La Topina e le streghe della Valle Argentina in un progetto universitario

Oh topi, ma guardate che me ne succedono davvero delle belle! L’ultima proprio qualche giorno fa, in cui in una mail, una giovane studentessa ligure ha voluto intervistarmi (un’intervista a me… a me! Ma che bello!) per un progetto universitario che coinvolgerà anche la Sicilia e la Sardegna.

Tale progetto si occupa di indagare le figure femminili del nostro passato e, di conseguenza, anche le leggende e le superstizioni nate nel tempo. Io sono stata ben felice di dare il mio contributo e quindi vi lascio qui di seguito l’intervista per intero, così che possiate goderne anche voi. Ringrazio ancora Nicoletta e le sue colleghe di corso per avermi coinvolta!

  1. Conosci qualche leggenda che abbia come protagonista una strega?

Ci sono molte storie e leggende legate alle streghe nella zona in cui abito, molte delle quali sono realmente accadute. Alcune sfumano nella superstizione e nelle credenze popolari, ma l’entroterra della Liguria di Ponente pullula di questo genere di racconti. Da me, a seconda delle zone, le streghe sono chiamate “bàzue” “bagiue” o “bàzure”, e nel cuore delle Alpi Liguri, in Valle Argentina, vantiamo la presenza di quella che è definita “la Salem d’Italia”: Triora. Il borgo è famoso per essere stato protagonista di processi alle streghe da parte dell’Inquisizione, che qui fu particolarmente severa. Una storia molto sentita e ricordata è quella di Franchetta Borelli, che fu torturata e resistette a diverse ore di cavalletto, nonostante la sua età avanzata. Famosa è rimasta la sua frase: “Stringerò i denti e diranno che rido”, tramandata e documentata fino ai giorni nostri. Franchetta sopravvisse alle torture e al giogo dell’Inquisizione, fu rilasciata, ma il suo corpo restò segnato nel profondo, portandone le conseguenze per gli anni che le restarono da vivere. Il suo caso è emblematico perché apparteneva alla nobiltà, e questo suscitò non poco scalpore nel borgo e in tutta la Repubblica di Genova, alla quale Triora apparteneva. Altra storia legata alle streghe di Triora è quella delle sorelle Isotta e Battistina Stella, entrambe processate. Di Isotta sappiamo che non resse alle torture e morì. Un’altra donna torturata uscì di senno e si gettò dalla finestra di Palazzo Stella, nella Piazza della Collegiata (quella centrale al borgo, che reca lo stemma della città, il Cerbero). La leggenda  dice che il corpo della donna non fu mai ritrovato. C’è poi la storia di un’altra figura femminile triorese, tale Magdalena, di cui si sa poco, ma ai tempi del processo alle streghe di Triora era una ragazzina in età adolescenziale. In molti dicono che fu istruita alle arti magiche da sua madre, strega esperta e di alto livello, anche lei imprigionata e torturata come la figlia. In alcuni scritti compare l’accusa a una donna, interrogata e torturata perché si diceva che stesse imparando l’alchimia da un giovane medico del posto. Si dice che i fantasmi di queste streghe che furono accusate, torturate e che morirono durante il processo si riuniscano ancora oggi nei luoghi che le hanno viste protagoniste. Per quanto riguarda le streghe più in generale, ancora oggi, in certe zone, gli anziani credono che avere i capelli rossi per una donna sia segno di stregoneria. Anche il manto delle mucche, dalle mie parti, non poteva avere sfumature rossicce, tant’è che la razza bovina che produce i formaggi delle mie zone ha il pelo bianchissimo, tanto era radicata questa superstizione. Fino al secolo scorso si credeva che le bàzue potessero maledire il bestiame e tormentare i neonati con il loro malocchio. Ci sono diversi racconti popolari al riguardo, ogni famiglia ha il proprio che si tramanda da generazioni. Ci sono poi anche le storie e le dicerie legate ai luoghi, come Lago Degnu (nel territorio di Molini di Triora), una polla d’acqua profonda contornata da fitti boschi, un tempo impenetrabili, che si credeva fosse luogo prediletto per il Sabba che le bàzue facevano con il Demonio in persona. Ci sono poi il Lavatoio del Noce e la Fontana di Campomavue a Triora, dove le streghe lanciavano il malocchio e dove si racconta che una bàzua in particolare diede un saggio consiglio al capostipite di una famiglia che sarebbe diventata tra le più facoltose del paese, proprio grazie al buon consiglio della donna. Altro luogo legato alle streghe trioresi è la Cabotina, antico forte di cui oggi restano i ruderi, situata ai margini più poveri del borgo. Qui si dice si riunissero le streghe per i loro malefici.

