Le Fate lavandaie

Topi, guardate che oggi ve ne racconto una niente male, sono andata a scovare per voi una leggenda che sembra appartenere alla credenza popolare ligure, così come di altri popoli. Lo so che è una storia da brividi, ma sentite qua.

bosco valle argentina fiume

L’entroterra ligure, fatto di monti a picco sul mare, è bagnato da numerosi corsi d’acqua. Alcuni sottili rigagnoli, altri più gonfi e generosi, creano cascate, gole, anfratti suggestivi che non hanno fatto che alimentare la fantasia e il timor panico nei confronti di certi luoghi.

torrente argentina loreto

Vi ho parlato di alcuni di essi su questo mio blog e di come alcuni angoli di valle sembrino proprio ospitare le fate, pare di vederle sbucare da dietro le foglie, tra le onde dei laghetti montani e fra le pieghe degli alberi secolari.

torrente argentina molini di triora

Ebbene, ci sono spiritelli che accomunano la Liguria con la vicina (ma non troppo!) Sardegna e persino con la più lontana Irlanda, ci avreste mai creduto?

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Illustrazione di Arthur Rackham

Qui da noi non hanno nome, o per lo meno se ce l’hanno è a me sconosciuto, ma in Sardegna sono chiamate Pànas, in Irlanda sono le beansidhe (termine anglicizzato con banshee). Appaiono come lavandaie, con gli occhi spesso arrossati dal pianto… perché questa creatura fatata piange, piange da tempo immemore, riversando le sue lacrime nel corso d’acqua in cui lava i panni.

pozza d'acqua glori carpasio

Erano credute presagi nefasti di grande sventura, vederne una avrebbe significato morte certa. Nonostante abbiano caratteristiche molto simili tra loro, le fate liguri differiscono da quelle sarde e irlandesi per alcuni tratti.

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Illustrazione di Alan Lee tratta dal libro “Fate” di A. Lee e Brian Froud

Mentre le Panas sono fantasmi di madri decedute di parto e le banshee piangono dall’alba dei tempi per la prossima morte di uno dei membri del clan (o della famiglia) di cui sono protettrici, le fate dei fiumi nostrane preannunciano la morte degli uomini che malauguratamente capitano vicino a loro. Lavano i panni dal sangue immergendoli in acqua, qualche volta si lamentano per il peso della biancheria zuppa.

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L’uomo, allora, mosso a compassione, aiuta la fata travestita da giovane ed esile donna dalla pelle cerulea e dai capelli chiari, ma un incantesimo gli impedisce di fermarsi e continua a lavare finché le sue braccia mortali cedono e si spezzano fino a condurlo alla morte. Si dice compaiano in specifici momenti della giornata, e cioè al crepuscolo, quando la luce del giorno sta cedendo il passo alla notte, ma non è ancora tenebra pura. Questi frangenti erano considerati magici, talvolta pericolosi, da ogni popolazione antica: erano momenti in cui il cosiddetto “velo tra i mondi” si fa più sottile e le creature fatate, gli spiriti e gli elementali potevano essere visti dai mortali.

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Una reminiscenza di queste antiche credenze legate all’acqua è riscontrabile nella superstizione di probabile origine medievale che vedeva i lavatoi come luoghi in cui era più facile essere colpiti dal malocchio. Il lavatoio della Noce a Triora, per esempio, è uno di questi.

Quel che c’è di sicuro è che l’acqua ha sempre avuto una grande importanza per i popoli antichi. Ne ho già parlato in un altro articolo, perciò non mi dilungherò sull’argomento, ma una volta le fonti si credevano abitate da draghi (lo testimonierebbero alcuni toponimi liguri, come la Fonte Dragurina, sul versante del Monte Toraggio) o da esseri divini che le proteggevano.

laghetto carpasio

Ancora oggi se ne venerano le proprietà sacre e curative, tant’è che spesso nei luoghi in cui abito ci sono madonnine e santuari a vegliare su fiumi e sorgenti, poste lì anche per scacciare le paure umane e il timore reverenziale che spesso si accompagna a questi luoghi.

valle argentina torrente

Non vi ho spaventati troppo, vero? Dai, non siate fifoni, ché zampettare per valli e per monti resta sempre un piacere!

