Un Uomo/Albero in Valle Argentina

C’è un uomo in Valle Argentina davvero particolare… forse sta scappando o forse è timido. Oppure stanco e rincasa. Sì, è un uomo che sta per entrare nella sua dimora, suggestiva quanto lui. La sua casa è un albero e… anche lui è un albero.

Come un gigante buono e nudo, lo si vede accucciato a terra nell’intento di nascondersi.

Oppure ancora… che stia cercando qualcosa?

Cari Topi, anche oggi riesco a farvi vedere qualcosa di meraviglioso grazie alle foto dell’amico Renato.

Un regalo della mia bella Valle. Un regalo che potete vedere anche voi, a Passo Teglia, per la strada che da Drego (sopra a Andagna) va verso Rezzo.

Guardate questo tronco storto e ricurvo. Grosso, liscio. Ha proprio sembianze umane.

Un apparato radicale come se ne vedono davvero pochi.

E i boschi della mia Valle, fatati sicuramente, prendono ancora più vita davanti ai miei occhi.

Sono molte le forme strane e arcane che si notano nella Valle Argentina.

Ve lo avevo già mostrato attraverso Castagni e Faggi secolari. Attraverso i tronchi spezzati dei Larici antichi ma, ogni volta, queste bizzarre opere naturali, lasciano a bocca aperta.

Figure che la natura ha dipinto o ne ha preso le sembianze.

Ve le avevo mostrate anche attraverso le rocce e nelle luci del cielo… ma guardate qui… non è incredibile quest’albero? Non vi sentite immediatamente trasportati in un nuovo racconto di Tolkien, dove Druidi e alberi parlanti vivono in perfetta armonia?

Potrà salvarmi questo gigante di legno dall’attacco di Elfi bricconi o Trolls poco simpatici?

Un gigante nel quale scorre magica linfa. E, assieme a lei, scorre la mia fantasia. Dove il vero protagonista è lo stupore, il quale resta negli occhi a lungo.

Il bosco è vivo e non solo biochimicamente. Il bosco è vivo dentro a ogni corpo. In vibrazioni ancestrali.

Sono un animale, un piccolo roditore, viaggio in altre dimensioni, ma in queste dimensioni voglio portare anche voi.

Osservando certe bellezze si uniscono altri sensi a quelli fisiologici, verso i quali abbiamo fatto l’abitudine.

Si sviluppano nuove percezioni e si affinano ulteriori virtù.

Quanto è affascinante questa figura che mi accompagna. Antica e bellissima. Straordinaria e da rispettare.

Sappiamo tutti che un albero dona ossigeno, ombra, nutrimento, calore, riparo… è un meraviglioso essere vivente, ma quando regala anche la possibilità di dare vita ai nostri pensieri, trasformandoli in fantastici, beh… direi che davvero non possiamo chiedere di più.

Che altro dire Topi? Siete rimasti di stucco vero?

Vi vedo con i baffi a penzoloni. La Valle Argentina continua a stupire e non ha ancora finito, perciò seguitemi anche nella prossima avventura. Vi aspetto.

Vi mando un bacio dalle forme inusuali e ringrazio ancora una volta Topo Renato.

A presto!

Gli Gnomi della Valle Argentina

Credevate, forse, che la mia Valle potesse farsi mancare questi piccoli esserini? No, topi! Certo che no! E ci sarebbero diverse prove della loro presenza, per altro conosciuta in certi luoghi di questo spicchio di mondo che adoro.

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Talmente misteriosi che neppure i più grandi ricercatori sono riusciti a scoprire molto su di loro, e infatti anche in Valle Argentina si sa della presenza degli Gnomi, ma è difficile descriverne il loro aspetto e comportamento. Si presume, dunque, che siano molto timidi, a differenza di altri abitanti del regno fatato, sicuramente più sfacciati e dispettosi.

E scommetto che faticate persino a immaginarveli, o meglio: ve li figurate come fossero Folletti o magari simili ai Nani… Ebbene, gli Gnomi sono assai diversi da entrambi, ma a loro piace creare confusione sul loro aspetto ed essere scambiati per qualcun altro.

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Il nome di queste creature fu assegnato loro da un alchimista di nome Paracelso, e deriva dal latino “gnoscere”, che significa conoscere. Il Gnomi, infatti, sono assai saggi. Conoscono molte cose del bosco, degli animali, delle piante e della Natura, della quale sono profondi esploratori e audaci protettori.

Diffidano molto degli esseri umani, infatti si tengono bene alla larga da loro, se possono, ed è per questo che abitano luoghi selvaggi, irraggiungibili o particolarmente chiusi in se stessi e carichi di mistero.

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Alcuni, addirittura, dicono che siano spiriti protettori dei boschi, tant’è che si dice abitino in certi alberi secolari.

Qui in Valle Argentina si racconta che abitino in particolare a Boscu Negru e su Monte Ceppo, e io non ho dubbi al riguardo. Infatti, sono entrambi posti che pullulano di felci, piante che – almeno così si dice – sono da loro predilette e ne annunciano la presenza.

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Alla felce, in effetti, in passato sono stati attribuiti poteri e qualità che riguardano anche gli Gnomi. Si credeva, infatti, che potesse donare l’invisibilità: poiché non si conosceva il metodo riproduttivo tramite le spore, gli antichi pensavano che il seme della pianta fosse invisibile, qualità, questa, che anche gli Gnomi posseggono.

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Si favoleggia anche che la felce sia in grado di segnalare – soprattutto in particolati giorni dell’anno – la presenza di grandi tesori nascosti, e gli Gnomi sanno bene dove e come trovarli. Infine, la parola felce e la parola felice sono molto simili tra loro, c’è chi dice che la prima derivi dalla seconda, e gli Gnomi sono rinomati per essere bonari e sempre sorridenti.

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Alcuni sostengono di aver visto la porticina d’entrata alle loro case, nascosta tra le radici di alberi antichi e di grandi dimensioni. C’è chi afferma che siano persino in grado di trasformare il loro aspetto in quello di un fungo, nel caso in cui si sentissero minacciati da presenze moleste nei dintorni.