  1. Sai se esistono altre versioni?

La storia di Franchetta è reale e documentata, ma sono sorte leggende che la vedono come protagonista, sussurrate un po’ a mezza voce, come a voler favoleggiare su un personaggio che è divenuto simbolo di una lotta importante. C’è chi dice che sia vissuta a lungo dopo le torture, forse proprio grazie alle sue conoscenze della magia; alcuni ipotizzano si sia trasferita altrove, in un borgo non lontano, e che qui abbia fondato una stirpe di donne sapienti e conoscitrici della stregoneria. Lo stesso si dice delle altre donne che furono incarcerate e torturate insieme a lei, di alcune si racconta siano morte al rogo, anche se pare non ci sia testimonianza di alcun rogo di streghe in Valle Argentina. Di tutte le accusate non vi è più traccia negli archivi, ad oggi ancora non abbiamo certezze riguardo l’epilogo del processo, e questo ha permesso a molti di fantasticare sull’accaduto. Esistono anche tante versioni delle superstizioni legate al malocchio perpetrato ai danni di bambini e del bestiame, ognuno ha la propria. Ci sono storie di neonati che non smettevano di piangere per via di un maleficio e che ritrovavano la calma solo dopo che la strega, smascherata, veniva intimata di smettere o dopo l’azione di una contro-fattura da parte di qualche altra buona donna conoscitrice di rimedi magici. Ci sono anche storie riguardanti le pecore che, per via di una fattura ricevuta, non producevano più latte, o scappavano senza motivo, irrequiete.  Non conosco tutte le versioni che sono state raccontate sulle storie che riguardano le streghe, ma di sicuro ne esistono di diverse.

  1. Come l’hai conosciuta? Te l’ha raccontata qualcuno?

La storia di Franchetta, di Isotta e Magdalena è famosa e l’ho conosciuta al Museo Etnografico e della Stregoneria di Triora. Da lì mi sono poi documentata su alcuni testi. Le leggende e le storie legate al bestiame e ai luoghi le ho conosciute leggendo dei libri sulla stregoneria locale e grazie ai racconti orali della nonna di una cara amica.

  1. Se ti è stata raccontata, ti è stata raccontata in lingua italiana o in dialetto?

A me in italiano, ma la nonna della mia amica le raccontava in dialetto.

  1. E tu l’hai raccontata a qualcuno o la racconteresti a qualcuno? Se sì, in italiano o in dialetto?

Io racconto tutto quello che posso per non spezzare quel filo magico che ci lega al passato. Le racconto in italiano perché tra chi mi segue non tutti sanno parlare o comprendono il dialetto. Tramando queste storie in particolar modo sul mio blog, cosicché siano fruibili dal maggior numero di persone, ma mi è capitato anche di leggerle ad alta voce davanti a diversi ascoltatori.

  1. Credi che ci sia un fondo di verità in questa leggenda?

Quella di Franchetta, delle sorelle Stella e di Magdalena, come già detto, sono storie vere, documentate da testi originali consultabili. Per quanto riguarda invece le altre leggende, credo fosse solo la paura della gente dell’epoca ad alimentare certe storie, un po’ anche per invidia. È vero, però, che le donne d’un tempo si tramandavano la conoscenza delle erbe e delle energie naturali; erano guaritrici e levatrici, e si sa che la loro posizione fosse molto pericolosa. Non era difficile che qualche loro paziente o che la puerpera morissero, e a quel punto diventava semplice pensare subito a malefici e fatture. Non credo nella superstizione. Credo piuttosto nel fatto che ognuno sia artefice del proprio destino e che l’uomo sia in grado, con il proprio pensiero e le proprie emozioni, di creare la propria realtà. Le presunte conseguenze del malocchio, quindi, così come delle fatture, sono per me provocate dalla convinzione degli effetti negativi e del male che si poteva ricevere da altri. In sostanza, ognuno si attirava ciò su cui poneva di più la propria attenzione. Per quanto riguarda le storie e le dicerie legate ai luoghi, in particolar modo quelli con una forte presenza dell’acqua (come Lago Degno, lavatoi e fontane), moltissimo tempo fa nelle mie zone era praticato il culto delle fonti e delle acque, che si credevano presiedute da divinità femminili benevole. Credo che le donne accusate di stregoneria in epoca medievale praticassero culti più antichi, o che semplicemente mantenessero vive le conoscenze legate a tempi remoti di cui s’era già persa la traccia. Difficile risalire alla verità, ma credo che un fondo di realtà ci sia in queste storie, anche se il significato è stato travisato dal cristianesimo e dalla paura della gente dell’epoca.

