Storia di E. che difese suo padre dai Tedeschi

La storia che vi racconto oggi è successa davvero, anche se questo attempato signore che mi parla con i grandi occhi chiari fissi nel vuoto preferisce mantenere l’anonimato. E’ una storia che fa riflettere, ma rimandiamo a dopo i pensieri importanti.

Vi parlo di E. che, nei primi anni ’40 del secolo scorso, aveva all’incirca tredici/quattordici anni.

Ci troviamo vicino alla mia Valle, nella zona della Riviera dei Fiori e del Parco Naturale di San Romolo e Monte Bignone.

I due fratelli maggiori di E. erano partiti da Partigiani, mentre la sorellina minore viveva con il padre e la madre in un casone nascosto nel bosco di Pian della Castagna. Il padre di E. non poteva farsi vedere, i nazisti (dai nostri vecchi chiamati “i tedeschi” con una s scialba) lo avrebbero ucciso o portato via. E., invece, era troppo giovane per i nemici: quei militari non potevano servirsi di lui. C’era solo una rara possibilità che potessero fargli del male, che si sarebbe potuta presentare in occasione di una delle razzie messe in atto da loro durante le quali non guardavano in faccia nessuno, nemmeno le donne, gli anziani e i bambini.

E allora fu proprio E. a farsi carico di andare a vendere la legna giù in paese per poter acquistare riso, pasta e farina. Il suo era un carico sia fisico che psicologico: partiva con il carretto da Pian della Castagna e, percorrendo ogni giorno circa 8 km all’andata e 8 km al ritorno, arrivava fino alla Chiesa della Madonna della Costa, in territorio sanremese, per vendere la legna che tagliava lui stesso. Il carretto reggeva 7 quintali di ciocchi di legno e la strada si presentava in discesa all’andata, ma al ritorno era tutta in salita, anche se il carretto era ormai vuoto.

Scendendo, il carretto che era molto pesante e prendeva velocità; E. faticava molto a reggerlo. Dunque, mano a mano che camminava, rubava qualche pietra dai muri a secco in cui si imbatteva lungo il cammino e lanciava i massi davanti a sé affinché frenassero le ruote del carro. Dai oggi e dai domani, portò via parecchie pietre, anche se durante il ritorno alcune le ricollocava al loro posto per paura di provocare qualche frana. Un giorno il proprietario delle terre trafugate delle pietre di contenimento lo colse sul fatto e, avvicinandosi a lui, lo redarguì: «Fiu, se ti cuntinui cuscì, mì prie de chi in po’ a nu ghe no ciü!» (Figliolo, se continui così, di pietre tra un po’ non ne avrò più!). E. si scusò e continuò il suo cammino.

Un giorno dovette scendere nel centro di Sanremo per vendere la sua legna. Quel giorno i tedeschi avevano deciso di mettere in fila tutti i ragazzi e gli uomini che erano nei pressi di Piazza Eroi Sanremesi per fucilarli. Dalla piazzetta di fronte, dove oggi sorge un parcheggio, molte donne piangevano disperate.

C’era anche E. tra i presi di mira, era l’ultimo della fila dal lato monte e una sentinella gli marciava davanti, osservando che le vittime fossero tutte ben posizionate. Sarà stata l’incoscienza o il brivido istintivo della sopravvivenza, ma E., appena il soldato si voltò e non lo ebbe più sotto gli occhi, scappò di corsa verso San Romolo, in direzione delle sue montagne. Le conosceva bene e, nella fuga, aveva lasciato in piazza la legna con tutto il carretto. Gli spararono, ma lui stava già sgattaiolando tra le case vicine e i carruggi intorno al piazzale. Per 7 km non arrestò la sua fuga disperata. Quei 7 km, che macinava a fatica e lentamente ogni giorno, ora scivolavano sotto i suoi piedi, il fiato corto di sottofondo ai passi affrettati. Il battito del cuore gli rimbombava nelle orecchie, così come gli spari di poco prima. Quando giunse al casolare nel bosco cadde a terra svenuto.

Questa vicenda possiamo definirla quasi “una delle tante” (descrizione che  personalmente trovo quasi offensiva, in quanto ogni memoria è unica e riporta drammi ed emozioni che al giorno d’oggi non riusciamo neanche a immaginare), ma il punto sul quale vorrei focalizzare l’attenzione, anche se può sembrarvi assurdo, riguarda la reazione del proprietario dei muretti a secco.

