Per piangere e per ridere

Questo post lo dedico al mio papà. Penso che gran parte di voi abbia capito che il mio topopapà suona la chitarra. La suona in modo semplice, come dice lui “strimpellando”, non di più, senza vantarsi troppo, eppure, potete credermi, il suo carisma, il suo ritmo, il suo orecchio, fan sì che se manca lui, la compagnia non si diverte allo stesso modo.

A lui piace tantissimo suonare le canzoni dei nostri grandi cantautori e dei nostri grandi cantanti: De Andrè, Battisti, Zucchero, Nomadi, De Gregori, Guccini, Dalla… per non parlare di quelli stranieri come Cocker, Clapton, Dylan… Come si dice in gergo, fa le cover.

Musica e buoi dei paesi tuoi però! A papà non riesci a fargli smettere una serata senza qualche canzone genovese che rallegra o riempie i cuori di sentimento. Pucci dei Trilli, Piero Parodi ed altri, hanno segnato l’esistenza di papà che li ha anche conosciuti e, come se non bastasse, anche la mia.

Da che son cucciolotta il mio topogenitore, mi fa sedere sulle sue ginocchia, assieme all’amato strumento, e con una impercettibile espressione dell’occhio sinistro (che solo io conosco!!!) mi “ordina” di partire.

Solitamente, il divertimento è assicurato ma, quando capita di cantare, con tutto il cuore e una voce mesta, canzoni come quella che vorrei farvi sentire oggi, ci si può anche commuovere.

E allora topini, direttamente da Genova, da mille anni protagoniste anche di serate qui nel Ponente, dove spesso i veri autori son venuti a cantare, una delle canzoni più tristi della mia regione. E ovviamente, con tanto di traduzione! Questa canzone s’intitola “PICCUN DAGGHE CIANIN”, (Piccone, picchia più piano) riferendosi ai picconi e alle ruspe che, in Genova, nel quartiere di Portoria e al Piano di Piccapietra, per lasciar posto alla nuova città in crescita, hanno buttato giù dimore e ricordi.

I colpi del piccone dati sui mattoni erano colpi sentiti dentro al cuore. In questa zona è anche vissuta una mia topo-zia. Zia Angiulina. Una vecchina piccola, piccola. Dopo le splendide parole di una donna, che non sono difficilissime da capire, inizierà questa splendida canzone e ne approfitto per complimentarmi con chi ha creato questo meraviglioso video, grease52.

Fra i mattoni di Piccapietra che fan trasloco, ce ne sono della casa dove sono nato,

ci sono passato per caso stamattina ma forse il cuore guidava il mio cammino.

Chi è di Genova lo sa perché un nodo in gola, mi ha impedito di recitare questa “preghiera”.

 

Piccone batti più piano, io sono nato qui sotto questo camino

sono muri che mi hanno visto piccolino

andare in giro tirandomi dietro il seggiolino

 

Piccone batti più piano, su questo pezzo di pietra rotta a pezzettini

ho fatto i compiti di latino

ed ho mangiato trenette e minestroni

 

Ma stai già abbattendo il balcone, guarda: c’è la Madonna della Passione!

L’ha costruita il mio “capo” trent’anni fa, per una grazia ricevuta in mezzo al mare.

 

Piccone batti più piano, sono tutti colpi dati sul mio cuore

se proprio non puoi farne a meno

almeno batti più piano

 

Credetemi, poche volte, gente, ho pianto,

non mi emoziono tanto facilmente

ma quando ho visto cadere a picconate

la stanza dove era nata mia madre,

mi si è fermato qualcosa proprio qui

ho pianto ed ho pregato così

Piccone, batti più dolcemente, son tutti colpi dati sul mio cuore,

se proprio non ne può fare a meno,

piccone, batti più piano,  pianino

 

Fermati un po’, piccone, ti rubo un mattone,

un pezzo di poesia del piano di Picca…pietra

Ma cantare Genova non significa solo piangere topini! Tranquilli! Anzi… Ora, rimettetevi a posto, mettevi via u mandiu (il fazzoletto) e state pronti a farvi due sane risate con “A SEISSENTU” (La 600) la vecchia macchina ormai d’epoca.

Tanta fatica per comprarsi l’auto nuova e poi… guarda te, come va a finire! Bello anche questo video di fufuralzu.

Carina vero? Non avete capito niente? Vi traduco in un attimo tutto io. Praticamente è una simpatica lamentela di Parodi il quale ha preso spunto da “La Balilla”, di Giorgio Gaber.