  1. Per quanto riguarda le fate, invece, conosci qualche leggenda che abbia come protagonista una fata?

Nelle zone in cui vivo si parla poco di fate, ed è un argomento di cui io stessa vorrei sapere di più. La Liguria, infatti, è più famosa per le sue storie di streghe e fantasmi, che non per altri abitanti soprannaturali. Tutto quello che so è che alcuni luoghi sono legati a queste figure, come il Bosco di Rezzo, nel territorio di Imperia, che viene spesso soprannominato Bosco delle Fate. C’è uno scoglio misterioso tra i comuni di Badalucco e Montalto-Carpasio, ancora una volta intitolato alle fate, ma il motivo di tale appellativo si è perso nel tempo. Alcuni storici non ufficiali affermano che un tempo la Valle Argentina fosse soprannominata la Valle delle Fate, ma non si sa da dove e da cosa derivi tale appellativo. So che la Liguria ha in comune con la Sardegna una figura femminile che sosta sulle rive dei torrenti, lavando panni insanguinati. In Sardegna le chiamano Panas e sono donne morte di parto, qui da noi, invece, sono simili alle Banshee irlandesi e sono descritte come fate piangenti e addolorate che fingono di provare strazio per attirare gli ignari uomini di passaggio, al fine di farli impazzire e annegare per poi nutrirsi della loro energia vitale. C’è poi un’altra leggenda legata alle fate che abitano le grotte. Anche questa caratteristica le accomuna alla “vicina” Sardegna, che ha le Janas, ma le nostre fate delle grotte sono ancora una volta di natura malevola. Pare si pettinino di continuo e che non possano perdere il loro magico strumento, pena la perdita della strada di casa. Non aiutano volentieri gli uomini, tutt’altro, ma se questi ultimi aiutano loro, sono disposte ad elargire doni e consigli.

  1. Sai se esistono altre versioni?

Purtroppo no, conosco solo quelle che ho raccontato.

  1. Come l’hai conosciuta? Te l’ha raccontata qualcuno?

Ho conosciuto queste storie sui libri e tramite racconti lasciati sul web da conterranei.

  1. Se ti è stata raccontata, ti è stata raccontata in lingua italiana o in dialetto?

In italiano.

  1. E tu l’hai raccontata a qualcuno o la racconteresti a qualcuno? Se sì, in italiano o in dialetto?

Anche qui, vale la stessa risposta che ho dato alla domanda n. 5.

  1. Credi che ci sia un fondo di verità in questa leggenda?

Anche in questo caso, mi trovo a ipotizzare che il fondo di verità legato a queste storie sia sempre l’antico culto legato a divinità femminili che era particolarmente sentito nelle zone più interne delle valli dell’imperiese. Ci sono molte grotte sulle alture della Valle Argentina, così come anche nella vicina Val Roya. In tali grotte sono stati trovati reperti archeologici importanti che testimoniano il culto dei defunti e della Madre Terra da parte degli uomini primitivi che abitarono queste zone. La grotta era principalmente luogo di sepoltura, sono stati trovati scheletri in posizione fetale, il che fa pensare all’intento di far tornare i cari estinti nel ventre, nel grembo materno della Terra. Tale culto sopravvisse a lungo, insieme a quello delle fonti di cui parlavo poco fa, e, per sradicarlo, il cristianesimo inventò storie di demoni, streghe e fate malvagie, affinché la gente temesse ciò in cui aveva fermamente creduto fino a poco tempo prima.

  1. Credi di essere superstiziosa? Credi che nel tuo paese/città/regione ci sia una forte superstiziosità?

Io non lo sono, ma nella mia zona c’è ancora chi crede alle antiche dicerie e pratica scongiuri, soprattutto nei paesi.