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Quale che sia la verità, topi, certi angoli della Valle Argentina paiono davvero ospitare Gnomi, Fate e Folletti. A me non è difficile crederlo, chissà che prima o poi non ne incontri uno in carne e ossa!

Un saluto misterioso a tutti voi.

Il Corbezzolo – Vivi e colora il tuo mondo

Poi qualcuno osa dire che l’Autunno è una stagione triste e spenta, poco colorata… Ma meno male che c’è qui la vostra Prunocciola, pronta a mostrarvi la Natura come la vedete di rado!

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Cari topi, in questo periodo dell’anno i monti e la Natura tutta si colora di tinte assai calde e accoglienti, complici anche le giornate ancora per lo più terse e molto tiepide. Ed è in questo momento che giungono a maturazione anche dei frutti coloratissimi, che inondano i sentieri offrendo ulteriore bellezza agli occhi, come se non fosse già tanta quella offerta dai generosi Castagni dalle foglie d’oro, dai colori bronzati dei Larici, dalle tinte solari e delicate delle faggete e di tante, tantissime altre piante che fanno i fuochi d’artificio pur di farsi notare.

Sto parlando del Corbezzolo, il cui nome scientifico è Arbutus unedo, pianta appartenente alla famiglia delle Ericaceae. I suoi frutti paiono palline natalizie di colore giallo-arancio quando sono immaturi e rosso quando invece giungono a maturazione.

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La pianta è sempreverde e vanta la presenza in contemporanea di fiori e frutti sui rami. I suoi colori prevalenti (il verde delle foglie, il bianco dei fiori e il rosso dei frutti) la assimilano alla bandiera italiana, e per questo motivo ne è divenuta il simbolo patrio. Fu nell’Ottocento che assunse il significato di unità nazionale.

Plinio il Vecchio, naturalista e filosofo romano, riteneva i corbezzoli talmente insipidi che a suo parere era impossibile mangiarne più di uno, ecco spiegata la derivazione del nome scientifico della specie – “unedo” -, che deriverebbe da “unum” (= uno) e “edo” (= mangiare).

I suoi colori vivaci lo accostano alla Vita, e infatti è una pianta assai longeva, tanto da poter divenire addirittura plurisecolare. Cresce anche rapidamente, e con questo Madre Natura ci vuole lanciare un messaggio importante: chi sa colorare la propria esistenza, chi guarda con gioia ai colori, alla positività, cresce (e vive) con più facilità.

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Il verde è il colore del cuore secondo le discipline orientali, è la tinta che più di ogni altra riguarda l’energia d’Amore Incondizionato che permea ogni cosa nel Creato. E, in effetti, è il colore di Madre Natura… chi sa amare più e meglio di lei? Qualcuno lo attribuisce anche alla speranza, ma una creaturina del bosco come me non conosce questa emozione: noi bestioline, insieme alle piante e a tutti gli elementi naturali, non siamo soliti sperare, semplicemente siamo, esistiamo e agiamo, senza aspettative. Ecco perché per me il verde del Corbezzolo – e di tutte le altre piante meravigliose della Valle e del pianeta – rappresenta la Vita, la gioventù delle tenere foglie appena spuntate sui rami e dalla terra.

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Che dire, poi, del bianco? E’ la Purezza per antonomasia, la pagina ancora bianca prima di essere scritta, il principio di ogni cosa, l’insieme di tutti i colori esistenti e la tinta attraverso la quale si esprime la Luce… e, ancora una volta, la Luce è… Vita!

Giallo, arancio e rosso sono invece colori legati al Sole, al fuoco, quello della creazione e del calore fisico, avvolgente e prorompente. Anche in questo caso sono tinte strettamente legate alla Vita. Ed ecco che allora il Corbezzolo, racchiudendo in sé tutti questi colori, non fa che rimarcare, evidenziare e sottolineare con allegra e sfacciata enfasi il suo essere così profondamente legato alla Vita gioiosa, all’esistenza terrena.

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A proposito di fuoco… è una pianta originaria del Mediterraneo, e la terra lambita da questo meraviglioso mare è battuta dal Sole e spesso viene investita da incendi. Ma tutto in Natura è perfetto, topi, per cui questa mamma amorevole su cui poggiamo tutti le zampe ha escogitato un modo efficace e geniale per far sopravvivere le proprie creature durante manifestazioni apparentemente così estreme e violente. Come il Cisto, infatti, il Corbezzolo possiede una “memoria” di fuoco. Cosa significa? Vuol dire che si infiamma molto facilmente e questo gli permette di far passare velocemente le lingue infuocate sopra le proprie radici, in modo tale da preservarle intatte. In pratica la parte alta della pianta si incendia e si incenerisce molto in fretta, e dunque le fiamme, non avendo altro da “mangiare”, passano oltre. Le radici restano integre e da lì a breve il Corbezzolo rigetterà, concimato dalle sue stesse ceneri come l’Araba Fenice, crescendo velocemente come solo lui sa fare! Una meraviglia, insomma! Se non è Vita questa…

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Il Corbezzolo ha dimensioni arbustive, arrivando a raggiungere però fino ai 10 metri di altezza. I suoi fiori a grappolo sono ricchissimi di nettare, particolarmente apprezzato dalle mie amiche api, soprattutto se quando la pianta fiorisce – ovvero tra ottobre e novembre – non sono ancora giunti i primi freddi a farle rintanare. Il miele di Corbezzolo, molto pregiato, aromatico e amarognolo, è l’ultimo a essere prodotto prima del riposo invernale.

I frutti, come già dicevo, hanno forma sferica tanto da apparire come colorate palline decorative, sono grandi circa due centimetri e sono molto carnosi, possiedono in superficie dei tubercoli che danno alla bacca la sembianza di una pralina ricoperta di granella. Maturano tra ottobre e dicembre e non tutti ne amano il sapore e la consistenza, come ricordava Plinio, eppure in molti lo apprezzano, soprattutto per l’utilizzo in diverse preparazioni, tra cui le confetture.

