle cime conosciute l’eco mi porta il grugnire di diversi cinghiali.

Il sole scalda di meno rispetto a qualche giorno fa e i rettili fanno di tutto per riscaldarsi a quei tiepidi raggi. Una grossa Vipera se ne sta in panciolle sdraiata su della legna e non vuole essere disturbata. Si mimetizza molto bene tra quei rami secchi che formano una catasta naturale. Sta facendo rifornimento di calore. E’ bellissima con quei disegni che le arricchiscono il corpo e deve aver appena mangiato perché la sua pancia è davvero enorme! Santa Ratta, speriamo non si sia divorata un mio parente!

E’ bene proseguire. Nel bosco mi vogliono tutti bene ma la fame è fame, quindi meglio lasciar in pace Signora Aspide e continuare per la propria strada.

Ascolto cos’ha da dirmi questa Foresta così sontuosa. Mi parla di tempi passati. Immagino Saraceni e poi Partigiani nascondersi qui. Immagino animali che oggi non vedo e mi soffermo al suo nome – Labari -.

Dopo aver visto l’Aquila Reale mi viene in mente che i Labari erano degli stemmi Romani che venivano applicati a delle aste per onorare l’Imperatore che accompagnava il proprio esercito. Su questi drappi, di stoffa rossa e oro, veniva proprio ricamata la figura di un’Aquila Reale.

Nella mia Valle sono ancora oggi presenti tante strutture realizzate dai Romani e mi ci vuole davvero poco a pensare, con la fantasia, a truppe armate, cavalli bardati e uomini pronti a conquistare luoghi. Proprio qui.

Proprio in questi boschi che ora invece mostrano solo pace e natura.

Alcuni resti di vecchi casoni di pietra mi portano ad una vita pastorale. Potevano essere case, cascine, rifugi, stalle, magazzini, caselle… qui qualcuno ha vissuto o teneva provviste.

Alcuni tratti sono freschi e scuri, è come essere nel ventre di una madre, ci si sente protetti ma occorre ugualmente fare attenzione. Dobbiamo cercare di essere cauti e gentili in un territorio che non abitiamo quotidianamente.

Il tappeto di foglie cadute l’anno scorso scricchiola sotto le mie zampe e mi fermo per ascoltare altri nuovi rumori di quella vita.

Si sta d’incanto. Mi siedo. Tiro fuori la mia piuma e l’inchiostro. Prendo una grossa foglia di Castagno e inizio a scrivere le mie sensazioni.

Vi lascio quindi ma, come vi dico sempre, restate pronti. Appena ho finito, vi porterò in un altro posto da favola.

Un bacio secolare a voi.

Don Aldo Caprile – l’ultima sigaretta

Ritorno a parlare con piacere di Don Aldo Caprile, come già avevo fatto in questo post https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2012/10/04/strada-don-aldo-caprile-e-il-santuario-della-madonna-della-neve/ perché per la Valle Argentina, e soprattutto per l’abitato di Badalucco, è stata una presenza preziosa, ancora oggi ricordata con affetto e decisiva per molti aspetti del paese.

Nonostante la grande umiltà che lo distingueva, Don Aldo è infatti riuscito a lasciare un forte ricordo di sé che, oggi, si può leggere persino su libri come questo del quale vi metto un’immagine. Tra queste pagine, il Prevosto, è raccontato con amore anche dall’amata nipote Sandra Caprile che, come lei stessa afferma, lui soleva prendere in braccio e innalzare verso il cielo in un tuffo pieno di risa e stupore. A lei, così piccola, sembrava davvero di poter toccare l’azzurro e le nubi, in quanto, suo zio era un uomo molto alto.

Si avvicinava ai due metri d’altezza e portava il 48 di scarpe ma, nonostante la sua mole, ha sempre dormito in un lettino piccolo e stretto obbligato a tenere i piedi di fuori. Lo stesso lettino per tutta la vita. Lo stesso lettino che lo ha colto quando ha esalato il suo ultimo respiro.

Anche la stanza che accoglieva questa brandina era povera e piccolissima. Persino senza riscaldamento.

Don Aldo, che era assai ingegnoso e volenteroso, per poter leggere, si costruì un leggio mobile che potesse finire davanti al suo viso quando era coricato, in modo tale da poter voltare le pagine dei tomi che studiava senza dover nemmeno uscire la mano dalle lenzuola, visto il freddo che faceva in quell’umida celletta.

Lo stesso leggio, veniva poi spostato verso il comodino quando era ora di dormire o giungeva il momento di alzarsi.

Con l’andar degli anni, quest’uomo grande e grosso e dotato di uno spiccato ingegno, si ammalò di un brutto male. Fu per questo che il suo modesto giaciglio dovette accoglierlo per tutto il tempo, fino alla fine dei suoi giorni, fino al giorno in cui Don Aldo, gran fumatore e appassionato di questo piacevole vizio, chiese una sigaretta a chi gli stava accanto e mai lo avrebbe abbandonato.

Il Sagrestano, il signor Nino, papà del mio caro amico Silvano, il quale ha vissuto il protagonista di questo post e mi ha raccontato tutta questa ricchezza, che peraltro ha sempre svolto l’attività di chierichetto con Don Aldo, si sentì chiedere quel regalo e, vista la situazione, prese una sigaretta delle sue e gliela diede davanti al Vescovo che attendeva l’amaro momento come anche gli altri pochi intimi presenti.

Don Aldo l’accese e inspirò ma, immediatamente, sul suo viso si dipinse un’espressione di disgusto. Quel tabacco non gli piaceva per niente! Che diamine! Volete darmi una sigaretta che sia almeno buona?

Senza pensarci su due volte si voltò da quello che era anche un caro e vecchio amico e disse <<Nino, dammene una delle mie, perché queste non mi piacciono per niente!>>.

