Particolari emozioni tra i ruderi di Drondo Inferiore

Che meraviglia! Che meraviglia! Oggi Topi vi porto in un luogo che considero fantastico!

Molte volte vi chiedo di seguirmi in zone della Valle che raccontano di una vita passata che non esiste più. Spesso si tratta di avvenimenti militari, leggende legate alla stregoneria, il significativo operato di personaggi religiosi ma, oggi, tutto questo non c’entra.

Non c’entra perché questa volta andiamo a vivere “semplicemente” quella che era la vita in Valle Argentina fino agli anni del dopoguerra. Una vita fatta di contadini, terrazzamenti, la quotidianità di un tempo, il sole, le case di pietra…

E che sensazioni indescrivibili ci aspettano!

Credetemi… non posso non immaginare una donna, con la sua pitocca scura e u fudà (il grembiule) infornare del buon pane nel forno comune, non posso non immaginare un uomo uscire al mattino per dirigersi nei suoi campi; piedi che affondano in questo tappeto di foglie secche e ricciolute, sacchi di patate riposti nelle caselle, grida di richiamo da una fascia all’altra che echeggiano per tutto il fondovalle.

E’ impossibile non fantasticar su tutto questo e sapete perché? Perché andiamo a Drondo Inferiore cari amici! E questo significa fare un salto in un passato che poche volte si mostra così evidente.

Drondo Inferiore, oggi completamente disabitato e riconoscibile solo grazie ai ruderi rimanenti, è una piccola frazione di Creppo che sorge nei pressi delle pendici del Monte Gerbonte.

Siamo in Alta Valle Argentina e il termine – Inferiore – ci fa capire che sicuramente c’è anche una parte più sopra chiamata – Superiore – e infatti è proprio così. Di quest’ultima zona resta però davvero pochissimo, per questo vi porto prima qui, in zona Sottana. L’altro Drondo ve lo farò conoscere un’altra volta.

Per arrivare in questo nucleo fantasma serve prendere il sentiero che scende dalla strada principale subito dopo Creppo oppure, proprio da Creppo, prendere la mulattiera che và verso il torrente e si congiunge poi con questa stradina in mezzo al bosco nella quale camminiamo oggi.

Si tratta di un bosco meraviglioso. Faggi, Noccioli e Abeti mi circondano ma sono, senza ombra di dubbio, i maestosi Castagni secolari ad attirare maggiormente la mia attenzione. Non bastano cinque uomini per abbracciarli sapete?

Sì, alcuni sono davvero enormi e rinfrescati da Muschio e Felci.

Altri invece sono molto vecchi, secchi e sono stati attaccati da funghi e parassiti. Sulla loro corteccia generosa zampettano insetti di ogni tipo e parecchi uccelli e roditori hanno costruito la loro tana.

E’ un bosco magico. La Primavera esulta attraverso Violette, Anemoni e Primule e il sentiero è pulito e pianeggiante. Adatto a chiunque.

Tutti quegli alberi sembrano schiere di soldatini messi in fila e, grazie a diverse indicazioni, capisco che da qui posso dirigermi in diversi luoghi.

Potrei andare sulla vetta del Gerbonte o a Borniga, potrei tornare verso Creppo e ammirare il suo ponte antico oppure, come ho detto, proseguire per Drondo attraversando il Rio Infernetto che mi accompagna strada facendo.

Il suono delle sue acque che scorrono sembra a volte silenziato dal canto degli uccelli vivaci che vivono in questa fitta macchia e non stanno zitti un secondo!

Santa Topa, non riesco neanche a scrivere con il baccano che fanno… Vabbè, tanto lo sanno che li adoro e se ne approfittano…

Picchi, Cince, Ghiandaie e Fringuelli se la cantano allegri che è un piacere ma, più avanti, risalendo verso i confini a Nord della Valle, lasceranno il posto a Gheppi, Poiane, Falchi e persino ai Bianconi nella giusta stagione.