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Se non lo apprezzano gli esseri umani, altrettanto non si può dire delle bestioline! In particolare esiste una farfalla che adora nutrirsi dello zucchero presente nei frutti, ne fa grandi scorpacciate, e per questo motivo la bellissima Charaxes jasius è meglio conosciuta più semplicemente come farfalla del Corbezzolo.

Se ne ricavano, oltre alle marmellate, anche vini, liquori, acquaviti e dolciumi.

Un tempo le sue foglie, ricche di tannini, erano utilizzate anche per conciare le pelli.

Il Corbezzolo cresce in mezzo alla macchia mediterranea, motivo per cui è più facile trovarlo sui sentieri costieri o che si affacciano quasi sul mare. Personalmente ne ho visti davvero molti sulle alture di Sanremo, tra San Romolo e Monte Caggio, così come anche tra Verezzo e i Prati di San Giovanni. Ama ambienti semiaridi, a un’altitudine che va fino agli 800 metri sul livello del mare, e cresce tra i cespugli, nei boschi in cui domina il Leccio o anche nei sottoboschi di pinete litoranee.

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Un’antica leggenda latina narra del salvataggio di un neonato da parte della ninfa Carna avvenuto grazie a un ramo di Corbezzolo. Per questo motivo la pianta è divenuta una delle piante che si dice respingano le streghe, soprattutto nella notte di San Giovanni (24 giugno).

I toscani l’hanno addirittura adottata nel gergo come esclamazione di meraviglia: “corbezzoli!”, dicono. E in effetti, topi, io non riesco proprio a dare loro torto. E’ una pianta assolutamente meravigliosa!

Un bacio tricolore a tutti voi.

Ciò che racconta l’Autunno

Topi cari, tutti voi sapete quanto io ami l’estate, eppure l’autunno – come ogni altra stagione di Madre Natura, del resto – ha una luce particolare che voglio far conoscere anche a voi.

Rocca Barbone - Valle Argentina

È appena cominciato e quest’anno pare essere anche più caldo del consueto, ma irrimediabilmente si percepisce nell’aria qualcosa di diverso rispetto alla stagione passata.

 

 

Non c’è più quel brulichio di energia tutto estivo, ogni cosa, adesso, sembra quiete, calma, armonia. L’autunno è così, topi miei. Dà nostalgia a chi ama la bella stagione, a chi agogna già i prossimi tuffi al mare o ai laghetti, ma dona anche una pacatezza che si sente dentro, dal cuore e fino alle viscere.

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I ritmi della Natura influenzano tutte le creature che ne fanno parte, e in questo periodo l’energia inizia ad abbassarsi, pian piano si ritira nel suolo, anziché sui rami e sulle parti alte delle piante. La stessa cosa capita agli altri esseri viventi: gli animali abbandonano pian piano il “mondo di sopra” per iniziare il loro periodo di letargo, mentre gli esseri umani si concentrano di più sulla loro interiorità. Si ricerca la compagnia, ma in modo meno mondano rispetto all’estate.

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E’ considerato il tempo del seme, quello in cui tutta la forza risiede in qualcosa di piccolo, talvolta minuscolo, ma che ha in sé potenzialità di grandezza e bellezza infinite. Il seme ha bisogno di buio e silenzio, due cose che si associano alla morte e alla vita intrauterina, elementi necessari alla crescita e alla nascita di nuova vita. La terra, con la sua umidità e i suoi sali minerali, si prende amorevolmente cura di quei semi, cullandoli e proteggendoli dal freddo esterno che avanza e incalza. Lo farà finché il semino non sarà pronto per aprire il suo involucro esterno e far germogliare la piccola, grande vita che contiene.

 

corbezzolo

Questo accade non solo al regno vegetale, topi! Tutta la Natura è coinvolta da questi cambiamenti, ecco perché l’autunno è la stagione in cui si resta più facilmente da soli con se stessi, si è più portati a riflettere, a permanere in uno stato ovattato di chiusura e protezione.

foglie

 Adesso le ombre si fanno più lunghe per via del sole più basso all’orizzonte, e allo stesso modo ci sono giorni in cui anche i lati più in ombra di noi stessi appaiono più cupi.

Ma l’autunno è anche luce riflessa sulle foglie tinte d’oro e vermiglio, nei cieli dai colori caldi e avvolgenti di albe e tramonti strabilianti.

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I larici danno spettacolo tingendosi con tavolozze niente male, lo stesso fanno anche i castagni, i faggi, le querce, i noccioli e tutti gli altri alberi della Valle, eccezion fatta per le conifere.

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Tutto si tinge d’incanto, quasi come se Mamma Natura volesse farci vedere che tanto più le ombre si fanno lunghe, tanto più sarà sgargiante il tripudio di colori del Creato.

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L’autunno è equilibrio, proprio come l’Equinozio attraversato da poco: luce e ombra si bilanciano perfettamente e noi possiamo godere di tali cambiamenti anche dentro di noi.

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Trascorsa la fase delle foglie cadenti, la Natura resterà spoglia per qualche mese, prima di indossare di nuovo i suoi abiti lussureggianti. Sarà allora il momento del riposo, quello obbligato, per rimettersi in forze e prepararsi alla nuova, bella stagione che verrà. Ma di questo parleremo in Inverno, topi, per ora (per fortuna) è ancora troppo presto.

Io intanto vi mando un bacio colorato, con la speranza di avervi donato uno sguardo differente su questa stagione che divide sempre gli animi.

Con affetto,

vostra Prunocciola.

Pruni Kandmon e il mistero dei volti di pietra

Topi, guardate che col post di oggi non c’è da scherzare. Roba da far rizzare i baffi a qualsiasi topo, cittadino, campagnolo o muntagnin che sia.

Nella mia Valle ne è successa un’altra e non posso assolutamente ignorarla, d’altra parte è da un po’ che si verificano tali strani fenomeni, per cui è proprio giunto il momento di parlarne. Ecco, dunque, che torno a vestire i panni della vostra svela-misteri preferita.

Oh, siate pazienti, Santa Ratta! Un po’ di attesa la devo pur creare, no?