Molti la troveranno ovvia, visti i tempi che correvano: la guerra, la carestia, mentalità diverse, modi di fare d’un tempo… ma se paragonassimo quell’atteggiamento ai giorni nostri noteremmo che la gente reagirebbe in modo differente. Una volta, se si estraevano le pietre da un muro, non lo si faceva per puro divertimento o per far del male a qualcuno. Era per bisogno. Era una necessità spesso vitale. Per questo si incontrava compassione. Oggi non si avrebbe più la necessità di scendere con 7 quintali su un carro e dunque non c’è alcun motivo per rovinare i muri che altri hanno costruito con tanta fatica.

Anche E. faticava parecchio a condurre quella vita che svolse per due anni ogni giorno, due anni che videro suo padre nascosto nella macchia, senza poter uscire. Due anni in cui l’amico bosco, con le sue folte chiome, lo difese e lo riparò dal nemico.

Sono storie che oggi ci sembrano incredibili o banali, ma che i nostri padri o i nostri nonni hanno realmente vissuto… proprio poco tempo fa.

Un bacione topi, alla prossima storia.

– Daighe l’aiga ae corde! –

– Papà, papà! Mi racconti ancora una volta la storia di Benedetto e dell’obelisco? -, – Va bene Pigmy, ma tu promettimi che continui a lavarti da brava e anche dentro alle orecchie! -, – Promesso papà! -.

– Allora, vediamo “Tanti, tanti anni fa, un Papa che viveva nella città di Roma, decise di voler abbellire la piazza di casa sua, con un bellissimo e alto obelisco. Tutta la gente allora si radunò per servire ed accontentare il Papa che però, vietò assolutamente al popolo, di muovere anche solo un dito. Essendo l’obelisco, pesantissimo e quindi pericoloso, potevano toccarlo solo gli operai e, di operai, il Papa ne aveva fatto arrivare più di 100! ” -, – Quanti sono più di 100 papà? -, – Sono tantissimi Pigmy, più ancora di tutti i topini che ci sono nella tua scuola… frega bene dietro al padiglione “e insomma che gli operai del Papa erano davvero tantissimi. Lo spostamento di questgrande opera era così faticoso che i lavoratori avevano bisogno di grande concentrazione e così, la guardia del Papa, ordinò alla gente che stava a guardare con il fiato sospeso: – Al primo che aprirà bocca… zack!… verrà immediatamente tagliata la testa! – e indicò, lì vicino, il boia con il pauroso arnese… “. Pigmy, non t’incantare che prendi freddo dai! Lo sai che anche la parte dietro alle orecchie è tua? “E quindi tutti stavano con la bocca ben ben chiusa. E allora: – Issaaa… e issaaa… o-issa! – quanta fatica, l’obelisco sì, stava salendo per essere piantato ma… le corde con il quale lo stavano tirando su, si stavano rompendo! Troppo peso! Quelle grosse corde di canapa, erano troppo secche, si sarebbero spezzate in due. Cadendo, l’obelisco avrebbe fatto un vero disastro su quelle povere genti! Ma, ad un certo punto, incurante della mortale pena promessa, una voce forte e ben scandita, si levò sopra le teste del popolo – Daighe l’aiga ae corde! – (Dategli l’acqua alle corde!-Bagnate le corde!)…”…

Ricordo cari topi che, a quel punto della fiaba, un brivido mi percorreva tutto il corpo. Dal collo, scendeva giù fino alla coda. Cosarope-5336_640 sarebbe successo al mio simpaticissimo amico Benedetto Bresca, lupo di mare, nonchè Capitano?

Benedetto Bresca, marinaio ligure, originario della Liguria di Ponente. E io mi sentivo importante che un mio “vicino di tana” fosse andato fino a Roma a salvare un obelisco! Ebbene topini, questa non è solo una fiaba ma una storia vera, accaduta il 10 settembre del 1586.

A Papa Sisto venne regalato uno splendido obelisco egiziano. Era l’obelisco che Caligola, fece importare san_giovanni_obelisco_1dall’Egitto. Papa Sisto V, lo volle in Piazza San Pietro. Secondo i dati che si hanno, queste erano le misure dell’opera d’arte: 25 metri per 350 tonnellate. Si dice anche che il Papa assoldò quasi 1000 uomini e 150 cavalli per trascinarlo e per issarlo.