Rispondendo prontamente ai comandi, il signor Nino, prese subito una Gauloises dal taschino della giacca del Parroco, adagiata su una sedia, e la porse al richiedente.

Fu in quel momento che Don Aldo si accese quella sigaretta, inspirò quell’aroma, si dipinse il volto di soddisfazione e… spirò.

Nino ci rimase malissimo, sgranò gli occhi e si sentì immediatamente colpevole, allorché il Vescovo stesso lo tranquillizzò dicendogli << E’ morto contento. Era solo questione di attimi >>.

Il viso dell’amato uomo era infatti rilassato e sereno dopo diverso tempo passato a lottare contro un male inguaribile che lo stava divorando. Non c’era nulla da fare se non attendere quel triste momento incapaci e avviliti.

Non c’era più nulla da fare se non guardarlo con amore e rispetto mentre i suoi piedi ancora uscivano da quel lettino.

Un pezzo di storia del paese di Badalucco se n’era andato ma, dietro di sé, aveva lasciato tanto. Oggi, come ho detto prima, riferendomi al mio vecchio post, ha lasciato il suo segno persino attraverso una bellissima stradina che hanno voluto dedicare  a lui. E’ la via che porta alla piccola chiesetta di San Bernardo ai Vignai, proprio sotto al Santuario della Madonna della Neve. Si tratta della chiesa più antica di tutta la Valle Argentina, ancora oggi luogo di pace immerso nella natura.

Ma perché di tutto quello che Don Aldo Caprile ha fatto nella sua vita per il bene degli altri, io ho voluto proprio ricordare questo momento e il suo essere un appassionato fumatore? Beh, è semplice, perché si sta parlando di un uomo vero, assai comune ma vero, e il momento della sua dipartita è stato sicuramente uno dei più significativi per chi lo ha vissuto ed è rimasto. Non ho finito di raccontarvi di lui ma, a me personalmente, questa vicenda ha toccato nel profondo e ho voluto condividerla con voi.

Su di lui, il Parroco Don Filippo Laschi ha scritto:

IN MORTE DI UN PRETE

Carissimi Parrocchiani, quando non ci sarò più direte:

Ho sentito il suo elogio funebre.

Ha costruito, riparato, restaurato,

ha fondato, costituito, organizzato.

E’ dunque un benemerito Signore,

abbilo in gloria.

Ti ho pregato per lui quella sera,

affranto, avvilito, turbato.

Ma, aveva fatto il prete, quel prete?

Aveva almeno fatto anche il prete?

Abbi pietà di lui, Signore.

Se però si sono accorti solo di tutto il resto,

abbi pietà di loro, Signore.

Per la sofferenza silenziosa di quel prete.

Apri gli occhi a chi ha creduto di elogiarlo,

e ha dimenticato che era prete.

Che capisca, almeno, qualcuno, chi è il prete,

che cosa fa il prete.

Ti chiedo, Signore, di aiutarmi a fare il prete.

E’ una tua chiamata e un tuo dono,

l’esserlo e il farlo.

Ti chiedo, Signore, per quando mi chiamerai,

ci sia una persona che si ricordi che le ho parlato di Te,

ci sia una persona che sa di averti incontrato per il mio

ministero.

Anzi, Signore,

ci sia almeno una persona a cui ho parlato di Te,

e non importa ch se ne ricordi,

purché ti abbia incontrato.

(Don Aldo Caprile – Antologia di Scritti e di Ricordi)

Don Aldo Caprile era questo (e molto altro). Una persona grazie alla quale si andava oltre il credo e i dogmi. Qui si parla di umanità e di servizio. Del mescolarsi tra la propria gente e lasciarsi amare per ciò che si è.

Prima di concludere questo post, che racconta di una storia viva e vera della mia Valle, permettetemi di ringraziare con un caloroso abbraccio i miei amici Gianna e Silvano perché è grazie a loro se ho avuto la fortuna di conoscere ancor meglio Don Aldo e farlo conoscere anche a voi.

…E non è finita qui.

Io vi aspetto per il prossimo articolo Topi, un bacione a tutti!

Via Grande a Molini – la via delle vie

Beh, ecco… prima o poi dovevo pur parlarvi di questa via. E’ assai importante. Importante per tutta la Valle ma soprattutto per il paese di Molini di Triora.

Al di là dell’essere davvero molto carina, antica e caratteristica è la strada in cui, ancora oggi, sorge la casa natia di Beato Giovanni Lantrua ma… chi era costui?

Ve lo spiegherò meglio in un altro articolo a lui dedicato ma posso accennarvi che morì martire in Cina e venne beatificato dalla Chiesa Cattolica il 27 maggio del 1900.

Per i fedeli della Valle Argentina è una figura di grande rilievo che, per questo carruggio, viene ricordato anche attraverso una statua che lo rappresenta. Inoltre, alcuni abitanti di questo borgo, sono suoi discendenti. Ma andiamo con ordine. Partiamo dall’inizio.

Dal centro dell’abitato di Molini, proprio davanti a quella che fino a poco tempo fa era la Bottega di Angela Maria, conosciuta da tutti, si apre un arco in pietra rivestita che mostra una gradinata in salita formata da ciottoli e mattoncini color rosso vermiglio.

E’ Via Grande che, al suo principio, è addobbata da una gigantesca immagine la quale mostra diversi ponti della zona.

L’aria si fa subito più cupa e ombrosa sotto a quella volta ma si può tornare a vedere il cielo continuando a percorrere quei gradini.

Poco prima di giungere a metà percorso, sulla sinistra, una piccola fontanella in pietra, simile a molte altre della mia terra, indica l’inizio di un’altra piccola stradina. Vedrete che sono tanti i vicoli che si intersecano a quello che è il carruggio principale del paese. Breve ma centrale, a formare il centro storico molinese.

Questo è quello che porta alla dimora del fu Francesco Lantrua divenuto poi – Giovanni – una volta fattosi Sacerdote.