Vi saluto con un bacio da brivido e vi do appuntamento al prossimo articolo.

 

Dal Redentore alla Valle Arroscia

Ebbene si, come vi avevo preannunciato, ora che questa stupenda statua (art. Il Redentore) che vi ho mostrato qualche post fa l’abbiamo vista, possiamo tornarcene a casin casetta. Attenzione però! Non c’è solo il Redentore qui da ammirare, diamo un’occhiata in giro prima di lasciare questo luogo.

Ad esempio, possiamo vedere che è circondato da targhe di ogni sorta. Chi ringrazia qualcuno, chi ha voluto lasciare un ricordo, chi un semplice saluto. Messaggi scolpiti nell’ardesia, altri nell’ottone e uno addirittura con la foto del frate cappuccino, Gian Francesco Filippi, che amava questi luoghi più di ogni altra cosa al mondo. Ognuno, a modo suo, a voluto lasciare il segno. I più affezionati hanno creato vere e proprie opere d’arte.

Vicino a noi c’è anche una minuscola chiesetta. Al suo interno possiamo trovare la carinissima poesia dedicata all’amico viandante, quindi ad ognuno di noi, e un grande quaderno, dotato di penne, sul quale chiunque può scrivere un pensiero e dire perciò “io ci sono stato!”.

Tra le sacre immagini della Madonna e suo figlio, è anche molto carino vedere che i pellegrini, passati di lì, hanno lasciato in parecchi, oggetti personali. Un cappello con visiera, una borsa, una collanina, una borraccia, uno stemma… insomma, una tappa da fare obbligatoriamente. Diamo ancora un’occhiata al panorama, è un dispiacere andarsene.

Notiamo che non vediamo solo Verdeggia ma anche Realdo, un altro piccolo paesetto della Valle Argentina, contornato da una vallata indescrivibile. Bene, è davvero arrivato il momento di andare. Salutiamo il gigante di bronzo. Lui non si volta, continua a guardare innanzi a sè, i suoi monti, i suoi prati, il suo cielo, accecato dal sole.

Per un attimo, ci sentiamo anche noi possenti e dominanti come lui. Dobbiamo percorrere qualche metro a piedi, l’auto, abbiamo dovuto lasciarla all’inizio della piccola stradina, ma non è un male, possiamo ammirare meglio il paesaggio che ci circonda, guardarci in giro e respirare aria pulita.

E’ percorrendo questo sentiero che troviamo qualche, cosiddetto da noi, “masin”, funghi non particolarmente gustosi a dire il vero, ma per nulla velenosi. Grandi, puliti, color dell’avorio.

Saliamo in macchina e facciamo manovra pronti alla discesa; guardate quanta strada abbiamo fatto! Da qui si può vedere tutta. E’ uno spettacolo! Volendo, potremmo percorrere a piedi il Passo del Tanarello per circa tre quarti d’ora, ma non è il caso oggi di stancare le nostre zampette, useremo la comodità.

Andremo giù per il più conosciuto Col di Nava e, strada facendo, sorpassato questo splendido valico montano, ci ritroveremo ad attraversare la Valle Impero, che dà il nome alla provincia di Imperia e la Valle Arroscia che prende il nome dall’omonimo fiume.

E’ quest’ultima valle ad essere così vasta da comprendere anche alcuni comuni della provincia di Savona e, sarà in lei, che ritroveremo i nostri ulivi che qui, data l’altura, non vediamo più. Insomma, un altro bel viaggetto ci attende. Partiamo.

Undici corvi volano sulle nostre teste, mamma mia… erano meglio i falchi incontrati all’andata! Bhè, poverini i corvetti, hanno diritto anche loro. Non soffermatevi però a guardare uccelli che vi svolazzano intorno, capisco che la natura qui sia magnifica ma state attenti alla strada che dovete percorrere. Sono vie bellissime ma senza protezione, quindi mi raccomando, guidate con prudenza senza fare i fenomeni altrimenti, ecco cosa può capitarvi.