Il monolito era quasi a posto quando si videro le funi cedere e allungarsi pericolosamente. Stava per cadere a terra e frantumarsi. Benedetto Bresca, che aveva osato disobbedire all’ordine, venne immediatamente circondato dalle guardie del Papa ma, quest’ultimo, riconoscendo che era stato grazie a lui se il suo regalo era salvo e nessuno era morto, lo beneficiò di una grande somma di denaro e una pensione a vita. Non solo, Benedetto ebbe l’onore di issare la bandiera del Vaticano. In ultimo, la famiglia Bresca chiese e ottenne di poter rifornire di rami d’ulivo, simbolo di pace, e di foglie di palma, la Chiesaindex di Roma, durante la Pasqua, per il resto dei loro anni.

Ma come fece Benedetto a capire che bastava un po’ d’acqua per risolvere la situazione? Semplice: quell’uomo aveva passato tutta la sua vita nel mare. Il suo Mar Ligure. Ne aveva usato di corde di canapa! La corda di canapa, se secca, tende ad allungarsi, perdere di nervo, fino a sfilacciarsi tutta. Da bagnata, diventa più morbida e quindi più elastica.

A San Remo è stato dato il suo nome ad una delle piazze più intime e più belle della città, dove si mangia buon pesce e dove ci si ritrova con la compagnia. La sua città natale, Bordighera, ancora oggi ricorda quell’uomo coraggioso e, la sua frase, che intitola questo mio articolo, è diventata per noi simbolo di forza e positività nelle situazioni della vita in cui bisogna dare il massimo e dove bisogna assolutamente trovare una soluzione.

Daighe l’aiga ae corde – anche voi topini, sempre, e non mollate mai. Un bacione grande.

M.

Stravagante Bussana Vecchia: il paese dove il tempo si è fermato

Cari Topi, è anche giusto ch’io vi spieghi com’è Bussana Vecchia visto che vi ci mando in passeggiata (vedi ultimo post) e visto che merita.

Forse alcuni di voi conoscono già questo paesino vicino a San Remo ma attaccato ad Arma di Taggia, ma quelli che invece non sanno di cosa stia parlando, eccomi qua.

Bussana Vecchia (così come Bussana Nuova sul mare), per un soffio, non appartiene alla mia Valle ma alla Valle Armea che è comunque collegata appunto alla cittadina di Arma (primo paese della Valle Argentina).

E’ un paese spettacolare. Ha una storia alle sue spalle ricca di avvenimenti e lunga di tanti anni ed è uno dei borghi più caratteristici che io abbia mai visto. Possiamo quasi definirla la Saint-Paul de Vence della Liguria. Non smetterei mai di ammirarla in tutti i suoi angolini e fotografarla. Una modella senza precedenti.

La prima cosa che stupisce, in questo piccolo villaggio della provincia d’Imperia, è come è assemblato.

Arroccato su una collina con i suoi carrugi a far da labirinto.

Le sue viuzze, a ciottoli, sono un circuito quasi impenetrabile contornato da case una più particolare dell’altra, o semplicemente, avvolte dalla vite rossa, o da qualche cosa di fantasioso appeso fuori in bella mostra.

Case di Italiani ma anche di Olandesi e Tedeschi, purchè artisti; artisti nel cuore e nel sangue.

Case costruite ancora con il metodo romano.

Vado spesso in questo posto da che son bambina. Si mangia bene nelle uniche due osterie esistenti e la cosa che mi piace di più è che quando sei lì, sei amico di tutti.

Si mangia, si canta, si beve, tutti in compagnia, anche tra sconosciuti. In questo posto non conta l’apparenza, si va vestiti come si vuole, nessuno giudica. Tutto, ovviamente avviene nel rispetto del prossimo e nel rispetto degli animali che, a Bussana Vecchia, sono accettati ovunque e liberi di circolare come e dove vogliono per tutto il paese. Sono i cocchi degli abitanti.

Nessun’altro invade troppo quel territorio ma si sta bene tutti insieme e, per una sera, si è coinvolti in uno stile di vita che oggi tendiamo a scostare molto da noi. Purtroppo.

E allora ti ritrovi a parlare con un inglese, o con un tedesco, o un francese senza capire nulla di quello che dicono e viceversa, ma ridi e ti diverti un mondo.