Quand’ero solo una piccola Topina, qui ci venivo in colonia e passavo delle estati bellissime. Ovviamente, anche questo stretto vicolo è dedicato al Santo e porta il suo nome.

Quasi di fronte a questo carruggio si trova la grande Chiesa dedicata a San Lorenzo Martire.

Si tratta di una Chiesa dall’impronta gotica e dal portale importante e suggestivo, in ardesia, con scritte scolpite in questa pietra lavagna per noi molto pregiata. Ampi rosoni ne addolciscono lo stile ma resta comunque imponente e spicca con le sue pareti tinte di crema.

E’ molto antica, la sua realizzazione è iniziata intorno al 1486 e regala prospettive bizzarre e tagli del cielo davvero caratteristici se guardati da qua sotto. Questo grazie soprattutto al suo campanile che svetta altissimo al di sopra di tutto.

Mi sento osservata e continuando a guardare la bellezza azzurra che sbuca dai vari edifici noto che qualcuno mi sta guardando.

Sono due Piccioni curiosi, i quali mi suggeriscono di aggirare la Chiesa e andare a vedere cosa si cela dietro di lei.

I pennuti mi hanno consigliato bene. Su un cartello posto contro la parete di una casa, adiacente l’edificio religioso, leggo “Piazza Vittorio Veneto” e mi inoltro.

Davanti a me si spalanca uno spazio molto carino. Sembra di essere nella contea di qualche paese del Nord Europa.

Si vede bene il retro della Chiesa che continua a mostrare ulteriori aperture circolari in mezzo a tutta la pietra che la realizza.

Delle case, dall’aspetto pittoresco e piacevole, la circondano e a terra noto la figura di una torre nera creata con delle grandi piastrelle di marmo.

La stessa torre, che è proprio un simbolo, la si trova sullo stemma del Comune rappresentata anche sul gonfalone concesso al paese dopo il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri avvenuto in data 12 settembre 1953.

Proseguo per la via che oggi voglio conoscere meglio. Come ad essere in un labirinto vedo che tante altre viuzze s’intersecano ad essa. Ne leggo i nomi incuriosita e guardo quello che mi circonda.

Ci sono piante e fiori. Ortensie antiche ed essiccate che comunque suggeriscono bellezza. Vedo i colori dei muri delle case. Il rosa è tra i preferiti, tipica tinta della Liguria, e dove l’umidità la fa da padrona, si scrosta un po’ l’intonaco.

Anche questa è una caratteristica dei nostri carruggi dove il sole fatica a entrare e le notti sono più scure del buio; per questo si possono incontrare tanti lampioni, in diverso stile.

Sono tante le cose che mi colpiscono. Ci sono diversi complementi che adornano questa stradina e le stesse case sono molto carine e ben tenute.

Un’abitazione abbastanza grande sembra prestigiosa. E’ segnalata da una targa che confida chi vi è nato. Un certo Avvocato Serafino Caldani, il quale pare abbia fatto tanto per il bene pubblico del paese e gli abitanti di questo borgo lo ricordano con una scritta inamovibile.

Il cielo intanto si è trasformato. E’ ora un guazzabuglio di nubi mosse dalle correnti che regalano strane scie nell’aria. Affascinano. M’incanto ancora ma, con la coda dell’occhio, noto la famosa statua che vi dicevo prima.

Ecco il Santo in tutto il suo splendore. La statua sembra in bronzo e attorno a lei una cascata di piccoli fiorellini gialli appena sbocciati l’abbellisce ulteriormente. Alcuni petali sono caduti a terra e creano un tappeto fiorito dal colore vivace e intenso che rallegra i grigi ciottoli dei gradini.

Osservando l’espressione del Lantrua, che pare pregare con lo sguardo rivolto verso Dio, noto la costruzione che si para verso la fine di questa via centrale.

Si tratta del Ricreatorio San Giovanni Lantrua. Eh sì, tutto riporta il suo nome.

Questo edificio storico è raccontato dalle diverse targhe appese alle sue pareti che parlano di lui come un oratore. Innanzi tutto si viene a conoscere il fatto che è stato costruito nel 1925 grazie alle offerte donate dalla Compagnia Teatrale Filodrammatica diretta e fondata dalla signora Faustina Balestra.

E si può poi comprendere come, le fontane sottostanti la struttura, furono ben accolte dai molinesi, nel 1899, quando l’Amministrazione Comunale le inaugurò.

Questa è l’ultima grande casa di Via Grande, da qui inizia Via Case Soprane ma, per arrivare sin qui, ho incontrato anche: Via Giulietti, Via del Canto e Via Aia di Pe’, oltre a quelle che vi ho citato prima.

Bene Topi, non mi resta che riscendere e andare a fare nuove scoperte.

Quante storie si nascondono nei dedali dei miei borghi e quante belle cose interessanti da conoscere ci sono, non vi pare?

Allora io vi saluto con un bacio storico e vi aspetto al prossimo articolo.

Il sentiero oltre le mura

Triora è un borgo meraviglioso da visitare. I suoi carruggi raccontano di storie antiche, di streghe, di battaglie e signorotti.

È suggestivo camminare per quei vicoli, toccare le pietre che reggono quelle case imponenti, ammirare i contrafforti che parlano di unione.

Appare assurdo notare come, in alcuni punti, i potenti raggi del sole non riescono ad entrare nonostante stiano picchiando su ogni tetto con forza e calore. Si possono ben vedere e ben sentire, fuori le mura del paese.

Ai confini di quell’abitato che da qui, senza più case attorno, mostra la mia splendida vallata. Fuori le mura che, un tempo, chiudevano il villaggio in un mondo a sé, totalmente autonomo. Fuori da mura che proteggevano chi viveva all’interno.