Anche Drondo ha un suo ponte e devo attraversarlo per arrivare alle case ma, qui, una sosta è d’obbligo.

L’acqua che scorre sotto di lui è quieta e passa tra grandi massi brillando sotto il sole.

E’ un ponte in pietra così come le fasce che posso iniziare a intravedere.

L’edicola di una Madonnina avvisa che si sta giungendo a un centro abitato dove, un tempo, poteva ricevere preghiere da chi, ogni dì, le passava davanti.

Anche in muretti che racchiudono queste coltivazioni sono in pietra e, immediatamente, mi faccio domande sulla fatica che è stata consumata per poter avere da mangiare.

Passo sopra a quell’arco sospeso nel vuoto. Ora il sentiero si modifica leggermente.

Dei grossi gradini di pietre e radici mi conducono un po’ più su e la vista di alcuni vecchi ripari mi fa procedere con sempre più entusiasmo. Ci sono quasi.

Attorno a me il verde nuovo gareggia con il marrone dell’autunno scorso che l’inverno non è riuscito a spegnere.

Salgo ancora una rampa, sorpasso qualche tronco sceso che forma portali e…. eccomi!

Le prime case di Drondo si mostrano davanti a me sul ciglio di un corridoio calpestato chissà quante volte, in passato, da chi qui viveva.

Alcune porte sono aperte e io sono elettrizzata.

Ci sono delle inferriate alle finestre, alle poche rimaste, e molti oggetti dentro e fuori queste costruzioni.

Pare che qui la gente abbia vissuto fino alla Seconda Guerra Mondiale ma la presenza di pali della luce e cassette delle lettere indicano anni decisamente più recenti.

Anche la fantasia dei rivestimenti sembra la classica degli anni ’70.

<< E’ permesso?! >> domando a quello che sembra essere il nulla ad un primo sguardo. Non posso entrare perché quelle dimore sono parecchio distrutte e malconce ma posso affacciarmi ai loro usci e non vorrei dar fastidio a Pipistrelli o Merli che si sono appropriati di queste costruzioni.

Letti in legno, a una piazza e mezza come si usava una volta… damigiane, piastrelle, scarpe, armadietti dei medicinali… c’è di tutto e c’è anche tanta tanta natura che adesso ha preso il sopravvento.

L’edera si aggrappa a quei muri con tenacia mostrando tinte vivide e venuzze quasi fosforescenti.

Ma da chi sono state toccate quelle pietre prima del suo nascere? Da un anziano che si appoggiava per riposare prima di riprendere il suo cammino? Da un bimbo che giocava a nascondino con i suoi compagni? Da una signora che ci sbatteva contro la sua ramazza per pulirla?

Grandi alberi sono nati all’interno di questi bareghi (ruderi) e hanno distrutto intere pareti.

I Rovi si sono presi la briga di riattivare il DNA di quel terreno indebolendo così le strutture dell’uomo e la maggior parte dei tetti sono crollati mostrando grosse travi di legno che sembrano in bilico.

Mi faccio largo in mezzo a quella vegetazione e salgo scalini tra le case.

Dove una volta c’erano finestre ora ci sono semplici aperture dalle quali i raggi del sole non faticano ad entrare.

Avrete notato che vi ho nominato il sole già diverse volte e adesso vi spiego il perchè.

Una delle cose che più mi ha rapita, pur conoscendo bene l’intelligenza dei miei predecessori, è proprio osservare come i borghi venivano costruiti in base alla presenza della Grande Stella.

Prima e dopo l’abitato di Drondo il bosco è fitto e la strada curva verso fondovalle costeggiando il rio.

Tutto è ombroso, umido… alte rocce delineano il passaggio di piccole cascatelle, il ghiaccio in certi punti persiste… ma non qui a Drondo, non qui dove sorgono le case che vengono baciate dai raggi del sole per lungo tempo durante la giornata.

Eh… mica stupidi i nostri avi!

Continuo a salire tra quelle rovine e giungo a quella che era la costruzione più importante di un’intera borgata: il Forno.