Avevo comprato una bella 600, andava veloce più forte del vento

vi racconto la storia di come è andata che in cinque minuti me l’han subito fatta.

Prima vi dico il mestiere che faccio comincio alle dieci a mezzogiorno sono uno straccio

vendo soda, lisciva e sapone e di soldi ne faccio un vagone.

Su e giù per il porto con la motocicletta con detersivi, scopa e paglietta

guadagnu un mucchio di monete da cento e mi vien voglia di comprare la 600.

Lascio la macchina davanti a una porta mi grattan subito la ruota di scorta

la sposto più in là in una via larga, appena giro l’occhio mi fregan la targa.

Arrivano i Tedeschi: -Verbotte versciure -, mi fan fuori circa mezzo motore

chiamo gli Inglesi per scacciarli via, si mangiano tutta la carrozzeria.

Passa un ragazzo con due belle figliole, mi svita tutte le lampadine

anche mio fratello, per curarsi l’angina, fa finta di niente e si mangia la bobina.

Per visitarlo arriva una dottoressa e il radiatore all’istante si frega

per rispetto alla scienza stò buono, lei ne approfitta e fa fuori il tappeto.

Ma chissà cosa si credevan fosse, era una 600 mica un pandolce!

Vado a denunciare tutto all’istante, altra manata, mi nascondono il volante!

Il mio portinaio che è 100kg, si ci siede dentro e mi sfonda i sedili

e sua moglie che è tutta finezza, si appoggia davanti; addio parabrezza.

Poi arriva una ragazza. Che signorina! Con quattro succhiate mi asciuga la benzina.

Passa una donnaccia con una brutta amica, una mezza sdentata, mi rosicchia la marmitta.

Vado per caso a trovare mio cugino, gli trovo in casa cruscotto e pistone.

C’è rimasto qualche pezzo lì dal marciapiede: L’ho metto in un sacco e lo porto allo straccino!

Ebbene si. Anche questa fa parte del repertorio del mio papà. E allora, dopo questa giornata canterina io vi lascio a ricordare le parole. Memorizzatele bene, così poi cantiamo tutti insieme.

Baci, la vostra Pigmy!

M.

Pigmy Jones e il muretto impraticabile

Eccomi qua, pronta a raccontarvi la mia ennesima topoavventura. Questa volta, il primo che ride lo banno e non lo faccio più entrare nel blog, sappiatelo.

Allora, l’altro ieri, un bel pomeriggio di fine aprile, Pigmy e tutta la sua allegra famiglia di topolini decidono di andare a fare una bella scorpacciata in montagna. Una volta riempite le pance, avrebbero camminato lungo un bellissimo sentiero nel bosco fino a un santuario in mezzo a un prato, dove i cuccioli avrebbero sicuramente dato sfogo alla loro felicità.

Portiamo con noi il nocciolo-pallone. Chiunque avrebbe volentieri dato due calci a quella cosa pseudo-sferica che ruzzolava un po’ ovunque. Arriviamo davanti alla chiesa. Le piante, i fiori e il panorama sono bellissimi e, davanti al santuario c’è una bellissima Madonna azzurra che…. avrebbe dovuto benedirmi, ma probabilmente quando mi ha visto si è girata dall’altra parte.

Avrei visitato volentieri l’interno della chiesa, ma era chiusa, per cui, dopo averci girato intorno, ci siamo accomodati sulle panchine di legno mentre i piccoli giocavano instancabili. A un certo punto, il pallone scappa sopra a una sorta di alto terrazzamento. Un muro di pietre e delle rocce lo frenano e il pallone rimane incastrato tra le radici delle piante. Con un lungo bastone riusciamo a tirarlo giù per ben due volte. La terza volta, ahimè, il pallone, vola ancora più in alto, nella boscaglia e il bastone, a quel punto, non serve più. Bisogna arrampicarsi su quel muro, alto quasi tre metri, e arrivare così ai piedi del bosco.

Chi parte per arrampicarsi? Io, naturalmente. Tsk! Che problema volete che ci sia? Sono cresciuta arrampicandomi ovunque: alberi e muri, per me, non hanno mai avuto segreti.