Ed è da qui, verso Sud, che nasce un sentiero panoramico assolutamente da percorrere, costeggiando così Triora dall’esterno. È un sentiero a salire che ci porterà verso la parte più alta del paese ma, soprattutto, ci farà giungere in uno dei luoghi più noti di tutta la Valle Argentina.

Si tratta della “Cabotina”, un piccolo spazio dove molti molti anni fa, secondo la voce del popolo, le streghe si ritrovavano di notte per ballare col diavolo.

La natura è assai presente lungo questo percorso ben delineato in terra battuta e ciottoli.

Oltre ad alberi spogli e arbusti verdi posso già notare fiori di Calendula e Borragini destinati ai più golosi. Preziosi doni di Madre Terra già sbocciati nonostante il freddo mese di gennaio.

È entusiasmante vedere da qui Molini di Triora laggiù in fondo. Lo si vede in tutta la sua grandezza, disteso lungo il torrente. Di lui si notano i tetti rossi delle case, il campanile della chiesa e i monti che lo circondano. Si vede bene anche la Strada Provinciale che si percorre per salire su in Valle, partendo dal mare.

Al di sopra sonnecchia Andagna appoggiata sul monte. E’ riconoscibile anche la sua piccola chiesetta di San Bernardo alla sua destra.

Anche il paese di Corte è una meraviglia visto da qui incorniciato da foglie vive e turgide.

Ebbene sì, da come potete vedere, la vista è ampia e splendida.

All’inizio di questo percorso, ciò che resta di quelle mura in pietra, si vede ancora bene e, in principio, si passa sotto ad una volta, anch’essa in pietra, che un tempo doveva essere una delle varie entrate nel villaggio. E’ stretta e ricoperta di rovi. Immagino guardie davanti a lei a controllare il territorio. Chi si avvicinava e chi usciva dal borgo.

Tratti di quelle rovine accompagnano lungo tutto il cammino, anche se di loro è rimasto ben poco e, quel poco, oggi, è ricoperto da una natura selvaggia e ingorda.

Ci sono delle costruzioni. Sembrano vecchie case. Sono dei ruderi. Si individuano delle finestre e delle porte nelle pareti restanti. Forse erano le case delle sentinelle o abitacoli nei quali accordarsi per decidere come muoversi contro il nemico.

Continuando si arriva in un punto in cui degli scalini e un po’ di salita ci portano sempre più vicino alle zone abitate dalle streghe. Dei paletti di legno servono da ringhiera e muretti in pietra, più recenti, formano quel tratto di strada.

Il piazzale nel quale si giunge è lastricato di pietre piatte e lisce. Ci si può ballare sopra sicuramente ma le bazue, di certo, avranno danzato su un terreno più rude.

Anche da qui un altro splendido panorama arricchisce gli occhi. Si può vedere una parte della Catena Montuosa del Saccarello ed è una meraviglia.

Alcune piccole porte in legno sono dipinte. Sono diverse le porte disegnate in questo paese conosciuto come la “Salem d’Italia”.

L’atmosfera è diversa adesso rispetto a prima. Si entra nell’arcano.

La rappresentazione di una bella strega dai capelli rossi lo conferma. Accanto a lei uno scaffale pieno di erbe essiccate per ricordare gli elisir e le pozioni che queste donne creavano.

Donne vissute nel XV secolo e perseguitate dall’Inquisizione che qui, a Triora, è stata davvero protagonista per molti anni.

Una passeggiata breve, tranquilla, da fare se ci si vuole rilassare e per vedere questo paese, conosciuto in tutto il mondo, e la mia Valle anche da un altro punto di vista.

Ora mi guardo i vecchi casoni che si trovano proprio qui, alla fine di questo sentiero.

Un bacio stregato a voi! Alla prossima!

A Triora nella grotta di Lourdes

Siete mai stati a Lourdes Topini? Probabilmente sì ma oggi voglio portarvi con me in un’altra Lourdes che, pensate un po’, appartiene alla mia Valle.

Parecchio tempo fa vi avevo fatto conoscere la Lourdes al Santuario dell’Acqua Santa, nei pressi di Montalto, che potete vedere in questo post https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2011/10/25/mini-lourdes/ anche questo della Valle Argentina quindi e oggi, invece, andiamo nella Lourdes di Triora.

Si tratta, in pratica, di una piccola grotta contenente le statue che rappresentano la Madonna di Lourdes e la giovane Bernadette Soubirous che prega, inginocchiata, la Vergine Maria.

Poco oltre il centro dell’antico e misterioso Paese delle Streghe, sorge quello che è l’emblema più conosciuto al mondo, probabilmente, della Religione Cristiana. La rappresentazione di uno dei fatti più ricordati e acclamati dai cattolici. Il miracolo delle apparizioni della Madonna ad una bimba della Francia Meridionale, avvenuti, secondo i racconti, nel 1858.

La grotta nella quale vi conduco oggi, rappresentata in modo totalmente identico all’originale, racchiusa dietro ad un cancello di ferro, sorge davanti ad una piccola piazzola dove ha fine anche la Chiesa Parrocchiale Collegiata di Nostra Signora Assunta, una delle Chiese più importanti del paese.

Sono molte le finestre che si affacciano su questo intimo piazzale.

Attorno a questo antro, infatti, sopra e sotto i carrugi, ci sono diverse abitazioni e c’è persino ancora la casa nella quale aveva sede l’antica Biblioteca Ferraironi con tanto di Stemma della Repubblica di Genova dal grande valore storico.

Non vi sto parlando di un luogo assai antico come quelli che vi ho mostrato altre volte ma ha comunque compiuto da pochi anni un secolo. E’ stato fatto costruire nel 1914 dal Parroco di Triora dell’epoca: Don Sebastiano Lombardi; come indicano anche le iniziali sotto ai piedi nudi della Vergine.