E’ piccolo ma splendido. Realizzato con mattoni pieni e cemento.

Oggi alcune piante lo stanno ricoprendo ma lui continua ad esistere perfetto e intatto.

Salendo per la stradina che passa dietro a questo forno si possono raggiungere Drondo Superiore e Borniga mentre continuando per il sentiero si arriva sulle rive del Rio Infernetto.

Diversi terrazzamenti pianeggianti, un tempo coltivati, mi accolgono. Ci sono parecchi alberi anche qui. Le punte più tenere dei loro piccoli rami appaiono rosicchiate, probabilmente sono tanti i Caprioli che frequentano questo paradiso.

Oltrepassando quelli che erano gli orti di Drondo giungo al rio e alzando gli occhi al cielo posso ammirare le alte falesie della mia Valle. Sono spettacolari e abitate da numerosi Camosci.

Avanzo ancora e, dopo essere scesa, adesso risalgo. Mi guardo intorno, sono nel bel mezzo di un territorio incredibilmente selvaggio. Il Gerbonte si staglia davanti a me, ci sono delle grotte tra le rocce nude e poi ginestre, foglie dorate, sassi bianchi.

Starei qui per ore ma, per oggi, il mio topotour è giunto al termine. Devo far ritorno in tana.

Girandomi per tornare posso vedere Creppo. Da qui non l’avevo mai visto. E’ bellissimo. Una manciata di case sul crinale di una montagna.

Non è lontano. Posso raggiungerlo in poco tempo.

E allora, con un goccio di dispiacere, lascio questo luogo antico e disabitato ma ancora pieno di vita. Una vita sottile da percepire.

Grazie Drondo per le belle emozioni che mi hai regalato nonostante il silenzio (assai apprezzato) che ti avvolge.

Però voi adesso non restate fermi a fare i patetici, dovete prepararvi per la prossima passeggiata che percorreremo a breve.

Su su! Forza… andate a sistemarvi che arrivo e partiamo!

Squit!

Nel Regno di ghiaccio – tra Garlenda e il Saccarello

Oggi, cari Topi, non vi porterò a fare una semplice escursione ma vi condurrò, assieme a me, all’interno di una fiaba. Una fiaba che ci regala la nostra splendida Valle. Una fiaba che ha inizio presso il Passo di Garlenda dove un potente Mago, attraverso un incantesimo, ha ghiacciato un intero Regno.

Tornerà a brillare il sole diradando questa fitta coltre di nebbia?

Il gelo lascerà il posto alla primavera?

Scopriamolo insieme prendendo come spunto un fenomeno meteorologico che crea atmosfere incredibili per realizzare una fiaba che farebbe invidia persino ai fratelli Grimm attraverso la sua scenografia.

Dal Passo della Guardia, sopra l’abitato di Triora e oltre Gorda, intraprendiamo il sentiero in salita, un po’ faticoso da percorrere per chi non è abituato a camminare, e ci dirigiamo verso il Passo di Garlenda salendo verso creste che fan da confine tra la Valle Argentina e la Valle Arroscia.

Abbiamo attraversato anche il Bosco del Pellegrino che, avvolto da una spessa bruma, appare come un luogo incantato della Terra di Mezzo. Alcuni personaggi del Piccolo Popolo sono sicuramente nascosti qui da qualche parte, nel sottobosco di questa macchia.

Ma andiamo avanti, le vette ci aspettano e iniziamo ad arrampicarci per il sentiero che vi ho citato, il quale, permette di raggiungere molti altri luoghi oltre alla zona di Garlenda.

L’umidità la fa da padrona, tutto gocciola attraverso stille trasparenti che bagnano e rinfrescano l’aria. Sono le uniche forme di vita che si permettono di fare rumore.

Qualche piccola pigna giace su quell’erba tagliata dalla stradina. E’ un’erba che ancora non ha mutato il suo colore e appare riarsa dal freddo che padroneggia da diversi mesi.