Noi della zona soprannominiamo questo villaggio “il paese degli artisti” e, infatti, potete vedere in queste immagini, quanto è caratteristico e persino stravagante.

La caffettiera gialla, appesa al muro ad esempio, è un portacenere.

Nulla viene lasciato al caso. Sono geniali questi bussanesi!

E che meraviglia passeggiare tra le tante botteghe di artigianato e laboratori d’arte. Botteghe colorate dai mille stili diversi con, al loro interno, tante opere.

Tutto quello che si vende è naturalmente fatto a mano ed è un pezzo unico.

C’è chi crea e propone le sue candele, le sue collane, i suoi fiori fatti di carta, le sue borse di lana cotta, le piccole sculture ma, soprattutto, a Bussana Vecchia, ci sono i pittori e i loro studioli sono piccoli negozietti dai muri spessi e la luce fioca. Pittori che arrivano da ogni parte del mondo e alcuni di loro hanno segnato molto il paese di Bussana in modo indelebile.

Per alcuni, sono state anche dedicate delle vie e il loro nome è stato scritto su lastre di ardesia appese ai muri di pietra come quello di Peter Van Wel, nato il 28 agosto del 1946 e mancato il 5 febbraio del 2008.

Pittori disposti a fare un ritratto, pittori che vedono quel borgo in un modo tutto loro, pittori astratti, realisti, cubisti.

Ma l’arte trapela ovunque in questo borgo senza tempo, dove nemmeno gli orologi hanno più le lancette. Un tempo che si è fermato e regna sovrano.

E tu ti giri, ti guardi intorno e, oltre alle tele dipinte, scopri i mosaici. Sono i mosaici fatti di cocci e di specchi rotti che riflettono la tua immagine più volte e da ogni lato.

Il Museo “Il Giardino tra i Ruderi”, i cesti di vimini, il ferro battuto, il legno intarsiato. Ogni cosa.

E a Bussana non manca nemmeno uno dei più grandi venditori di bonsai della provincia. Li crea, li cura, li fa nascere e realizza opere straordinarie, veri giardini e boschi in miniatura. E se si va, nella giusta stagione, si possono ammirare addirittura i piccoli alberi con i microscopici fruttini attaccati.

Quello che però attira maggiormente l’attenzione del turista è l’andare a visitare la Chiesa, anzi le due Chiese, semi-crollate durante il terremoto del 23 febbraio del 1887, un mercoledì delle ceneri. Un terremoto che ha raso al suolo l’intera collina. Sono rimaste in piedi soltanto le pareti esterne degli edifici religiosi e i campanili che dominano su tutto il paese, il resto, si è frantumato, uccidendo, ahimè, parecchie persone che stavano proprio seguendo la messa in quel mentre.

Ancora oggi, guardando ciò che è rimasto, si provano dei brividi. Essere al centro di queste mura e poter guardare il cielo sopra di noi pare impossibile. Esserci “dentro” e calpestare l’erba alta sembra fantascientifico.

Su alcune pareti, delle scritte. Sigle di giovani che han voluto mettere la loro firma.

Dentro ad una delle due chiese ci sono delle strutture che mantengono in piedi i muri laterali e un cancello non ci permette di entrare. E’ tutto pericolante.

Ancora si possono vedere gli affreschi da quel che rimane. Il rosso, il viola, l’azzurro, traboccano da storiche pareti che sembrano di gruviera. Ancora si può notare dove c’erano l’altare e l’oratore e si vedono le nicchie dei Santi e le acquasantiere.

Una di queste Chiese, la più grande, è dedicata alla Madonna delle Grazie e rinnovata in stile Barocco nel 1600 ma, prima, questa struttura era Medievale e nominata di Sant’Egidio, realizzata pensate, nel lontano 1404.

Anche il Castello, ormai del tutto in rovina, appartiene a quell’epoca.

Bussana, come gli altri paesi del mio territorio, apparteneva alla Repubblica di Genova che governava questo splendido posto. E Genova aveva visto bene rubandola alla Corte di Ventimiglia.

Ogni angolo di questo piccolo paese è un’opera d’arte, è tutto da fotografare e fa impressione pensare che, nel 1894, si spopolò del tutto rimanendo un paese fantasma per più di cinquant’anni.

Ed è proprio a causa di questo terremoto che venne poi costruita un’altra Bussana, Bussana Nuova, giù al mare.