Qui, dove oggi si viene a pregare, esisteva un tempo uno dei tanti Forni Comuni del paese, assai noti in tutta la Valle Argentina, e il forno che era qui era chiamato “Forno della Rocca”.

Si tratta di una Rocca, ancora oggi esistente, alta e severa che con fare deciso si innalza verso il cielo.

Siamo poco lontani dalla cinta muraria del borgo e pare di andare incontro ad uno spicchio di infinito se si guarda verso Sud. Si vede il piccolo paesino di Perallo e gran parte della Vallata.

C’è molta pace a quest’ora del pomeriggio. Come se tutto sia addormentato. Solo un piccolo Passerotto curioso si posa accanto a me per guardarmi.

Nonostante, ai tempi, realizzare questo monumento costò 2.150 lire circa, furono gli abitanti stessi, bambini compresi, a portare in quel piazzale piccole e grandi pietre di tufo che servivano per creare quel luogo voluto da tutti.

Per la precisione, come recita la legenda messa a disposizione dal Comune di Triora in loco, la Madonna venne posizionata all’interno della grotta durante la sera del 13 giugno 1915. La prima messa, accanto a quella che divenne presto una nicchia sacra, venne celebrata il 9 novembre dello stesso anno.

Si tratta di una Madonna abbastanza grande (è realizzata in cemento e pesa circa 140 kg pur essendo vuota al suo interno) e dal candido abito soltanto appena colorato di oro ai bordi.

Un lungo rosario è appeso al suo braccio destro e sul suo viso è dipinta l’espressione della misericordia. Gli occhi, rivolti verso l’alto, mostrano come un patimento nei confronti dei mali del mondo e le sue mani sono giunte. La corona, a forma di aureola, la descrive come Immacolata Concezione e, attorno a lei, qualche fedele ha posizionato dei fiori bianchi e rossi.

I fiori e le piante non mancano in nessun punto di questo posto assai caro ai Trioresi. Ci sono anche lunghi mazzi di Lunaria, conosciuta anche con il nome di – Moneta del Papa -.

Bernadette, che si trova alla sinistra di Maria, in una piccola fessura di roccia nella quale sta anche una Stella di Natale, guarda con devozione quella bianca signora.

Purtroppo però, a causa forse dell’umidità o delle rocce, questo Santuario ha dovuto subire nel tempo diversi significativi restauri. Il primo, addirittura, vent’anni dopo la sua nascita.

Persino verso gli anni ’90 del secolo scorso venne restaurata e venne restaurata, gratuitamente, da diversi artigiani legati al paese affettivamente che prestarono la loro opera.

Un bel luogo. Un luogo di quiete. Un luogo dal quale si può uscire dal paese e percorrere il sentiero che circonda quell’abitato meraviglioso.

Sarà proprio il sentiero che prenderò a breve, godendo di una vista mozzafiato, per poi scrivere un’altra storia per voi.

A presto quindi, vi lascio con un bacio immacolato!

Fontana Sottana – il dono dei massari

E dopo avervi portato a visitare Fontana Soprana, non posso non farvi conoscere anche Fontana Sottana.

Siamo quindi sempre nel caratteristico borgo di Triora, paese dal ricco passato, che ha tanto da raccontare.

Il nome della Via, omonimo al luogo protagonista di questo articolo, ci indica che siamo sulla strada giusta, ma per vedere la Fontana dobbiamo scendere per Via San Bernardino e raggiungere Via Camurata.

Fontana Sottana non si trova infatti in Via Fontana Sottana.

Si tratta di una Fontana in pietra, piccola ma massiccia, anch’essa, come la sorella, dotata di un bel rubinetto in ottone.

E’ molto antica, è stata fatta costruire dai massari del comune Bertone Oddo e Matteo Stella nel 1480 ed è collegata a Fontana Soprana perché da lei ne riceve l’acqua attraverso canali in pietra, costruiti a mano, che attraversano le fondamenta del borgo o ne affiancano le abitazioni.

Siamo in una parte del paese molto intima e centrale.

I carruggi sono umidi e scuri. Ciottoli e mattoncini pieni, color vermiglio, formano il suolo sul quale poggiamo le zampe.

Le volte importanti, anch’esse in pietra, donano una frescura sicuramente piacevole nei mesi caldi dell’anno.

Mentre sopra a Fontana Soprana era stata costruita la nota Casa del Boia del paese, Fontana Sottana nasce sotto ad un edificio anche lui significativo per Triora: si tratta infatti dell’antico Ufficio Postale che però non esiste più.

Oggi è una specie di monumento, un punto di ritrovo che parla di storia e della vita di un paese.

Sotto all’arco che la ricopre e la protegge, incisa su una lastra di ardesia, una scritta in latino lascia un messaggio a tutti quelli che la leggono da parte di chi, questa Fontana, l’ha voluta e realizzata.

Questa scritta, scolpita, recita: Bertonus Odus / Mateu Stela massarii fecerunt fieri hoc opus.

Attorno a lei le case sono unite come in uno stretto abbraccio e i vicoli si snodano come fili di lana da un gomitolo.

Da qui non si gode di nessun panorama, si può solo alzare il muso verso l’alto e osservare come alcuni spicchi di cielo si mostrano tra quei tetti costruiti tanti anni fa.

Delle piante, dal verde cupo, sono gli unici punti luce in quel grigio storico, ricco di eventi e vicissitudini talvolta ricoperto di ragnatele.

So che attorno a lei sono molti altri i punti di interesse e quindi non posso più soffermarmi troppo, devo andare ad ammirare altro.

Se venite a Triora però, non perdetevi questa Fontana. E’ uno degli elementi più antichi di tutto il paese e fa quasi impressione toccarla con le mani.

Un bacio a voi!

Regina per un giorno nel Castello di Triora

Oh! Si! So già che state pensando: “Topina! Ti accontenti di poco!” ma è perché non sapete cosa riesco a fare con la fantasia e l’immaginazione. Ma oggi ve lo mostro.