Il silenzio si fa sempre più pesante, più si sale e più le gocce si zittiscono costrette a immobilizzarsi legate da temperature assai basse. Non possono più lasciarsi andare nel vuoto tuffandosi a terra, bensì restano ghiacciate attaccate ad ogni cosa.

Tutto si è trasformato all’improvviso. Tutto è immerso nel ghiaccio. Tutto è sospeso, come in attesa, in un luogo senza tempo.

La montagna sulla quale mi sto arrampicando mostra ora una barba bianca che prima non aveva.

Ogni stelo d’erba è ricoperto da minuscoli fiocchi gelidi e candidi. Trasparenti coperte, lucide e ghiacciate, abbracciano bacche e rametti.

Sui massi, una fredda corazza lascia muovere dell’acqua tra se stessa e lo scoglio. La si vede oltre quello scudo ed è l’unico movimento percepito in mezzo a quella natura che appare totalmente immobile.

Davvero pochi i segni di vegetazione se non dati da una pianta chiamata con un nome decisamente appropriato in situazioni come questa: Semprevivo.

Su Cima Garlenda, persino le rovine delle vecchie costruzioni militari sono ricoperte dalla neve. Proprio così. Qui c’è anche la neve. Tutto è bianco. Assolutamente bianco.

I resti delle vecchie casermette si vedono appena vista la foschia. Le pietre grigie sembrano più scure del solito in mezzo a tutto questo candore.

So esserci il Monte Frontè dinanzi a me ma non posso vederlo, la nebbia è troppa e io devo dirigermi verso la parte opposta. La mia meta è il Monte Saccarello.

E’ proprio grazie a questa grande quantità di nebbia che si può ammirare la galaverna, precipitazione atmosferica che vi spiegai in questo post https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2020/03/13/lincantesimo-della-galaverna/

I rami spogli degli alberi sono pieni di stalattiti ghiacciate costrette dal freddo ad una posizione orizzontale. Sono le gocce che hanno dovuto seguire obbligatoriamente la forza importante del vento e ora hanno reso quell’ambiente totalmente surreale.

Non è possibile che sia vero. Pare tutto così assurdo.

Quell’aria mi taglia il viso ma sono ben attrezzata e posso andare avanti. C’è l’obbligo di ramponi, al di sotto dei fiocchi farinosi si toccano lastre scivolosissime.

Avanzo, camminando in cresta, fino a raggiungere il Rifugio Sanremo ovviamente blindato in questa stagione. So di essere a 2.054 mt s.l.m. e riesco a vedere la struttura solo avvicinandomi parecchio a lei. Una breve sosta e riparto.

Alla mia sinistra posso ora captare e a volte vedere il vuoto dell’abisso di fianco a me. Devo fare attenzione a dove metto le zampe mantenendomi a destra. Mi sto dirigendo verso il Saccarello e, laggiù in fondo, quindi, alla fine di questo lungo dirupo, ci sono i paesi di Realdo e Verdeggia.

Lunghi tratti di bianco e silenzio assoluto mi aspettano prima di giungere al secondo Rifugio.

Si tratta del Rifugio La Terza decisamente più grande di quello precedente. Ora sono a 2.060 mt s.l.m. non è cambiato molto rispetto a prima, come altitudine, ma cambierà da adesso. La mia meta è in salita.

Riparto. E’ faticoso. L’aria e il terreno non mi aiutano. Il freddo neanche. Ma devo farcela per sciogliere l’incantesimo e continuo decisa. Non vedo nulla attorno a me. Sono diverse ore che i miei occhi osservano solo bianco… bianco… bianco….

Mi fermo, riprendo fiato, riposo ma senza mai un ripensamento e dopo altri passi… c’è una figura laggiù in fondo. Un’ombra scura si staglia leggermente in quella foschia.

Sono arrivata. La statua del Redentore si innalza in tutta la sua bellezza. La galaverna ha colpito anche lei, in modo significativo, donandole un aspetto incredibilmente affascinante.