Ma voglio ancora soffermarmi davanti alle Chiese. Voglio rimanere ancora un po’ qua, sotto a questo cielo terso e raccontarvi di loro.

Sono grandi opere meravigliose, spero che le immagini rendano quello che vorrei farvi capire.

Ogni casa, a prima vista mezza distrutta, è in realtà la culla della fantasia di chi ha deciso di abitarci e, qui dentro, anche se nessuno più ci vive, la fantasia galoppa felice.

E io mi sento piccola. C’è una brezza leggera. Una brezza come quel giorno maledetto che ha inghiottito con sè tantissime anime; ma, quel giorno, avevano raccontato i superstiti, quella brezza diventò presto un vento forte e violento. Sospiro e continuo il mio tour.

Vado a cercare altri angoli caratteristici per voi ma, qui, non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Tutti mi salutano. Sono simpatici. Hanno le loro regole e si aiutano l’un con l’altro, sono molto uniti. Sono come una grande Comunità. Scordatevi di venire qui e pensare di poter dettar legge, il loro regolamento ce l’hanno già e, alla base di tutto, c’è la libertà.

A Bussana Vecchia infatti non giudicano nulla, non guardano i tuoi vestiti, la tua auto, la tua pettinatura, notano solo cosa apprezzi di loro, del loro fare e del loro paese. O per lo meno, di quello che ne resta, che hanno comunque saputo mantenere, o forse addirittura trasformare, in un mondo a sè.

Vedete, magari notano se rimanete indifferenti davanti a un cancello come questo, che è poi una porta d’entrata fantastica, o uno scorcio così bello, perchè no… non si può far finta di niente.

E qual’è il più bell’angolo? Boh! E’ impossibile scegliere.

Come è impossibile non notare i vari dettagli: i merletti sui lampioni, le gargoyle, strane statue che richiamano il diavolo. Dentro ai muri, un po’ nascoste, sembrano osservare.

Bussana Vecchia, rimasta senz’acqua, senza luce, senza gas, con la luminosità soltanto della sua magia e i suoi 66 abitanti.

Bussana Vecchia a 200 metri sul mare.

E tutto scorre e tutto sembra essersi fermato in questo piccolo paese che persino l’Autostrada dei Fiori indica come località turistica e bella da vedere. Dove c’è aria umida e fresca. Dove una sedia, un pezzo di legno, un tubo di ferro, diventano un’architettura particolare, un’opera d’arte.

Questa è Bussana Vecchia e a chi non l’ha mai vista consiglio vivamente di venirla a visitare. Ne rimarrà entusiasta. Verrà a visitare il più bel paese sulle colline rocciose di San Remo, fondato in antica Epoca Romana, con l’originario nome di Armedina, simile alla Valle che la ospita.

Spesso colpita e saccheggiata dai Longobardi a monte e dai Saraceni dal mare, ha saputo tener duro e, questo piglio, questa dignità, ancora si notano, si percepiscono.

Una terra circondata da terrazzamenti colmi di Ulivi e Agrumi, una terra che fino a poco tempo fa ospitava piccoli allevamenti di bestiame. Una terra che viveva di se stessa, come ora, ma in modo diverso.

Mi auguro che questa passeggiata che vi ho fatto fare in un’entroterra che non è mio, per un solo soffio, vi sia comunque piaciuta. Spero di avervi fatto sognare, di avervi fatto respirare quest’amosfera e di avervi portato là, in quel paese in cui tutto scorre ma, il tempo, sembra essersi fermato.

Un bacione a tutti, la vostra Pigmy.

M.

Sant’Ampelio e i suoi scogli particolari

Oggi, non siamo nella mia Valle.

Sono passata per di qua e, questo posto, mi ha talmente colpito che volevo farlo conoscere anche a voi.

No topi, in realtà venivo a giocare davanti a questo mare fin da cucciola.

Siamo a Bordighera e, alla sera, in estate, almeno una volta al mese, si veniva in questa cittadina a mangiare l’anguria fresca, all’aperto. Vicino a questo chiosco che vendeva cocomeri a fette, una chiesetta.

Una piccola chiesa che ho sempre ritenuto molto affascinante e non sono la sola se si pensa che è il luogo più ambito per matrimoni e cerimonie.

Ebbene, ecco perchè ho deciso di scrivere un post su: Sant’Ampelio.