Vado tranquilla. Primo piede, mano. Secondo piede, mano… l’agilità di una topina è indescrivibile, ve l’assicuro. Et voilà, arrivo in cima in un batter d’occhio, nessun problema, ormai ho da fare l’ultimo slancio di gamba per poter davvero dire di essere  nel bosco. Lo slancio l’ho fatto, sì, peccato che l’ultima pietra sulla quale poggia il mio piede fuoriesca da quel perfetto puzzle tridimensionale. Cade al suolo, lasciando entita il vuoto sotto di me. Mi faccio forza con le zampe anteriori, ma la pietra, creando un buco nel muro, fa sì che tutte le altre pietre la seguano.

Sono riuscita a devastare un’opera d’arte di anni e anni fa.

Cado come un sacco di patate, tre metri di volo. Rovino per terra, le pietre tutte addosso e ovunque intorno a me. Picchiano così forte da sembrare una lapidata, in quel momento. Topobabbo con la sua topocompagna e i topini rimangono letteralmente senza parole.

Mi rialzo in men che non si dica per non farli spaventare. Topino stava già per mettersi a piangere e allora mi son messa a ridere prendendomi in giro da sola. Topina, invece, assorta com’era a contemplare una mosca, della mia rovinosa caduta non je ne poteva frega’ de meno. Che donna! Anche topobabbo, per cercare di salvarmi si è preso qualche pietra addosso, ma per fortuna non è successo niente di grave.

Non mi sono fatta nulla e quindi, imperterrita, torno a riprendere il pallone che era ancora là. Questa volta devo passare dalla roccia rimasta, non ho altra scelta. Mi arrampico nuovamente ed eccomi in cima, come una conquistatrice testarda pronta  a prendere la palla colorata.

Mi accuccio per afferrarla con le mani e, all’improvviso, tutto il mio braccio, la mia coscia e il fianco iniziano a riempirsi di un sangue rosso vivo che gocciolava, anzi sgorgava, incessante… dalla mia testa! Niente panico… l’unico problema sono i topini, provo a evitargli la scena, ma è così copioso che tutti gli altri topi non pensano ad altro che a me.

Ridiamo loro il pallone e li mandiamo a giocare, ma non sono intenzionati a obbedire. Topino accorre alle borse per cercare dei fazzolettini di carta. Il mio amore… (topini svezzati e pronti a tutto). Tutti mi prendono e mi buttano la testa sotto una fontana di  acqua ghiacciata. Per fortuna!

Topobabbo è preoccupato, non riesce a capire da dove esca il sangue perchè è così tanto che sono completamente rossa ovunque: testa, orecchio, collo, capelli… tutto. Mi lava, mi tiene premuta la ferita… insomma, è eccezionale, considerando che anche lui ha un polso gonfio per via di una pietra che gli si è rovesciata addosso nella mia caduta. Decidiamo di tornare indietro e la gentilissima coppia di gestori del ristorante nel quale abbiamo mangiato mi offre del ghiaccio. Non voglio altro, capisco di stare bene e, dopo circa un’ora, la ferita inizia a rimarginarsi. Ora scende solo una gocciolina di sangue ogni tanto.

Dallo zampillo che faceva prima, sembrava quasi che qualcuno avesse sgozzato un vitello! Non immaginavo che da un taglietto in testa potesse uscire così tanto sangue. Probabilmente, oggi il santuario non ha voglia di essere rimirato, oppure non ci sono più i Romani che fanno i muretti come si deve.

A parte gli scherzi, quel muro dietro era vuoto, mai visto un muretto così. Anche le nostre terrazze sono pietre appoggiate soltanto, ma sono ancorate al terreno… Babbo dice che quelli si chiamano muri morti. Ho imparato una cosa nuova e pensate che, prima di andare via, abbiamo anche dovuto ricomporlo, altrimenti guai a lasciare davanti a un luogo sacro uno scempio simile: i miei amici della valle mi avrebbero inseguita per mari e per monti.

Comunque io sto bene, davvero. mi sento solo la schiena e la gamba un po’ indolenzite, ma la testa sta bene. Ce l’ho dura! Per ora, dunque, posso ancora continuare  a scrivere i miei post.

Va be’, dai, prima scherzavo: potete ridere, se volete. Ho riso anch’io pensando alla caduta, perchè credo di essere stata buffissima. Chissà se ho fatto il triplo carpiato? E topobabbo mi ha detto: «Pigmy, te l’ho già detto mille volte che sei un Jerboa e non uno scoiattolo volante!».

Un bacione a tutti!

Vostra Pigmy

M.