Bene. Ora, visto che ci siamo scaldati a dovere, posso rivelarvi che da qualche tempo, zampettando in lungo e in largo per la valle, mi è capitato spesso di imbattermi in oggetti misteriosi di cui già alcuni topi di mia conoscenza mi avevano parlato…

volto di pietra

Capita, infatti, che camminando nel bosco e seguendo sentieri ben tracciati, si scorgano tra le radici sinuose o nei nodi di certi alberi dei piccoli volti di pietra intenti a osservarci.

Sono pietre per lo più triangolari, quasi identiche nella forma e nelle dimensioni. A differire è il motivo che le decora, sempre molto essenziale, ma con colori diverse.

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Gli occhietti di queste creature paiono proprio osservarci mentre passiamo, qualche volta si trova addirittura una famigliola di queste pietre accoccolate nell’incavo della stessa radice.

Ne ho incontrate nei luoghi più diversi, da un versante della valle all’altro… ma non finisce qui, perché il mistero è ben più fitto di così, altrimenti che Pruni Kadmon sarei?

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Si dà il caso che tali pietre non restino sempre nello stesso punto. Facendo lo stesso sentiero a distanza di tempo, si noterà facilmente che il visetto di pietra che una volta se ne stava ai piedi di un determinato albero non ci sarà più. Quindi se ne deduce che vengano rimosse, oppure spostate. Ma chi si prenderà la briga di fare tutto questo lavoro, topi? Chiunque sia, ha una costanza da fare invidia a certi autovelox mobili della vicina Val Roya!

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E vi dirò di più: c’è chi dice che, percorrendo lo stesso sentiero nella medesima giornata, il volto di pietra che c’era all’andata non si trova più da nessuna parte al ritorno. Roba da far vibrare la coda e i baffi, per tutte le ghiandaie e le gazze ladre! Per conto mio, posso invece testimoniarvi in tutta sincerità un fatto curioso che è accaduto a me: la faccia rocciosa che avevo visto all’andata l’ho ritrovata anche al mio ritorno, ma… insieme a lei, sotto altri alberi, c’erano dei suoi parenti pietrosi che non c’erano al mattino! E vi assicuro che quel giorno ero stata bene attenta a tutte le radici del sentiero in questione.

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Non si sa cosa rappresentino. Verosimilmente, credo siano raffigurazioni di spiritelli naturali, ma potrebbero anche essere delle gentili offerte agli spiriti della foresta da parte di chi crede in essi. I luoghi in cui vengono posti i volti non sono scelti a caso, o almeno non sembrerebbe. Gli alberi vengono selezionati con cura, li si può trovare in particolare tra le radici di altissimi Faggi e imponenti Castagni.

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Se ne stanno lì, incastonate come in un anello, a seguire i passi dei viandanti. A chi zampetta strappano sicuramente un sorriso di stupore dal sapore di fiaba, allietando le escursioni di grandi e piccini che immagino meraviglie di ogni sorta, dietro queste curiose faccette.

Il mistero non è risolto, topi, resta aperto. Chissà che qualcuno di voi non possa aiutarmi a capirci qualcosa di più.

Vi saluto con la promessa di continuare a indagare. Al prossimo aggiornamento!

Una lingua antica, quella del bosco

Camminare nel bosco è una gran meraviglia. Ci sono giorni in cui si zampetta di buona lena per raggiungere mete distanti, e allora si ha poco tempo per fermarsi a godere di ciò che offre questo ambiente.

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E poi ci sono giorni in cui, invece, si esce per il puro gusto di immergersi tra gli alberi, perdersi nell’intrico dei rami e delle radici, e allora si ha modo di leggere le storie scritte sulla corteccia, sulle pagine delle foglie, nel terreno e negli anelli dei ceppi ormai tagliati.

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Il bosco parla, topi, anche se il linguaggio che usa è tutto da decifrare per chi non  è abituato a codificarlo.

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Per esempio, quando si varca la soglia di una foresta, piccola o grande che sia, bisognerebbe sempre fermarsi qualche secondo per farsi riconoscere. Perché? Be’, vorrei vedere se qualcuno entrasse nella vostra tana senza bussare e bel bello se ne andasse a gironzolare per le stanze senza dirvi niente, oh! Ecco spiegato il motivo: si entra in un ambiente diverso, che non è nostro, ma di creature ben più antiche di noi e immobili, per giunta, con scarsissima capacità di movimento. Un brivido percorre il bosco, quando una presenza estranea si appresta ad entrarvi.

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E adesso vi sento, eccome se vi sento! “Topina, ma che dovremmo fare, parlare con gli alberi?”

Sì! Cioè, no: non nel modo in cui si è soliti intendere la parola “parlare”. Quella cattedrale verde se ne sta lì, ferma, e vi osserva, anche se voi non ve ne accorgete.

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Per farsi accogliere, basterebbe semplicemente liberare la mente dai brutti pensieri e lasciare che gli alberi percepiscano la pace e la benevolenza che viene da voi. Solo a quel punto dovreste mettere zampa sulle loro radici.

E anche qui lo so cosa starete mugugnando: “Macché! Non sulle loro radici! Si cammina sul sentiero, no? Sulla terra!”

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Eh no, è qui che cascate, topi miei! Quello che vediamo non è altro che una piccola porzione di ciò che accade in verità sottoterra. Pensate che spesso le radici superano in profondità e in ampiezza persino le chiome dell’albero stesso… ecco perché dico che si zampetta inevitabilmente sulle loro radici. Ma non finisce qui, nossignore! Perché queste propaggini sotterranee degli alberi, oltre a trarre dal terreno il nutrimento necessario per l’intera pianta, hanno anche un’altra funzione, recentemente confermata dai topo-scienziati più illustri.

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Le radici sono delle vere e proprie trasmettitrici di informazioni, formano una rete nascosta e invisibile ai nostri occhi, tramite la quale gli alberi e le piante in generale trasportano notizie da un esemplare all’altro nel modo più veloce possibile.

Forse vi chiederete a cosa servirà questo sistema e qualche risposta ve la do volentieri.