Mi auguro solo che al poveretto, il fattaccio, non sia successo di notte. Già c’è poca gente di giorno in questi luoghi, figuriamoci nelle ore notturne! Tra l’altro, gli è andata bene, anche se ha distrutto la macchina, in quanto, ci sono punti in cui il dirupo è veramente profondo e a strapiombo, anche se devo ammettere che una bella botta l’ha presa anche lui. L’auto, come potete vedere, è completamente distrutta. Rammaricati, continuiamo la nostra gita.

Il primo paese che incontriamo è San Bernardo di Mendatica e vi posto la foto di una fontanella carinissima dedicata a “u can de Felipo”, ossia “il cane di Filippo”, chissà, forse un cane particolarmente coraggioso o con qualche straordinaria avventura alle spalle. Non c’è anima viva, non posso informarmi.

Se siamo qui a San Bernardo, significa che siamo già scesi di parecchio, siamo esattamente a 1263 metri. E’ intorno a questo paese che regnano i sentieri della transumanza e scorre il Tanarello, nome del passo che vi spiegavo prima. Tanarello perchè, ovviamente, affluente del Tanaro. E’ da qui che giungiamo al cuore di questo itinerario: Mendatica. E’ Mendatica ad essere il paese con più storia, più turismo, più eventi e monumenti.

Il suo nome deriva da “Mendéiga” che in dialetto ligure significa “Manda acqua”, è un paese infatti, ricco di sorgenti ed è proprio nelle sue vicinanze che, sempre il Tanarello, forma cascate tutte da guardare, le famose cascate d’Arroscia.

Siamo vicini a Pornassio e a Montegrosso Pian del Latte e tutti insieme, fecero parte del Regno di Sardegna dopo la caduta di Napoleone Bonaparte.

Mendatica, circondata da castagni e noccioli, si presenta come un paese immerso nel verde mentre, in autunno, soprattutto nel periodo di ottobre, offre caldi colori adatti ai pittori migliori.

Buonissimo è il miele che viene prodotto in questi luoghi e da non perdere il laboratorio naturalistico e il museo “Civiltà delle Malghe”. Questo paesino, chiamato, della “cucina bianca” è inoltre arricchito da splendidi mulini che sembrano finti tanto sono belli (quasi, quasi, mi trasferisco), ognuno con la sua ruota e rigorosamente fatti tutti di pietra.

Il monumento principale di Mendatica è la chiesa di Santa Margherita ed è da lì, che se prendiamo la mulattiera dietro a questo santuario, possiamo arrivare sul ponte dei Gruppin e inchinarci dinanzi ad un panorama mozzafiato, in un territorio già molto più alpino rispetto a quello intorno al paese, come vi spiegavo più verdeggiante.

Abbandoniamo Mendatica, a salutarci, per ultimo, il Parco delle Canalette, un parco attrezzato per pic-nic e brevi soste all’ombra. Eccoci nuovamente sotto un caldo sole, ed ecco rispuntare i nostri amici ulivi, compagni anche della mia valle.

La zona è meno umida e olive e uva nascono abbondantemente. Se non erro, a regnare qui è l’ormeasco, uva che produce il vino della zona. Tra qualche chilometro arriveremo al mare e ai più sensibili fischieranno un pò le orecchie. Attraversiamo i monti di Pornassio, paese caro a Genova per via della sua posizione ottima per il punto di vista strategico.

E’ da li infatti, servendosi di lui, che il nostro capoluogo può tenere sotto controllo tutti i suoi domini, sia liguri che piemontesi, fin dal ‘600.

Passato anche lui, eccoci arrivare alla cittadina di Pieve di Teco, paese al quale fanno riferimento tutti gli altri più piccoli che vi ho citato sopra e dire che dall’800 a oggi ha subito anche lui una negativa evoluzione demografica.

Il santuario della Madonna dei Fanghi e il convento di San Francesco, sono i suoi monumenti più famosi, peccato però non averli potuti osservare da vicino, come vedete ero in auto e la foto di questa cittadina ve l’ho scattata di sfuggita.

Riparerò, per questa volta accontentatevi dai!

Anche questa passeggiata, più breve di quella all’andata, è giunta al termine e io, me ne sono ritornata nella mia Valle che stava per diventare gelosa, pensa di essere la più bella e per me lo è, ma devo riconoscere che, intorno a lei, ci sono luoghi che meritano davvero anche solo una sbirciatina.

Un caro saluto a tutti Pigmy.

M.