So bene che andiamo verso quello che ormai è solo un rudere ma sono tante le cose che ci attendono quindi seguitemi.

Venite con me, vi conduco nel mio… Castello!

Ci saranno paggi e valletti, guardie e principi, tanta storia e, dalla torre più alta, potremmo vedere un panorama meraviglioso.

Nel bel mezzo dell’antico borgo di Triora prendiamo per Via Castello da Fontana Soprana. In realtà, il mio Palazzo Reale, si può raggiungere da diverse vie ma questa salita di ciottoli, che si srotola tra le case del borgo, mi piace molto.

Mi soffermo a guardare i miei monti. La loro immensità, il loro stagliarsi contro il cielo e cullare i paesi di Corte e Andagna.

Sorrido a quella bellezza e mi dirigo verso la meta di cui vi parlavo conosciuta anche con il nome di Castrum Vetus Triorae e che fu realizzata intorno al XII e il XIII secolo.

Il Capo delle Guardie mi viene incontro per salutare Sua Maestà. Ha un’espressione rude ma in realtà è un coccolone. Dovete capire che deve mantenere un certo contegno e una certa autorità per farsi rispettare da tutti i soldati.

Dopo avermi riempito per bene di pelo, miagolando a più non posso, mi lascia libera di giungere a Casa mia.

Tutti acclamano la Regina suonando trombe e sventolando bandiere. Le fiaccole appese fanno una gran luce grazie alle fiamme ardenti le vedete anche voi?

Ma come no? Guardate bene! Cola persino ancora la cera da quei porta-torce in ferro battuto. Che meraviglia!

Quanta pietra robusta a realizzare quello che un tempo era un fortino inespugnabile.

Quello che posso mostrarvi è poco: un bastione, un torrione dal quale un tempo si poteva scorgere il nemico arrivare e qualche pezzo rimasto del muro di cinta.

La vista da qui, infatti, è ampia e se mi arrampicassi fino in cima potrei vedere anche la strada principale di sotto ma mi accontento di vedere, da varie prospettive, i tetti rossi di Triora, il campanile e tutta la natura che circonda il paese.

E’ uno sguardo pieno di entusiasmo il mio.

Le case sembrano appiccicate le une alle altre e, viste da qui, appaiono decisamente più piccole.

Le restanti rovine mi permettono ancora di percepire l’altezza e la stabilità di questa costruzione.

Eppure dovete sapere che è stata distrutta diverse volte, sembrerebbe quattro volte, persino dagli stessi trioresi arrabbiati a causa delle tasse troppo alte che venivano imposte. Eeeeh… i miei antichi convallesi non erano certo degli smidollati! Perbacco! Siamo nel Paese delle Streghe mica in quello dove si pettinano i criceti!

Questo Castello appartenne infatti anche ai Conti di Ventimiglia i quali, come vi ho già spiegato in altri articoli, non erano proprio molto apprezzati dal popolo.

In un altro tempo, invece, questo luogo storico e fantastico era l’abitazione dei signorotti locali ma appartenente ovviamente anche alla Repubblica di Genova, dal 1267, come tutto questo territorio d’altronde. La torre era infatti definita – bastione difensivo della Repubblica -.

Sotto di lei sorgeva il Cimitero e, durante gli ultimi lavori esterni (avvenuti nella prima metà del 1800) vennero rinvenute parecchie ossa umane trasportate poi in quello che è ancora oggi il nuovo Camposanto e che tuttora riposa oltre il sentiero Beato Giovanni Paolo II.

Sto fantasticando in quello che venne per molti anni considerato uno dei punti più strategici di tutta la Valle Argentina.

Sto cercando la Sala del Trono, dovrò ben sedermi dopo aver fatto tutti questi passi in lungo e in largo, ma la mia attenzione viene nuovamente rapita dai bordi frastagliati di alcune mura. Posso di nuovo vedere i miei amati monti.

In realtà, quei perimetri, sembrano non finire come ad avere un proseguo infinito chissà dove. Mi è facile immaginare un vero e proprio Palazzo dai tratti severi e solenni.

Il piazzale davanti è un lastricato di grigia pietra e oggi è divenuto un balcone che si affaccia sulla mia Valle. In antichità invece era l’entrata del Castello ma anche il centro della cosiddetta “Cittadella”.

La Cittadella era un nucleo abitativo totalmente autosufficiente e racchiuso dentro a delle mura nella quale i trioresi vivevano senza bisogno di nulla se non quello di vendere o barattare i propri prodotti. Essi coltivavano, cucinavano, lavoravano sempre all’interno di questo feudo e protetti.

All’interno del bastione, se si alza il naso all’insù, si può vedere il cielo perché non esiste il tetto ma, oltre al velo azzurro, vedo trecce bionde e lunghissime scendere giù da quelle feritoie e Principi Azzurri pronti a… ehm… ma no, forse questa è un’altra fiaba.

Beh, lo scenario qui è talmente bello che sembra di essere in un mondo magico e in un tempo che fu. E’ assai facile confondersi.

L’entrata della torre è piccola e dalla volta tonda, sembra la porta di una cripta, mentre è interessante osservare la trave in legno che fa da portale a quello che doveva essere un vero e proprio uscio.

Durante la costruzione di questo edificio non era ancora stata usata l’ardesia come architrave.

Compio ancora un giro intorno a tutto ciò che resta del noto Castello e sogno ancora un po’, fino al calar del sole. Il Toraggio si illumina di nuova luce così come le case dei trioresi e il mio animo.

Adesso c’è ancora più silenzio e l’atmosfera è splendida da vivere. Con una zampa accarezzo un’ultima volta quelle pietre. Chissà cosa hanno visto da quando sono qui. Quali abiti? Quali persone? E chissà se hanno sentito urlare, o ridere, o chiamare, o suonare antichi strumenti.