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Se un albero è malato per via dell’infestazione di insetti o parassiti, lancia il suo allarme tramite le radici, emette delle frequenze e produce determinate sostanze che, trasmesse agli alberi vicini, gli consentono di ricevere aiuto.

In che modo? Be’, le altre piante inviano sempre tramite le radici sostanze in grado di far sopravvivere l’albero (come per esempio zuccheri) il quale può richiamare a sé con rinnovata energia i predatori giusti che possano liberarlo dall’infestazione, per lo più uccelli o altri insetti, ma a volte attira a sé altre piante utili alla sua lotta. Tutto questo permette anche agli alberi vicini di mettersi sul “chi va là”, innescando i loro personali meccanismi di difesa per non essere colti impreparati da un’infestazione.

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L’unione fa la forza, il bosco lo sa bene, ed è nell’interesse di tutti che ogni albero resti sano il più possibile e che non scompaia. Un albero in meno significherebbe più luce per i suoi vicini, ma questo non è sempre un elemento vantaggioso, non per le specie che invece necessitano di zone ombrose e che fino a un momento prima erano cresciute e vissute in un habitat per loro ideale. Anche la terra ne risente, mettendo in pericolo gli altri esemplari soprattutto in caso di frane.

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E’ ovvio che in Natura è tutto perfetto, c’è perfezione anche in un albero che crolla e lascia il suo posto scoperto, laddove prima esisteva ombra e semi-oscurità… però in generale la foresta si auspica che ciò non succeda troppo spesso.

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Ma ci sono anche altre cose di cui bisogna tenere conto, quando si zampetta in queste grandi case verdi.

Credo possa esservi capitato di imbattervi in punti in cui la vegetazione si fa più fitta, quasi impenetrabile, o comunque visibilmente ostile. I rami si fanno bassi, sembra quasi di trovarsi di fronte a un esercito in difesa, con le lance puntate in avanti verso gli intrusi.

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Ed è proprio quello che comunica questa porzione di bosco, topi! In quei luoghi è meglio non avventurarsi, non perché potrebbe succedere qualcosa di brutto, sia chiaro, quanto piuttosto perché lì il bosco non vuole presenze aliene al suo ambiente. Si preserva, si difende per l’appunto, dicendoci come può: “Tu non puoi passare!”.

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Sì, lo so che questa frase da topo-Gandalf vi fa sorridere, ma rende bene l’idea. Rispettare il volere del bosco non è cosa da poco, c’è chi apprezza, e posso assicurarvi che un dono si presenta volentieri a coloro che non deturpano l’equilibrio perfetto di quei luoghi sacri e pacifici.

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Non parlo di pentole d’oro nascoste tra le radici, topi, ma di piccoli segnali che i più sensibili sapranno cogliere senza fatica alcuna: una piuma lasciata sul sentiero, una pietra o una foglia dalla forma particolare, un incontro inaspettato… insomma, sono questi i segnali con i quali veniamo ringraziati. E non c’è cosa più bella del sapere che lì, in un luogo in cui saremmo estranei, siamo invece stati accettati e riconosciuti come amici!

Avrei mille altre cose da raccontarvi, ma penso che per oggi possa essere abbastanza.

Un saluto verde foglia a tutti!

La Stella Alpina, principessa dei monti

Oggi ho proprio voglia di vantarmi, topi. Oh, sì! Ho voglia di vantarmi perché nella mia stupenda Valle Argentina vive una pianta molto, molto speciale, un fiore assente in tutto il resto della Liguria, ma qui da me cresce eccome! E si trova solo qui per giunta, non ho forse motivo di vantarmi, quindi?

Sto parlando di lei, di chi altri se no? La Stella Alpina, topi!

Conosciuta anche come Edelweiss, che significa “bianco nobile”,  il suo nome scientifico è Leontopodium alpinum e fa parte della famiglia delle Asteraceae. Il nome latino significa letteralmente “piede di leone”, perché i suoi capolini somigliano molto alla zampa del felino re della savana. Fino alla seconda metà del XIX secolo era chiamata “fiore di lana” per il suo aspetto candido e morbido, ma altri sono i nomignoli che le sono stati attribuiti, uno più bello dell’altro: stella del ghiacciaio, stella d’argento, fiore immortale delle Alpi e regina dei fiori di montagna sono i più belli.

E’ un fiore prezioso che raggiunge al massimo i 30 cm di altezza, anche se in Valle Argentina si presenta più piccola rispetto a quelle del vicino Piemonte.

Le sue gemme vengono protette dalla neve nei mesi invernali, e lei se ne sta lì, sotto la morbida e fredda coperta, ad attendere che giunga il momento di far brillare i suoi fiori e le sue foglie, coperte da una sottile peluria, che le rende quasi traslucide come la superficie della luna. La lanugine che la ricopre si ispessisce a seconda dell’intensità del sole, quasi a volersi proteggere dai raggi dell’astro che fa da padre al nostro pianeta. In verità questa indispensabile peluria le serve per opporsi alle perdite d’acqua: infatti è essenziale per la sua sopravvivenza mantenere l’umidità al suo interno, cosa che sarebbe assai difficile altrimenti, visto che cresce in luoghi aridi ed esposti alla furia del vento.

E’ originaria dell’Asia, nella fattispecie dei monti aridi delle sue regioni, infatti anche qui da noi cresce bene a certe altitudini, dove neppure gli alberi arrivano più a dare ombra al suolo.

E’ così bella e preziosa che l’Austria l’ha effigiata sulle sue monete da due centesimi di euro e qui da noi è una specie protetta, vietato raccoglierla.

A essa sono legate diverse leggende, una delle quali mi è stata raccontata da Nonna Desia:

«Ratin, avvicinati. Voglio raccontarti la storia della stella alpina che mi è stata raccontata in tempo di guerra da qualche soldato venuto da lontano» ha detto, e io sono stata ad ascoltarla più che volentieri.