Ce l’ho fatta. Non posso raggiungere la vetta del Saccarello, non ho più tempo, devo fare ritorno perché la montagna e la natura hanno i loro tempi e devo rispettarli ma sono comunque giunta dove volevo arrivare.

Mi preparo a tornare indietro e percorro diversi metri quando una potente folata di vento mi obbliga a girarmi verso l’altra sponda della Valle Argentina.

I miei occhi si spalancano dall’entusiasmo. Le nuvole si diradano permettendomi di vedere una bellezza infinita che non ha eguali e non mi consente di proferir parola.

Vedo il Monte Gerbonte, il Grai e tutte le altre montagne alle quali sono molto affezionata. Il cielo si tinge di azzurro e alcuni raggi del sole penetrano prepotentemente tra quelle nubi scaldandomi le guance. Ora vedo. Ora posso vedere. E non ho parole per descrivere tanta meraviglia consentita al mio sguardo.

Mi giro indietro, vedo di nuovo il Redentore che da poco ho salutato. Eccolo. Ecco dov’ero poc’anzi. Mi giro a destra, sono euforica. Riesco ad ammirare persino la Valle Arroscia e il suo distendersi tra quei monti.

Davanti a me, adesso, il Monte Frontè è ben visibile e lo sono anche Realdo e Verdeggia ora.

Alcuni pezzetti di ghiaccio si staccano da quelle piante appesantite e io sono circondata dalla bellezza.

Che splendore, non riesco neanche a descriverlo. Ne è valsa davvero la pena.

Approfitto di quel calore concessomi dalla luce solare e mi dirigo nuovamente verso Garlenda per far ritorno. Penso proprio di aver annullato l’incantesimo che ha trasformato questi luoghi in un Regno di Ghiaccio.

Penso di aver sconfitto il potente Mago. Sorrido.

Sorrido come se davvero vivessi una favola e faccio ritorno verso la tana.

Scendendo per il sentiero che mi riporterà verso Passo della Guardia mi trovo di nuovo in mezzo ad una natura che non è più gelata.

Alcuni Camosci si godono il sole sdraiati sui pascoli sopra Rocca Barbone e nei monti attorno. Qualche Cincia svolazza felice da un albero all’altro e c’è persino qualche insetto a dare segni di vita.

Una vita straordinaria che mi godo soffermandomi un secondo ad ammirarla e respirarla. Ho forse vissuto un sogno?

Ce l’ho fatta, non mi resta che lasciare questo posto trattenendolo nel mio cuore e attendere la prossima magia.

Che ne dite Topi? Vi è piaciuta questa fiaba? Un pizzico di fantasia in un tour che ho intrapreso realmente e che consiglio solo ad esperti perché, altrimenti, si può patire parecchio viste le condizioni avverse che ho incontrato. Non avventuratevi mai se non siete preparati o non avete qualcuno che sappia guidarvi davvero.

Non mi resta che salutarvi. Vado a preparare una nuova storia.

Un bacio gelido a voi!

Il Ponte di Glori tra abbracci silenziosi

I raggi del sole tardano a scaldare in questa mattina di febbraio e la brina, sulle piccole foglie dall’animo placido, può donare il suo abbraccio più a lungo.

Ne ricopre i bordi, disegnando asterischi ghiacciati che creano un contrasto con il colore della natura ancora addormentata.

L’erba è schiacciata dal gelo come perduta, in realtà a riposo.

Cammino per questo piccolo sentiero indicatomi da una vecchia casa abbandonata a bordo strada e continuo a guardare quella bellezza che scricchiola sotto alle mie zampe. E’ proprio vero che la meraviglia si nasconde nelle piccole cose.

Starei ore, incantata, ad osservare quei bianchi e freddi fiocchetti ricoprire ancora tutto il mio mondo e so di avere poco tempo anche se il sole non si è ancora alzato nel cielo.