Ha fatto parte della mia infanzia e ora, quindi, deve far parte anche del mio blog. Mi sembra giusto.

Mamma mia quanti ricordi! L’odore di salsedine, le luci, le rocce.

Oltre allo spettacolo che offre questo Santuario, romantico, bagnato dagli spruzzi d’acqua salata delle onde e illuminato da luce fioca, cosa mi piaceva tantissimo erano gli scogli sul quale era appoggiato.

Erosi dal mare, formavano delle buffe forme e… parevano pezzi di gruviera. Tutti bucherellati e consumati.

Un piccolo ponticello permette di visitarli tutti e di andare a ridosso del mare.

Il salmastro penetra anche nelle ossa, è quasi come essere a bagno.

In questa chiesa, che contiene le spoglie del religioso eremita Ampelio, ci si può entrare ovviamente solo di giorno. Io, sono sempre venuta di sera e, dentro, non l’ho mai vista ma dicono sia bellissima. Di sera comunque ha un fascino incredibile! La cornice illuminata di Ospedaletti e San Remo, dietro di lei, sulla costa, la rendono una fantastica cartolina.

Qui nei dintorni, da Imperia alla Francia, questo posto lo conoscono tutti.

E’ davvero particolare; la sua atmosfera è particolare e unica.

Questo è proprio il luogo perfetto dove portare la fidanzatina o per giurare amore eterno. Ampelio, non si fa problemi, ne ha già ascoltate di tutti i colori e in tutte le lingue.

E allora, cosa aspettate topini? Se siete sognatori e sentimentali, portate qui le vostre topine e state certi che passerete un momento idilliaco che rimarrà per sempre nel cuore della vostra amata.

Dal wedding planner di Pigmy, un saluto e alla prossima!

M.

Il grande Libereso

Ah topi, sedetevi tranquilli perchè oggi voglio parlarvi di un uomo. Si, si è un umano! Un umano molto particolare e mi auguro vogliate conoscerlo perchè, datemi retta, ne vale la pena.

Voglio parlarvi di un grande botanico, un umanista, un amante della natura. Voglio parlarvi del giardiniere di Italo Calvino. Lui è Libereso Guglielmi.

Prima di cominciare, vi segnalo questa splendida pagina che parla di lui http://www.trafioriepiante.it/infogardening/poltrona/LiberesoFioreBocca.htm. Leggete questa bellissima intervista. Grazie alle sue stesse parole e al lavoro svolto da Paolo Cottini, possiamo conoscere meglio questo personaggio.

Libereso vive vicino a me, in un giardino di San Remo. Ovviamente non sa nemmeno chi sono ma, a me, piacerebbe tantissimo incontrarlo. Mi piacerebbe ascoltarlo, rubargli un pò della sua saggezza e della conoscenza che ha sulle piante.

E’ insegnante, ricercatore, scrittore, pensatore. Della flora conosce ogni segreto. Conosce la pianta terapeutica e quella alimentare. Conosce come vivono e perchè esistono. Ne conosce l’intelligenza e lo scopo.

Si nutre egli stesso di quei fiori che, il suo più grande maestro, Mario Calvino, gli ha mostrato.

Il suo modo di dire “Mangiare il Giardino” è molto affascinante e, per chi vuole provare a cucinare qualche particolare ricetta, può acquistare il libro “Oltre il Giardino – le ricette di Libereso Guglielmi” a cura di Claudio Porchia.

Attivo dal mattino alla sera e, arzillo più che mai, pur essendo una persona molto tranquilla, dopo essere stato capogiardiniere all’Università di Londra e botanico per la famiglia Calvino appunto, oggi, pur di non star fermo, mantiene conferenze ovunque e, a San Remo (IM), insegna ai bambini delle Scuole Elementari a disegnare i fiori, la sua più grande passione. E pensate che è nato nel 1925. Da non credere. E’ meraviglioso.

Ma tutte queste cose topi, sono indizi su di lui che potete trovare tranquillamente anche sul web. Io invece vorrei comunicargli la mia stima personale e credere che, un giorno, passerò con lui un intero pomeriggio. Si, sarebbe nulla, ma a me già basterebbe. Sarebbe l’uomo che potrebbe farmi passare una delle giornate più belle della mia vita. Pensate che, per molti miei amici, Italo Calvino è lo scrittore preferito e mentre io invece, adoro le piante e tutto il grande mondo in cui vivono del quale se ne conosce solo una minima parte. Libereso, a questo mondo, ha dedicato la vita intera.