«Un tempo c’era una montagna che soffriva di solitudine. Se n’era fatta una malattia e piangeva tutti i giorni in silenzio. Abeti, Faggi e Rododendri la guardavano afflitti e desolati, perché nessuno di loro sapeva come fare per risollevare il morale alla montagna triste. Chiesero alle Pervinche e alle Querce, ma anche loro si addoloravano per lei, impotenti. Tutte queste piante, infatti, avevano radici piantate al suolo e non era possibile per loro muoversi e accorrere in suo aiuto. Se la montagna avesse continuato così, nessun fiore sarebbe potuto sbocciare sui suoi bei pendii, nessun colore avrebbe allietato le giornate primaverili ed estive e le mucche e gli animali che vi pascolavano avrebbero avuto ben poco di cui nutrirsi.

Accadde però che nel cielo le stelle si accorsero del dolore della montagna. Una sera, le nuvole si dissiparono e una stella s’impietosì e decise di scendere sulla Terra per dare un’occhiata. Scese, scese e si avventurò per i sentieri della montagna triste, ne attraversò i crepacci, ne accarezzò le rocce nude con la sua luce e giunse sull’orlo di un burrone. Lì tirava un vento gelido che fece tremolare la stella, che s’impaurì: forse sarebbe morta di freddo, lontana dalla sua accogliente casa celeste, e si pentì di averla abbandonata per un luogo così inospitale. Proprio quando pensava di essere spacciata, la montagna le venne in aiuto. Era grata alla sua luce per esserle amica, e così la avvolse con le sue mani rocciose, creando intorno a lei una candida peluria lanosa. Infine, la strinse a sé per impedirle di cadere nel baratro, dandole radici tenaci con le quali aggrapparsi al terreno. Quando il sole fece capolino dalle creste dei monti vicini, il nuovo giorno salutò la prima Stella Alpina.»

«Che storia meravigliosa, Nonna Desia!»

«Hai visto, ratin? A volte ricordo ancora qualcosa di interessante!»

Un’altra storia racconta invece che un uomo, per dare prova alla sua amata della nobiltà dei suoi sentimenti, si avventurò nei luoghi più impervi delle montagne rischiando la sua stessa vita per cogliere una Stella Alpina da donare all’innamorata. Ecco allora che il fiore divenne simbolo anche dell’eroismo.

A essa si attribuivano poteri magici, tra cui quello di scacciare gli spiriti che attaccavano il bestiame provocando infezioni alle mammelle, se bruciata come un incenso.

Oggi la Stella Alpina è addirittura coltivata per abbellire giardini rocciosi, ne esiste persino una qualità che profuma di limone, ma a mio parere la sua resa migliore la offre lassù dove pochi osano arrivare, col volto baciato dal cielo e le radici aggrappate a una terra spesso inospitale.

In natura conta una trentina di specie e non è costituita da un unico fiore, ma da un’infiorescenza formata da diversi fiori di numero variabile raggruppati in più teste, dette capolini. Questi ultimi sono raccolti a loro volta in gruppi di foglie bianche, che poi sono quelle che erroneamente vengono considerate i petali del fiore; si chiamano brattee e sono disposte intorno ai capolini fioriti a formare proprio una stella.

Pare che questo fiore sia giunto fino alle nostre zone dall’Asia durante una delle ere glaciali che fecero rabbrividire il mondo in passato. Fiorisce da luglio a settembre, poi la sua luce si spegne e di lei restano le radici, pronte ad affrontare gli inverni rigidi della montagna. E, a proposito di questo, sembra delicata, ma in realtà il suo aspetto inganna, topi! Bisogna pensare, infatti, che questa piantina deve essere in grado di sopravvivere e resistere a condizioni assai avverse, come neve, ghiaccio, vento. E allora Madre Natura le ha fatto dei doni meravigliosi: alle sue radici ha regalato la capacità di resistere alle raffiche d’aria più forti, alle foglie ha offerto la virtù di regolare l’umidità interna della pianta in base alle condizioni esterne, e alle brattee ha concesso una struttura tale da proteggere la pianta dai raggi ultravioletti. Mica roba da ridere eh! La Natura, quando fa le cose, le fa in grande stile!

E allora mi viene da pensare che Madre Natura abbia donato proprio alla mia Valle l’onore di essere incoronata dalla Stella Alpina come a omaggiare le genti dei miei luoghi che, come lei, tanto hanno sofferto e patito le avversità del clima montano e che tenaci hanno resistito alle intemperie della vita e di un terreno difficile da coltivare.

Con questo io vi saluto topi! Vado a scovare un altro articolo per voi da far brillare in questo blog. Un bacio stellare a tutti.

Un gigante in città: il Ficus macrophylla

Topi, oggi vi faccio sentire piccoli. Anzi, no: minuscoli! Venite con me, vi porto a vedere dei giganti, dei colossi che si trovano sulla costa.

foglia ficus macrophylla

Lasciamo la mia Valle per inoltrarci in un ambiente cittadino, a Sanremo, per la precisione. Qui c’è un giardino importante, rinomato e conosciuto soprattutto nel secolo scorso, che oggi ospita specie di piante diversissime tra loro e provenienti da ogni parte del mondo: dal Giappone all’Australia, dalle zone temperate a quelle tropicali.

Sto parlando dei giardini di Villa Ormond che, tra le altre specie, ospitano i Ficus macrophylla, conosciuti anche come Ficus magnolioides, appartenenti alla famiglia delle Moraceae e originario della Baia di Moreton nell’Australia subtropicale.

Ficus Macrophylla

Nella Liguria di ponente ce ne sono diversi esemplari monumentali e centenari, piantati sul finire dell’Ottocento da studiosi, botanici e nobili provenienti dalle lontane Inghilterra e Russia che in questa lingua di terra bagnata dal mare avevano trovato il loro paradiso, apprezzandone in particolar modo la mitezza del clima e l’adattabilità del terreno.

ficus macrophylla sanremo

Questi benefattori e filantropi, perché di questo si è trattato in molto casi, hanno dato il loro tocco sofisticato e raffinato a certe zone della Liguria, come è accaduto a Ventimiglia nei Giardini Hanbury, a Bordighera nei giardini del Museo Bicknell e a Sanremo in quelli di Villa Ormond, ma potrei citarvene altri.