Il sentiero è davvero breve e pulito. Mi condurrà a un ponte conosciuto come “Il Ponte di Glori” perché si trova proprio sotto a questo paese del quale vi parlai qui https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2012/03/25/glori-un-mucchietto-di-case/

Il barego (casone-rudere) è appena prima questo ponte che sto cercando. E’ fatto completamente in pietra e, al posto di porta e finestre, ora ha delle aperture che permettono di vederne il nudo interno.

Mi trovo per la strada che sale per la Valle conosciuta come “la strada di sotto”, cioè la via che sarebbe dovuta essere ricoperta dalla diga non più realizzata. Questa vecchia struttura la si vede molto bene sotto strada, a sinistra (salendo).

La natura si è impossessata di lei dentro e attorno.

Mentre la guardo posso già sentire lo scrosciare dell’acqua poco distante da me. E’ potente e la sua voce riecheggia colpendo le alte rocce che formano il canale del suo passaggio.

Sono rocce lisce alcune, altre ruvide mostrano strie in rilievo. Sono grigio chiaro, a tratti ricoperte da un muschio che mostra varie tonalità di verde.

Anche quello di questa tenera erbetta minuscola, che sembra una moquette, mi pare un abbraccio stretto verso quelle grandi pietre.

In certi punti, le rocce, formano dei veri muraglioni ed è proprio nel punto in cui tali pareti si alzano molto che sorge il ponte.

Posso già intravedere, tra la vegetazione, il suo esserci e gli spruzzi bianchi dell’acqua sotto di lui.

Sul ponte non ci sono muretti a protezione e nemmeno staccionate.

Occorre non sporgersi troppo, è abbastanza altino e sotto scorre il Torrente Argentina in tutto il suo splendore scontrando i massi e formando pozze dove Trote e Gamberi di Fiume trovano dimora.

Sembrano lagune in miniatura. Quanta vita celano là sotto.

E’ possibile passare su questa antica costruzione e raggiungere l’altra parte che mostra un altro sentiero ma permette di raggiungere anche scogli enormi dai quali si ha una bella vista sull’intero arco in pietra che forma quello che oggi voglio ammirare.

In realtà gli archi sono due ma uno è più piccolo, da un lato. L’altro invece, sostiene l’intera struttura centrale.

Il fiume scorre veloce ma attorno al ponte la natura è quieta.

Nonostante la fredda stagione, qualche piccolo accenno di primavera prova a spuntare e, ora che il sole si è alzato e batte forte su quelle rocce, si sta d’incanto.

Tenere e minute foglie dal verde sgargiante spiccano in mezzo a quelle sfumature spente.

Solo gli alberi che racchiudono il percorso offrono zone d’ombra ed è proprio qui, in questo piccolo boschetto, che noto l’abbraccio più bello che mi sia capitato di vedere oggi. Quello tra due alberi che sembrano ballare il tango. E con tanto di casquet!

Mi sposto per osservare quella realizzazione storica da un’altra prospettiva cercando di distogliere lo sguardo da quelle piante romantiche.

Si tratta di un ponte medievale che permetteva lunghe passeggiate sulle sponde opposte e sui monti. Monti che donavano lavoro ma anche frutti e la possibilità di costruire dimore che venivano realizzate in quella macchia.

E’ bellissimo stare qui. Seppur sono vicina alla strada che passa di sotto, per raggiungere da Taggia – Molini di Triora, non si sente volare una mosca e tutto offre un’atmosfera onirica.

Non sono in grado di affermare se questo ponte abbia bisogno di un intervento di restauro. Di certo, guardandolo dal di sotto, pare più solido e più in buone condizioni rispetto a molti altri. E’ facile confonderlo con quello di Agaggio, molto più antico e più malconcio, ma secondo le mie fonti, quello di Glori, è proprio questo.

Vi mando un abbraccio quindi, per restare in tema, anziché un bacio, e vi aspetto per il prossimo tour!