Ti abbraccio forte Libereso e spero davvero un giorno, di poterti guardare, mentre con quella tua voce pacata mi spieghi tutti quelli che, per me, sono ancora segreti. Spero anche di poter passeggiare con te che, con il tuo bastone, mi indichi le piantine commestibili da raccogliere e assaggiare. Tua Pigmy.

Foto presa da genova.montelocale.it

M.

Il Monastero del Carmelo

Carissimi topini, in questo periodo, come avrete visto, sono un pò latitante. Ebbene, dati alcuni giorni di vacanza dai vari impegni di studio e di lavoro che ho, ne ho approfittato per andare un pò in giro e, la prima meta che ho deciso di intraprendere, è stata quella di fare una bellissima visita al Monastero delle Suore Carmelitane di San Remo.

Ho fatto questo e, con immenso piacere, per prima cosa, per fare una sorpresa, un regalo, alla persona che so che mentre sta leggendo questo post sarà felice, (visto che poverina stava aspettando da tanto tempo) e poi, se proprio ve la devo dire tutta, credetemi, è stata una scoperta davvero affascinante.

Esso è una vera e propria opera d’arte dell’architettura dell’età contemporanea.

Dopo essere giunta davanti ai due cancelli che ci sono, per ben tre volte (c’era sempre la messa e non si poteva disturbare), sono riuscita a farmi aprire da una suora, all’inizio un pò titubante e sulle sue, refrattaria a fornirmi qualche spiegazione, poi però, vedendomi davvero interessata, mi ha concesso qualche minuto del suo tempo.

Purtroppo non ci ha permesso di entrare nei locali delle monache, ne tanto meno di scattare foto, quindi perdonatemi se non avete immagini inerenti all’interno (tranne una o due che ho rubato) ma proprio non ce l’hanno concesso.

Quel giorno poi, essendo il giorno dell’Immacolata, erano probabilmente molto prese.

Quello che alla fine però mi ha raccontato, mi ha lasciato davvero di stucco.

Questa costruzione fu realizzata negli anni 1958-’59 dal famosissimo architetto contemporaneo Giò Ponti, per chi non lo sapesse, sarebbe colui che ha realizzato il “Pirellone” di Milano.

Quest’opera, si dice, sia stata per l’architetto la sua migliore riuscita.

Ci teneva tantissimo a costruire, prima di morire, un edificio sacro e religioso, era il sogno della sua vita e, infatti, appena la Madre Superiora dell’epoca, Jean Marie Bernard, lo chiamò, lui rispose immediatamente e affermativamente.

La bellezza e la particolarità del luogo, tolto il meraviglioso parco che lo circonda, ordinato e pulito, sta proprio nella chiesa.

Pensate, questo grandissimo designer l’ha realizzata in modo tale che, dall’entrata, guardando l’altare, intorno si vedono solo pareti, ma se dall’altare, si guardano i fedeli, si vedono solo vetrate immense e nemmeno un muro.

La suora, ridendo, confessa che, tenerle pulite è un vero sacrificio.

Questo perchè la pianta dell’edificio ha la forma come di un abete stilizzato, in cui la parte laterale dei rami rappresenta le vetrate e la parte inferiore degli stessi rami invece, i muri bianchi. Muri e vetri si alternano praticamente.

Ok, lo so, perdonatemi, non sono una giornalista di riviste di architettura. Credetemi però che è davvero uno spettacolo. Accade quindi che, chi ascolta la voce del Signore, non può venire distratto da nulla, mentre invece, chi la pronuncia, può espanderla a tutto il cosmo. Questo è il significato di tale forma. Tanta luce, tanta luminosità.

Inoltre sono stati sapientemente usati due colori fondamentali, il bianco e l’azzurro e c’è un perchè. Il bianco è il colore della Madonna, mentre l’azzurro è il colore della meditazione, essendo, l’ordine di queste suore, un ordine contemplativo. L’azzurro lo si può trovare anche nelle piastrelle rettangolari di ceramica di Faenza, completamente dipinte a mano, con pennellate orizzontali e sfumature blu e azzurro intenso, che rivestono tutta la sacrestia e il dormitorio delle monache. L’azzurro, in certi luoghi, non si era mai visto e dovettero stipulare una conferenza vera e propria per far accettare a tutti una tinta così originale. Solo il parquet della sala del coro è color legno chiaro ed è stato simpatico scoprire che, tale pavimento, apparteneva ad una pista da ballo che lo ha regalato a loro quando hanno costruito questa struttura. Esse poi, lo hanno levigato e reso lucido come uno specchio.