Ebbene, è proprio in questi ultimi che vi voglio portare.

ficus macrophylla sanremo2

Questi Ficus, come dicevo poco fa, hanno dimensioni degne dei dinosauri, un essere umano a loro confronto sembra uno gnomo, figurarsi una topina come me!

Belli da togliere il fiato, con le loro radici possenti, le chiome protese al cielo a formare un ombrello gigantesco sulle teste di chi vi si ritrova sotto.

villa ormond sanremo ficus macrophylla

E quelle chiome dai toni verde scuro sono un vero micro(mica tanto!)cosmo. Ospitano intere famiglie di uccelli, città di formiche, ragni e insetti d’ogni tipo, forse addirittura colonie di piccoli rettili, roditori e piccoli mammiferi. In questa stagione, i rami di questo “condominio vegetale” diventano il luogo di ritrovo di colombi e tortore, che tubano e si scambiano effusioni per dare vita a un nuovo ciclo e mettere al mondo i loro piccolini.

ficus macrophylla sanremo4

Alzando il muso all’insù, pare quasi di dover vedere una scimmia, un’iguana o un pappagallo da un momento all’altro, talmente esotico è l’aspetto di questa pianta meravigliosa.

Le radici sono lunghe, profonde, disegnano sul terreno il moto strisciante di serpenti, quando sono ancora piccole.

radici

Le più grandi, invece, appaiono come gigantesche anaconde che raggiungono quasi il metro di altezza da terra. Mi ricordano, per certi aspetti, la figura mitologica del basilisco.

ficus macrophylla radici3

La corteccia pare pelle d’elefante. E poi quel tronco, rugoso e di un marrone tendente al grigio, è quasi liscio al tatto e forma cunei, anse, colonne… un tempio di legno che non saprei con quali altre parole definire.

Dai rami pendono grovigli intricati di liane, tutte abbracciate le une alle altre, e sono proprio quelle a rappresentare una caratteristica assai curiosa del Ficus.

ficus macrophylla rami e radici

La pianta, infatti, per poter sostenere le proprie dimensioni non indifferenti, ha bisogno di reggere il peso dei propri rami con delle vere e proprie colonne lignee. Ed ecco che allora lascia spuntare queste liane e le fa tuffare giù, fino a che tocchino il suolo. Col tempo, queste appendici si ispessiranno a tal punto da costituire a loro volta dei tronchi di supporto, come colonne e contrafforti di una vera cattedrale.

Ficus macrophylla radici

Per le sue dimensioni e la sua incredibile forza, il Ficus può creare danni considerevoli all’edilizia e alle tubature dell’ambiente urbano. Ha bisogno di molta acqua, poiché ha memoria dei suoi luoghi d’origine, le foreste pluviali, e talvolta finisce per spaccare le tubature. Tuttavia la sua bellezza senza eguali orna giardini, incanta gli adulti e offre divertimento ai bambini, che possono arrampicarsi e nascondersi quasi in completa sicurezza.

ficus

Insomma, topi, se capitate dalle parti della costa, non  fateveli scappare e correte a visitare questi giganti antichi dall’energia prorompente, sono lì da tanto tempo e sicuramente sapranno raccontare qualcosa alla vostra anima, storie di linfa e corteccia, di terra e di cielo.

Un gigantesco bacio a tutti!

Quando cade un albero

Sento già i vostri lamenti di tristezza, state bravi per favore, che questo non è un post drammatico, tutt’altro. Ho da dirvi delle cose molto importanti e non hanno niente a che vedere con frasi strappalacrime o commenti di disperazione. Siate allegri, suvvia!

albero caduto4

Quando un albero cade per cause naturali, siano esse una valanga, il vento, un fulmine, la forza dell’acqua che scava i pendii, non c’è da rattristarsi, topi! Credete forse che quel tronco possente e quei rami siano ormai morti? Be’, non è così, e vi spiegherò presto il perché.

albero caduto

Lo so che voi esseri umani faticate a vedere oltre ciò che appare, ed è giusto così, ma ci sono qui io coi miei occhi da bestiolina a farvi osservare il mondo con uno sguardo diverso.

Quando un albero cade, viene accolto dall’abbraccio amorevole di Madre Natura, la stessa che l’ha generato, che per tanti, tantissimi anni gli ha permesso di affondare le radici nel suo ventre.

albero caduto fiume

Quando un albero cade, non muore, ma si trasforma in qualcosa di nuovo, di diverso da quello che era fino al momento che ne ha preceduto la caduta. E, fermandosi a guardarlo da vicino, osservandolo anche a mesi di distanza, è possibile vedere tutta la Vita che brulica in lui.

albero caduto3

Ci sono alberi che, se cadono al suolo, rigettano rami dal tronco spezzato e abbandonato sulla terra, mettono nuove radici e rinascono.

Ci sono alberi che offrono cibo e materie prime agli animaletti del bosco, grandi e piccoli: formiche, ragni, caprioli… qualcuno ne mangia la corteccia, altri vi scavano dei tunnel, altri ancora ne fanno una dimora sicura e confortevole.

 

E’ una trasformazione, vedete? Solo un passaggio di stato, così come fa l’acqua da quello liquido a quello solido quando in inverno ghiaccia sui prati, tra le rocce, sui rami… e nella maggior parte dei casi nessuno si dispera per questo.

Ma non finisce qui.

Come immaginerete, un bosco è costituito da alberi giovani e anziani che vivono gli uni vicini agli altri. Quando un albero anziano viene abbattuto dall’età o da una tempesta, gli alberi più giovani assumono il ruolo del “genitore” caduto, crescendo più vigorosi e facendo uscire tutto il potenziale che avevano trattenuto per tanto tempo.

pino

I ceppi di molti alberi, come quelli di Frassino o di Nocciolo, danno inizio a un nuovo ciclo vitale: il ceppo si rinnova completamente e questo li rende in pratica immortali!

Un umano saggio una volta disse “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” e, se vi fermaste a osservare con attenzione la Natura in ogni sua manifestazione, potreste vedere la verità di queste parole.

Adesso vi saluto, topi. Vado a zampettare nel bosco, ho da raccontarvi altre cose interessanti!