Accanto al Zimun per il Sentiero dei Piumisti

Il sentiero che facciamo oggi, chiamato “Sentiero dei Piumisti” è un anello che tocca la zona oltre il Bosco del Pellegrino, chiamata “I Cubi”, attraversa il Passo della Guardia, arriva al Ciotto de e Giaie per il Colle del Garezzo e poi scende, permettendoci di toccare U Zimun, Cà Botexina, Cà Gianca e tornare ai Cubi.

Naturalmente lo si può percorrere anche all’inverso, essendo appunto un anello, ma ora cerchiamo di vedere bene, tappa per tappa, questi luoghi magnifici che regala la mia Valle e che forse non avete ancora visto.

Oltrepasseremo ruscelli, saremo circondati da monti importanti, passeremo sotto a conifere di varie specie e noteremo come, questo bel percorso, non è assolutamente difficile o impervio e quindi adatto a tutti nel suo dolce saliscendi.

Innanzi tutto serve sapere che, in Valle, si chiama “I Cubi” quel luogo che, poco prima Passo della Guardia, è dotato di tavoli, panchine e barbecue per una sosta rilassante in mezzo alle montagne. Naturalmente quando non sono ricoperti di neve.

Da qui si parte verso il bivio Guardia/Collardente e, dalla Guardia, si prosegue per il Colle del Garezzo non senza prima lasciarci incantare dalla bellezza di Rocca Barbone, vestita di bianca bambagia, e che offre uno spettacolo meraviglioso.

All’incirca al di sotto del Monte Frontè, in un’apertura tra i monti chiamata Ciotto de e Giaie (Conca dei fiumi), si intravede un sentiero che scende lato mare e conduce a una montagnola tonda dal cocuzzolo fatto a fungo.

Si tratta di U Zimun (il Cimone) un piccolo monte che sovrasta il Poggio di Goina sotto di noi.

Prima di intraprendere questo cammino, che si srotola tra pascoli incontaminati, ora ricoperti di neve, è assolutamente doveroso fermarsi e osservare il panorama.

Dal Tunnel del Garezzo, che lo si distingue come un buco nero tra i monti, si possono riconoscere Cima dell’Ortica, Monte Bussana, Cima Donzella, il Passo della Mezzaluna e dietro di lui Pizzo Penna, Monte Arborea e Carmo dei Brocchi fino ad arrivare con lo sguardo al Monte Faudo che resta esattamente davanti al mare.

Spostandoci con gli occhi ancora un poco verso destra possiamo vedere anche Monte Bignone e il Monte Pellegrino del quale abbiamo toccato le pendici salendo.

Del secondo, possiamo distinguere chiaramente i molti alberi che lo ricoprono.

Dopo aver ammirato per bene quel panorama e aver goduto della presenza di Aquile, Camosci, Gracchi Alpini e Corvi Imperiali attorno a noi possiamo inoltrarci per il sentiero protagonista di questo articolo.

Intanto quei volatili e gli ungulati non si spostano.

Continuano a rimanerci attorno. E’ bellissimo.

Iniziamo a scendere quindi e giungiamo subito ad una piccola minuscola baita in pietra e legno, un rifugio privato con tanto di recinto in legno davvero caratteristico.

Lo sorpassiamo e continuiamo a scendere fino ad arrivare al Zimun che sembra un muffin ricoperto di zucchero a velo.

Svoltiamo a destra e proseguiamo per quella stradina ben delineata che, a tratti, taglia prati e radure per poi inserirsi tra rocce e radi boschetti di conifere.

Si toccano due Poggi ben conosciuti, prima Cà Botexina e poi Cà Gianca.

Durante il tragitto si passa nell’acqua fredda dei ruscelli e sotto ai grandi Abeti scuri che, di tanto in tanto, scrollano la neve dai loro rami aiutati dal vento.

Le loro fronde sono come affaticate.

Qui è tutto surreale. Verso i monti siamo protetti dalle pareti di terra e di roccia.

Par di essere dentro a un contenitore trasparente dall’atmosfera inimmaginabile.