  1. Credi che la superstizione possa giustificare la nascita delle leggende?

Di alcune sì, quasi sicuramente. Prendendo, ad esempio, la storia delle fate lavandaie, immaginiamo che essa sia nata in epoca cristiana, quando la chiesa cercò di estirpare il culto delle acque – e quindi di divinità femminili – che si praticava con convinzione in Valle Argentina. A questo punto, per via del nuovo culto imposto, iniziarono a circolare superstizioni – e quindi leggende – riguardo certi luoghi. Per esempio, dalle mie parti si diceva che le fonti fossero presiedute da draghi (lo testimonia il toponimo della Fonte Dragurina sul Monte Toraggio), e il drago per il cristianesimo era un altro aspetto del demonio e del male. Questa mia tesi la deduco anche dal fatto che in queste zone l’evangelizzazione fu molto capillare, e si può notare dalla grandissima quantità di santuari, chiesette e cappelle sparse in tutti gli anfratti della vallata. E, guarda caso, sorgono quasi tutti vicino a delle fonti e sono dedicati quasi tutti alla Madonna o a sante. Senza contare che a Triora è stato chiamato addirittura un pittore illustre ad affrescare i muri di una chiesetta di montagna, quella di San Bernardino (i dipinti sono attribuiti al Canavesio, anche se non sono firmati), lo stesso che affrescò la vicina Notre Dame Des Fontaines a La Brigue che le è valso il soprannome di “Sistina delle Alpi”. Perché scomodare così tante forze ed energie per una valle piccola e sperduta, mi vien da pensare? Doveva esserci un motivo ben preciso, e secondo me non si discosta tanto dal voler distogliere l’attenzione del popolo dal culto delle antiche divinità femminili, legate all’acqua, alla terra e alla fertilità.

  1. Credi che le leggende si stiano estinguendo?

Credo che l’essere umano abbia un atavico bisogno di raccontare storie e di tramandarle. Purtroppo, però, mi trovo a dover dire che c’è una certa chiusura in questo. Sono in molti a non voler raccontare, vuoi per paura, per superstizione o semplicemente per una scarsa propensione personale, e trovo sia un peccato, perché molto del patrimonio orale va perdendosi. La nota positiva, però, è che sono in molti a volerlo riscoprire, a ricercarlo e a raccoglierlo.

Allora, topi? Che ve ne pare? Io sono proprio contenta di aver avuto questa opportunità. Un grazie a Nicoletta e un bacio a voi!

 

L’Amanita muscaria, un fungo… che strega

Ci sono funghi da raccogliere e mangiare e funghi solo da ammirare mentre fanno capolino nel sottobosco. Uno di questi è sicuramente l’Amanita muscaria, assai conosciuta e da cui ormai tutti si tengono alla larga.

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Io mi diverto un mondo a fotografarla, perché coi suoi colori attira l’attenzione durante le passeggiate e crea scenari fiabeschi, stregati. Di questo fungo oggi voglio raccontarvene qualcuna, perché è davvero particolarissimo.

Appartiene alla classe dei basidiomiceti ed è della famiglia delle Amanitaceae. Alcuni esemplari possono raggiungere anche i 25 cm di altezza e il cappello misura dagli 8 ai 20 cm di diametro, sono veri e propri ombrelli per le più piccole creature del bosco. Allo stadio giovanile, appare chiuso in un velo che assume forma di uovo, il quale poi si apre per lasciar fuoriuscire il corpo fruttifero del fungo, ovvero il cappello. Nel suo sviluppo, il velo può restare attaccato al fungo stesso formando un caratteristico anello sul gambo, e parti di quel velo formano anche le vescicole bianco-giallastre tipiche del suo aspetto, che fanno contrasto con il rosso acceso. Talvolta il cappello può essere anche di un rosso meno intenso, quasi aranciato, e presentare meno vescicole o addirittura non averne più nemmeno una.

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Cresce in estate e in autunno nei boschi di conifere e latifoglie, e difatti nelle zone umide della Valle Argentina non è difficile imbattervisi. In particolare, predilige Pioppi, Abeti, Pini e Betulle. Il nome “muscaria” deriva dal suo collegamento con le mosche: contiene, infatti, una sostanza che pare sia moschicida. E’ un fungo spia della presenza del Porcino, per cui, topi, aguzzate la vista!