Lascio immaginare anche un po’ voi, io devo rientrare in tana perché ho un altro post da scrivere.

Alla prossima topi! Un bacio regale a voi.

Ad Arma di Taggia, la morte sospetta di Tranquillo

Era il 25 agosto del 1962 quando nella pacifica cittadina di Arma di Taggia, primo paese della Valle Argentina, affacciato sul mare, accadde un fatto che scosse tutti gli abitanti e lasciò perplessa l’Italia intera.

Purtroppo, anche nella mia Valle, sono accadute cose molto spiacevoli e questa storia, realmente successa, non è a lieto fine ed è anche molto strana.

Si tratta della morte di un signore, un certo Tranquillo Allevi, chiamato “Tino” dagli amici più intimi, che ricevette per posta un pacco davvero particolare. Fu la moglie di Tino a ritirare quella scatola incartata in modo sgarbato e frettoloso ma il mittente era la nota azienda San Pellegrino e quindi poteva contenere qualcosa di importante.

Marito e moglie pensarono ad un’opportunità lavorativa, ottima a quei tempi. Diventare dipendente di una ditta così importante non era da tutti e furono contenti di aver ricevuto quel regalo.

Ma cosa c’era in quella scatola? Ebbene, quel pacco conteneva una bottiglietta di liquido analcolico prodotto da quella azienda che, in quegli anni, era conosciuta con il nome di Società Anonima delle Terme di San Pellegrino.

Assieme alla bottiglia c’era un biglietto indirizzato a “Tino” Allevi e sul quel foglio veniva dichiarato proprio il sogno del signor Tranquillo, cioè divenire rappresentante di quella specifica bevanda che pareva un Bitter.

Ovviamente però, quella bibita doveva essere assaggiata dal signore in questione, il quale, successivamente, avrebbe potuto parlare con un incaricato mandato dall’azienda proprio per decidere l’assunzione.

Felice e soddisfatto, il destinatario, prima di aprire la bottiglia chiamò due suoi carissimi amici che facevano i commercianti perché voleva condividere con loro la buona notizia e l’avvenimento. Questi, potevano inoltre essergli d’aiuto, dal momento che lui era abituato a vendere solo formaggi, e grazie a loro poteva avere un giudizio sicuramente più preciso.

I due amici accettarono l’invito e, una volta giunti a casa del signor Allevi, vennero a conoscenza di tutta la vicenda. Come promesso, Tranquillo versò in tre bicchieri la bevanda, brindò e tracannò tutto d’un fiato con l’animo di voler festeggiare. Quella bevanda però era talmente amara che i due compagni di Allevi non riuscirono che a berne soltanto qualche goccia ma, verso le 22:30, dopo solo mezz’ora l’aver ingurgitato quel liquido, tutti iniziarono a sentirsi poco bene e ad avere forti crampi allo stomaco.

Tino era, dei tre, quello che stava più male. Vennero portati d’urgenza all’ospedale ma, purtroppo, per Tranquillo Allevi non ci fu nulla da fare e morì per avvelenamento acuto procurato da una sostanza sconosciuta.

I medici supposero si trattasse di Stricnina un potente veleno usato persino per uccidere vari animali.

I due amici del protagonista di questa triste vicenda riuscirono a sopravvivere grazie alla lavanda gastrica e anche per il fatto che avevano mandato giù solo un sorso di quella strana e letale bibita.

Ma poteva la ditta San Pellegrino volere la morte di Tranquillo o essersi sbagliata nel confezionamento di bottiglie?

Gli inquirenti iniziarono le ricerche analizzando soprattutto il pacco arrivato per posta e la casa del povero signore. Come mai quella specie di scatola di biscotti, utilizzata per trasportare la bottiglia, non aveva nessun marchio San Pellegrino? E perché la San Pellegrino si sarebbe dovuta rivolgere proprio al signor Allevi di Arma di Taggia che vendeva formaggi?

Ebbene, purtroppo Topi, ci ritroviamo davanti a un caso di omicidio e quello che fece subito capire questo fu il nomignolo “Tino”, scritto a macchina, su quel biglietto di cui vi accennavo prima. Un diminutivo usato soltanto da chi Tino lo conosceva bene.

Si scoprì presto che il pacco fu spedito da Milano ma anche la San Pellegrino era un’azienda lombarda e, quindi, si era ancora lontani dalla verità. Tuttavia, le ricerche iniziarono ad indirizzare gli inquirenti verso la pista dell’omicidio passionale.

All’improvviso si iniziarono a puntare le luci sulla moglie della vittima, la signora Renata Lualdi, proprio colei che ritirò il pacco quella mattina. Qui si apre un nuovo palcoscenico che vede la moglie di Allevi come una donna bella e affascinante ma sola e trascurata dal marito, per cui divenuta adultera stando alla ricostruzione della Magistratura.

Si dice che gli amanti della signora Renata furono diversi ma quello con il quale la donna aveva trovato un po’ di felicità sembrava essere un giovane veterinario di un Comune lombardo; il Dott. Renzo Ferrari. Pare addirittura che i due conducessero una relazione clandestina già da quando la famiglia Allevi viveva a Novara, paese d’origine, e che il trasferimento ad Arma di Taggia fu voluto proprio dal signor Tranquillo nella speranza di allontanare la moglie dall’amante.

La strategia di Tino Allevi funzionò perché, i due amanti, a causa della distanza e del poco tempo a disposizione da trascorrere assieme, raffreddarono il rapporto portando la signora Lualdi a trovare un altro amante per dimenticare Renzo.

Il Dottore però, nonostante la passione venuta meno, non accettò di essere sostituito e decise di incontrare Tranquillo per proporgli un affare un po’ bizzarro: 4.000.000 di vecchie Lire in cambio della moglie.