Un abbraccio trasformato.

Via Camurata e il quartiere Sambughea

Topi, la festa di Halloween è già passata, ma oggi ho da raccontarvi una storia che mette davvero i brividi. Munitevi di coraggio, perché ve ne servirà per attraversare i luoghi che voglio mostrarvi in questo articolo.

Siamo a Triora, il paese più misterioso della mia bella Valle.

Vi ho parlato spesso delle sue meraviglie nascoste e delle dolorose vicende che si susseguirono qui, ma c’è una cosa che ancora non vi ho raccontato.

Seguitemi, entrate con me dentro il paese. Percorrendo tutta la via principale, si giunge alla piazza Beato Reggio, quella con lo stemma di Triora raffigurato al centro del pavimento lastricato. Alla nostra sinistra c’è la chiesa della Collegiata, sorta – così si dice – su un antico tempio pagano.

Alla nostra destra, invece, ci sono i tavoli colorati del Ricici Caffè e del Cocò Café. Le persone qui si siedono a sorseggiare qualcosa in compagnia, scambiandosi due chiacchiere.

Dirigendoci verso i portici, imbocchiamo la via che ha inizio sulla destra. Il suo nome è già tutto un programma, topi miei. Si chiama Via Camurata e c’è una leggenda che spiegherebbe il motivo particolare e spaventoso dietro questo appellativo.

Via Camurata - Sambughea - Triora

Una targa arrugginita ci comunica dell’accesso a un quartiere molto suggestivo, quello della Sambughea, “dove il borgo mostra i suoi più genuini aspetti”, così cita l’insegna.

Credo non ci sia niente di più vero, topi, perché ci troviamo nel cuore nascosto di Triora, quello che non si spiega facilmente agli occhi dei turisti. Era – ed è ancora – il limite più basso della città, il suo confine, ed è rimasto uno scrigno dai mille misteri.

La via Camurata è buia, coperta da volte più o meno alte, raramente intervallata dalla vista del cielo. I lampioni la illuminano notte e giorno, si respira un’aria molto suggestiva. Si procede in discesa, mentre non si può fare a meno di notare che il borgo, che mostrava il suo volto più allegro e giocondo in Piazza Beato Reggio, qui fa trapelare una faccia assai diversa, cupa e ombrosa.

Il silenzio pervade ogni cosa, non c’è traccia degli schiamazzi dei bambini, delle voci lontane della televisione, né del chiacchiericcio delle persone che fanno comunella davanti ai negozietti di souvenir.

Si ode il fruscio del vento, lieve, ma costante, come se ci trovassimo nel bosco. Gli uccelli cinguettano in lontananza, la loro eco, però, qui sembra meno gioiosa. Ovunque c’è odore di pietre umide, a tratti si percepisce quello tipico delle cantine.

La maggior parte delle case di questa via sono abbandonate, in rovina, sembrano grotte, talmente sono buie. Il tempo pare essersi fermato a decenni, forse secoli fa, come avvolto da un terribile incantesimo.

Via Camurata - Triora3

Persiane rotte e scardinate, infissi usurati dal tempo, porte ricoperte di ragnatele, piume di uccello sui muri e vetri rotti alle finestre la fanno da protagonisti in questo scenario surreale.

Sembra di sentire cigolare i cardini al vento, ma è solo suggestione. Ci si accorge che qualcosa non va, si percepisce.

Stando alla leggenda di cui vi parlavo prima, questa via racchiuderebbe segreti terribili.

Pare, infatti, che un anno in cui la peste si fece particolarmente feroce, la gente ammorbata che viveva in questa via e resisteva tenacemente alla malattia senza voler spirare per ricongiungersi al Creatore, venisse murata ancora viva all’interno delle abitazioni.

Non mi credete? Lo so che è difficile e che penserete che io abbia alzato un po’ troppo il gomito, ma sembrerebbe vero, a giudicare da quello che ho potuto vedere nel mio tour. Guardate!

La via, tutta, è costellata di porte evidentemente murate. Ce ne sono a bizzeffe, alcune nascoste, altre più irriverenti nel mostrare il loro passato, ma sono numerose, è impossibile non notarle.

Come se ciò non bastasse, ad accrescere la tetraggine dell’atmosfera che qui si respira sono alcuni soffitti delle volte che fanno da tetto alla via.

Triora - Via Camurata

Forse dalle foto si nota poco, ma sono neri come la pece, perché questo quartiere fu interessato anche da un devastante incendio, forse lo stesso appiccato dai nazisti nel luglio del 1944 e che interessò in particolar modo Molini di Triora.

Insomma, non ci si stupisce che questa stradina sia rimasta disabitata per tantissimo tempo!

Sotto la Via Camurata scorre un altro carruggio, altrettanto suggestivo: la Via Sambughea, dalla quale il quartiere trae il suo nome. Anche qui una leggenda ne spiega l’appellativo. In seguito all’abbandono della zona, pare che tutto il quartiere sia stato invaso dai sambuchi, piante che, tra l’altro, sono considerate tra le più care alle streghe.

Anche qui il tempo sembra essersi fermato, ma qualche coraggioso abita ancora tra queste pietre affastellate le une sulle altre.

Gli scorci che si vengono a creare sono stupendi, a metà tra l’abbandono e il recupero. Casette rustiche curate da mani sapienti si alternano a ruderi pericolanti, che paiono tenuti insieme solo dalle tenaci radici dell’edera.

In Via Camurata sorgono ben due Bed&Breakfast: La Stregatta e Casa Grande. Nelle vie adiacenti, invece, ce ne sono altri due, La Tana delle Volpi e Ai Tre Cantici. Sapete dove andare, se volete sostare qualche giorno a Triora per attraversare gli scorci più suggestivi che il borgo nasconde.

Qualcuno di voi topi sa dirmi di più riguardo queste due vie e le porte murate? Son solo leggende per spaventare i topini, o in esse c’è un fondo di verità? Fatemi sapere!

Io vi saluto, adesso. Ho i brividi ai baffi, con tutto questo parlare di misteri.

Un bacio terrificante dalla vostra Prunocciola.