Un tempo in Italia l’Amanita muscaria si usava in cucina, consumata previa preparazione adeguata per eliminare tutte le sue sostanze più pericolose, ma è oggi considerato non edibile.

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C’è un motivo, infatti, se è conosciuto con il nome di ovolo malefico o anche come fungo dei pazzi. Infatti, era già conosciuto e utilizzato tra il 2000 e il 1000 a.C per le sue proprietà allucinogene, soprattutto nel nord dell’Europa. E’ a tutti gli effetti una sostanza psicoattiva, la più antica che sia stata utilizzata nella storia, topi.

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E per cosa lo usavano i nostri antenati? L’uso che se ne faceva era soprattutto rituale, era un fungo assai conosciuto dagli sciamani, che lo assumevano in quantità precise e ridotte e preparato in un determinato modo (guai a provarci in tana, topi! Da molti, infatti, è considerato letale) per alterare il loro stato di coscienza e connettersi al mondo degli spiriti per chiedere loro aiuto nella risoluzione di problemi riguardanti la comunità, la sopravvivenza, la salute di un individuo e per molti altri motivi. Era, pertanto, ritenuto magico a tutti gli effetti, poiché permetteva di accedere a un regno invisibile, quasi divino. I suoi effetti sono più o meno potenti e dannosi in base al luogo in cui cresce, cosa che rende la portata della sua tossicità difficilmente classificabile, ecco perché è ritenuto molto pericoloso.

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Nel medioevo divenne simbolo del male – da qui il soprannome ovolo malefico – e del demonio, ma in verità è sempre stato un simbolo positivo, legato alla magia e al soprannaturale. Quante volte avrete visto i topini disegnare funghi rossi a macchie bianche? L’Amanita muscaria è infatti collegata al mondo fatato, nel folklore è la casa di gnomi, folletti e piccoli abitanti magici.

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E in tutto questo brulicare di leggende, credenze e usanze legate all’Amanita muscaria, volevate non ci fosse qualche riferimento alle nostre care streghe? Eh già, topi! Pare la conoscessero anche loro, almeno stando a ciò che viene tramandato dagli anni bui dell’Inquisizione. Come ben sapete, la Valle Argentina vanta storie di streghe di una certa importanza e, se quello che si racconta è vero, può essere che questo fungo fosse conosciuto e utilizzato dalle donne di conoscenza d’un tempo.

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Si dice che le streghe usassero un particolare unguento dalla ricetta pressoché segreta, un preparato assai particolare, che utilizzavano appositamente nelle notti dei loro Sabba all’aria aperta. Tale unguento serviva loro per volare, ma non nel modo superstizioso in cui si è soliti credere. L’unguento, infatti, conteneva sostanze allucinogene in grado di provocare visioni, tra le quali la sensazione del volo, e sembra che un ingrediente fosse proprio l’Amanita muscaria.

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Il suo collegamento con le streghe non finisce qui, topi! A causa del suo crescere in cerchio (come accade a molti altri funghi, d’altronde) lo ha reso simbolo dei cerchi delle streghe, ritenuti pericolosissimi nell’antichità. Si diceva, infatti, che chi vi finisse in mezzo avrebbe perduto il senno, avrebbe ballato fino allo sfinimento e alla morte o sarebbe stato trasportato in un altro mondo, popolato di demoni ed esseri infernali. Anche i pastori si guardavano bene dal far pascolare il loro bestiame all’interno di simili cerchi, poiché gli animali avrebbero contratto malattie e prodotto latte velenoso dal colore rosso sangue.

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I contadini lo chiamavano picchio di Marte, poiché tra i suoi effetti c’è quello di rendere chi lo assume bellicoso, guerresco e più forte del consueto, tant’è che veniva consumato dai guerrieri prima di una battaglia, soprattutto in ambito vichingo, o almeno così si tramanda.

Quali che siano i suoi effetti e gli usi effettivi che se ne sono fatti in passato, ciò che per me è certo è che resta un fungo meraviglioso, dall’aspetto magico e fiabesco, stupendo da fotografare.

Un bacio stregato a tutti!

 

 

 

Il Ponte di Mauta

Che meraviglia, topi miei!