A quel punto, Tranquillo Allevi, rispose al rivale in amore che non poteva e non doveva essere lui a scegliere al posto della moglie ma sarebbe stata la stessa Renata a fare la sua scelta. Una proposta che Renata Lualdi rifiutò e questa sua decisione mandò in bestia il signor Renzo.

L’unica chance che restava al veterinario lombardo era uccidere Tranquillo al fine di avere la signora tutta per sé.

Le prove schiaccianti e l’accusa della stessa Renata condussero all’arresto e all’ergastolo del Ferrari che si è sempre dichiarato innocente. Venne poi graziato dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel 1986.

Questo assassinio venne nominato dalla Stampa del tempo “l’Omicido del Bitter” e portò al famoso detto, che ancora oggi si sente nella parlata popolare, e recita << Tranquillo è morto ammazzato >> in risposta a chi ci dice << Ma stai tranquillo! >> senza però infondere nessuna fiducia.

Questo articolo è stato scritto raccogliendo le testimonianze di chi ricorda il fatto e ricercando articoli e video in rete, per cui, se ci fossero degli errori sarei lieta di saperli. Inoltre qui https://m.dagospia.com/quando-dicono-tranquillo-ha-fatto-una-brutta-fine-1962-una-folle-storia-di-corna-153355 potete vedere anche le foto dei protagonisti di questa macabra vicenda.

Avete capito Topi? Un noto proverbio è nato proprio in questo luogo, all’inizio della mia splendida Valle, ma la sua nascita è costata cara ad un uomo che desiderava diventare il rappresentante di una famosa azienda italiana e assicurare così benessere a se stesso e alla sua famiglia. Che storia…

Vi mando un bacio silenzioso nel rispetto di tutti i protagonisti di questa vicenda. Alla prossima!

La Valle della divina Cloris

Ah, topi! In Valle Argentina non manca proprio nulla: storie di fantasmi, di spiriti, di amori travagliati e conti spietati. Racconti di streghe, di gnomi e di fate, di voci trasportate da secoli dal vento… Potevano forse mancare le divinità? Certo che no!

E allora oggi ve ne riporto una che forse non conoscete, state a sentire.

Glori

Nel cuore della Valle Argentina, nel territorio di Molini di Triora, si trova un piccolo borgo che negli ultimi tempi sta rifiorendo, amato e coccolato da abitanti giovani e volenterosi. Quello smeraldo incastonato nella corona montuosa che è la mia valle, ha un nome bellissimo e particolare: Glori.

Glori borgo

Badate, non ho scelto a caso lo smeraldo, perché Glori si trova in mezzo al verde traboccante di una natura generosa e rigogliosa, contornato da fitte e scoscese foreste, oltre che da acque cristalline che scendono in rivoli fino a valle. È uno scenario da fiaba, insomma, non si può non restare incantati e ammaliati da tanta bellezza e abbondanza.

vegetazione Glori

Si dice che il nome di questo borgo così bello, che nell’italiano corrente rimanda già a qualcosa di grande, epico e glorioso, derivi da un’antichissima divinità pagana, venerata dai nostri più remoti antenati: la ninfa greca Cloris.

A lei erano consacrati la Primavera, i fiori, i boschi, la crescita delle piante e della Natura tutta.

violette

Secondo la tradizione greca, la bella ninfa Cloris abitava nell’Eliseo, una terra irraggiungibile dai vivi. Era un regno paradisiaco al quale potevano accedere solo coloro che erano stati amati dagli dèi e che avevano abbandonato le loro spoglie mortali. Le anime di questi gloriosi vivevano in questo regno una nuova vita di beatitudine, nulla mancava loro. Lì tutto era accarezzato da brezze leggere, non esistevano il gelo tagliente degli inverni più rigidi, né l’infelicità e la carestia.

Glori paesaggio

Un giorno, tuttavia, Cloris fu portata via dall’Eliseo, rapita da Zefiro, dio che presiedeva al vento dell’Ovest. Egli si era perdutamente innamorato di lei e decise così di renderla una dea. I due si sposarono e Cloris cambiò il nome in Flora, divenendo la dea della vegetazione cara ai romani, legata anche alla fioritura dei cereali, alla crescita dei vigneti, degli alberi da frutto e di tutte le piante che danno alimento all’uomo.

Non è difficile immaginare il motivo che spinse le antiche genti che popolavano la Valle Argentina a intitolare il borgo alla ninfa Cloris, se la leggenda fosse vera come in effetti sembrerebbe.

Glori sentiero

Glori è un luogo di pace e beatitudine, che si avvicina bene alla descrizione del mitologico Eliseo. Sebbene si trovi a 593 metri sul livello del mare e sia distante circa 31 km dalla costa, la sua temperatura è mite, i suoi inverni mai troppo rigidi e tra i carruggi del paese si respira aria di armonia e serenità. I terreni che lo circondano sono davvero sinonimo di abbondanza: un tempo qui si coltivavano molto i cereali, che offrivano sostentamento a tutta la popolazione, e oggi gli orti e i frutteti sono carichi di delizie pronte per essere trasformate, proprio come se questi luoghi fossero ancora protetti dalla fiorente Cloris.

Glori orti

Ma Glori è anche luogo di fiori, e ce n’è uno in particolare che viene coltivato per il prodotto che se ne trae: lo Zafferano. Ed è prodotto per l’appunto da una giovanissima azienda, intitolata proprio a Cloris.

Insomma, non c’è da stupirsi se questo borgo ridente e pacifico fosse davvero consacrato a quell’antica dea che ancora oggi si rispecchia in un territorio che pullula di vita e abbondanza, che brulica d’amore e armonia.

Io ve l’ho detto, topi! La mia è una valle… divina!

E ora scendo dall’Olimpo (ehm… volevo dire dal Saccarello!) per scovare qualche altra storia da raccontarvi!

Un bacio glorioso a tutti.