I due colori predominanti sono anche stati usati per realizzare le immagini della Via Crucis e il magnifico dipinto che descrive la storia e la vita del Profeta Elia. Stessa cosa per i due grandi dipinti che raffigurano i due fondatori di quest’ordine: San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila. Pensate che questi quadri sono stati degli esperimenti; si, perchè essendo stati fatti su ceramica e su ferro, non si sapeva come avrebbero reagito i colori, infatti, il velo di Santa Teresa, che doveva essere nero, è poi risultato viola.

Anche la Madre Superiora di oggi, suor Anna, è un architetto e ha contribuito all’allestimento di questa sua “casa” riprendendo anche la vita passata dell’ordine al quale appartiene.

Nel 1901, ad esempio, tutte le monache sono state mandate via dalla Francia per stabilirsi in questa vallata ma prima hanno subito tantissime persecuzioni religiose e vennero addirittura tenute prigioniere dentro a delle celle sotterranee. Ebbene, una di queste grate, originale dell’epoca, che racchiudeva le sue sorelle, Suor Anna l’ha voluta come oggetto d’arredamento e l’ha fatta posizionare sul presbiterio, proprio dietro l’altare. – Per non dimenticare – mi racconta la suora che ci ha fatto da Cicerone, spiegandomi anche come hanno sempre vissuto in povertà anni addietro, nonostante il lusso che si può riscontrare in questi locali.

Mi spiega infatti che Papa Pio XII ha vietato loro di chiedere l’elemosina. Possono ricevere le offerte ma, se vogliono guadagnare soldi, devono contribuire e non chiederli. E’ per questo che, grazie all’agrumeto dietro all’edificio, che curano con tanto amore, realizzano ottime marmellate. Di tutti i gusti ma, quella all’arancia, si dice sia la migliore. Queste confetture, vengono vendute nello spaccio del Convento e anche nei negozi della provincia, dai quali, queste suore tecnologiche, ricevono gli ordini tramite mail. Ridendo, ci spiega che si sono dovute adeguare ai tempi.

E’ parlando di tutto ciò che mi porta davanti all’affresco della Madonna, a grandezza naturale, che era un tempo rinchiuso nel corridoio delle loro celle. Hanno voluto trasportarlo dietro all’altare e metterlo in bella mostra, davanti a tutti i pellegrini, per omaggiare la madre di Gesù ringraziandola del miracolo concessogli. Infatti, nel Medio Evo, le Carmelitane si sono salvate dalla peste proprio grazie a Maria che le guidò fuori la pandemia e via dalla pestilenza.

Mentre racconta questi episodi, alla nostra suora si illuminano gli occhi chiari.

E’ piccolina, magra, il velo le arriva fino al fondoschiena ma si capisce che è un tipetto tosto.

Purtroppo non può trattenersi ancora con noi e quindi mi lascia ancora ammirare la sua chiesa ma, per non disturbare più di tanto, me ne vado salutandola e ringraziandola.

Lascio questo posto accogliente e ricco di storia, nonostante la modernità con il quale è stato costruito.

Questo monastero si trova in collina, prendendo la Via Padre Semeria che porta all’autostrada, e gode di una vista mozzafiato. Si affaccia sul mare e domina su tutta San Remo.

Ad aiutarmi a rompere il ghiaccio con la monaca che mi ha aperto, infatti, sono state proprio le musiche che giungevano fino lì, dal Luna Park sottostante ed è stato comico, entrare in un luogo, dove c’è scritto “silenzio” ovunque, accompagnata da musiche “tunz tunz“.

Saluto il Pastore Tedesco che mi abbaia dal cancello e me ne vado.

Quel luogo mi ha comunque regalato pace e mi ha fatto scoprire una tecnica dell’architettura che stupisce davvero.

Mi auguro di avervi portato in un altro bel posto anche oggi.

Vi mando un forte abbraccio a tutti ma, alla mia dolce amica Miss Fletcher, questa volta, un pò più stretto. Ciao, Pigmy.

M.