Qui nella mia Valle ci sono tantissimi ponti, sono antichi, veri e propri monumenti storici che resistono con tenacia allo scorrere del tempo, e spesso ve ne ho parlato.

Oggi voglio farvi conoscere meglio il Ponte di Mauta, proprio sotto quello gigantesco e colossale di Loreto.

ponte di mauta triora loreto

E’ romanico e il suo arco è lungo ben sedici metri. Sopra di esso svetta il capolavoro di architettura moderna che dal 1960 è divenuto uno dei simboli della Valle Argentina. Prima del ponte di Loreto, a essere usato era quello di Mauta, immerso nel bosco e invaso da rampicanti che lo incorniciano tutto, come fosse un quadretto. Sotto di lui scorre in gole profonde il torrente Argentina. Non si può descrivere la bellezza di questo luogo, il cuore palpita dall’emozione guardando in giù, affacciandosi dal basso parapetto per raggiungere con lo sguardo l’acqua scura che scende impetuosa a valle, con innumerevoli giochi d’acqua, curve e sfumature. L’Argentina pare contorcersi, è facile rassomigliarlo a un serpente che striscia via, lontano. La natura rigogliosa pare voler proteggere il ponte e il corso d’acqua, li abbraccia, impedendo di godere appieno della loro vista.

torrente argentina forra grognardo ponte mauta

Un tempo era temuto, questo luogo. Il bosco era ritenuto la dimora di creature malvagie, demoni e streghe. Qui la vegetazione si faceva – e si fa – più fitta e quel torrente scuro per via della luce del sole che fatica a sfiorarlo divenne con facilità il luogo prediletto per le congreghe delle bàzue. Più in basso del ponte di Mauta, dove l’Argentina si incontra con il Rio Grognardo, si forma una conca d’acqua celebre e conosciuta come Lago Degno. Ve ne ho già parlato altre volte, per cui non mi soffermerò a farlo ancora.

E’ un luogo suggestivo, uno dei più belli della mia Valle, non esagero! In questa stagione, poi, credo dia il meglio di sé in quanto a colori.

Qui convergono le mulattiere del Langan, in un antico sentiero che permette di raggiungere addirittura le Cime di Marta e il Monte Gerbonte. Fino agli anni Sessanta del Novecento – non molto tempo fa, quindi – il Ponte di Mauta rappresentava l’unico collegamento con Cetta e passaggio per raggiungere la vicina Val Nervia e la Francia. Sono percorsi ancora oggi praticabili, di cui il ponte è un crocevia. Risalendo il sentiero poco prima di esso, si può giungere a Loreto, tornare a Triora, oppure andare avanti per Creppo, Bregalla, Realdo e Verdeggia. Proseguendo, invece, si giunge a Cetta oppure a Molini di Triora.

Un ponte importante, insomma, anche se oggi è stato quasi dimenticato per il suo cugino più moderno. Eccolo qua, il contrasto tra i due: il parapetto di pietra del vecchio confrontato col cemento in lontananza del nuovo. Che strano effetto fa, non trovate?

ponte di mauta e ponte di loreto

Il Ponte di Mauta è conosciuto, invece, da chi pratica canyoning nei torrenti della Riviera dei Fiori, uno sport che consiste nella discesa a piedi di corsi d’acqua che scorrono in gole strette e modellate nella roccia, formando cascate. Da Loreto, infatti, un cartello  esplicativo sulla Forra Grognardo riporta tutte le regole e le caratteristiche del percorso torrentistico, segno della grande frequentazione del luogo da parte di appassionati.

Nei pressi del ponte è stata posta una lapide a ricordo di un giovane che qui perse la vita per via di una caduta accidentale che gli fu fatale. Per la precisione, su di essa si legge:

A Roberto Moraldo di anni 17 da caduta mortale decedeva il 14.09.1927. I genitori e parenti inconsolabili posero.

lapide ponte di mauta

Eh, topi, bisogna fare attenzione alle pendenze di questa zona, purtroppo. Lo strapiombo è notevole, non lo si può negare, intimorisce per la sua profondità. Un tempo non era sicuramente difficile che questi incidenti accadessero, ma oggi, per fortuna, sono facilmente evitabili e, con la giusta prudenza, possiamo godere del panorama mozzafiato che questo angolo di Valle Argentina offre ai nostri occhi.

Vi mando un vertiginoso saluto!

La vostra Pigmy.