La foschia tenta di abbassarsi con forza creando banchi spessi e, appoggiandosi alle creste che stiamo scavalcando, riesce bene nel suo intento.

Attorno, quindi, l’ambiente si fa bigio e affascinante, quasi mistico. Il silenzio è così assoluto da sembrare pesante.

Gli arbusti spogli sembrano scheletri che si stagliano tra le nubi basse, intenti in un’ascesa contemplativa verso il cielo.

In questo periodo dell’anno non ci sono fiori e nemmeno farfalle. Non ci sono colori e neanche rumori ma… quel mondo continua ad essere il mio mondo preferito. È assolutamente perfetto. È come deve essere. Sono in totale connessione con lui e mi sento io stessa natura.

Diverso gocce di neve sciolta si tuffano in picchiata verso il suolo.

Qualche secca spiga, colta di sorpresa da quei fiocchi di ghiaccio, è rimasta immobile come se per lei il tempo si fosse fermato e alcuni ciuffi d’erba sono gli unici a tingere, di un arancione bruciato, tutto quel perlato monotono.

Da qui si può vedere il sentiero del Garezzo sopra di noi.

Continuiamo accompagnati dal battito di quel cuore attutito da nebbia e ovatta. Tante le curve ma poche salite. Un sentiero semplice ma stupendo.

L’unico pezzo più a “rampa” è la fine, quando si giunge nuovamente ai Cubi e l’animo e pieno di gioia colta strada facendo.

Una passeggiata da fare e ricordare e che mi auguro vi sia piaciuta.

Vi mando un bacio tra la bruma ma vi giungerà.

Alla prossima Topi!

Ad Abenin, nel tempo dei lupi

Ah, topi… che terra, la mia! Una terra di artisti, di anime sensibili che hanno prodotto capolavori più o meno conosciuti. La Valle Argentina che da tempo mi impegno a farvi conoscere è stata prediletta come sfondo perfetto per varie ambientazioni, sono diversi gli scrittori che l’hanno immortalata nelle pagine uscite dalla loro penna. Calvino, Biamonti, Montale… ormai li conoscete. Ma ce n’è uno ben più vicino, nostro contemporaneo, che ha saputo descrivere certe zone della Valle e certe vicende in un modo così particolare e vivido da farmi venire un fremito dal cuore alla punta della coda!

Sto parlando di Giacomo Revelli, autore taggese del libro “Nel tempo dei lupi. Una storia al confine”. Be’, credetemi se vi dico che vale la pena di leggerlo.

Nel tempo dei lupi - Giacomo Revelli

Ambientato nei dintorni di Realdo, a fare da sfondo alle vicende che vedono Guido Valperga come protagonista c’è lei, la natura in tutta la sua potente bellezza, la stessa che elogio sempre nei miei articoli. Ma oggi non voglio essere io a parlare, vorrei che vedeste Borniga, Abenìn, il Gerbonte con gli occhi di Giacomo Revelli, che ha saputo intrappolare tanta bellezza in un libro.

Ma non si è limitato a questo, nossignori! Ha anche trattato tematiche molto belle, attuali e importanti che invitano a riflettere, soprattutto gli esseri umani che – lo so benissimo – frequentano il mio blog. E allora eccomi qui a darvi qualche assaggio delle sue parole. Sono andata sui luoghi del romanzo per voi a scattare qualche foto e mostrarvi la bellezza selvaggia dei luoghi descritti dall’autore.

Valle Argetina - Realdo - Abenin

Il romanzo inizia con Guido Valperga, il protagonista, che viene incaricato di piazzare un’antenna per il wifi in alta Valle Argentina e più precisamente nei pressi di Abenin, dopo l’agglomerato abitativo di Borniga. Il capo dell’azienda per cui lavora gli ha ordinato di piazzare l’antenna a Barëghë d’r bola, una zona impervia e pericolosa, lontana da occhi indiscreti e segnata da crepacci e strapiombi.

E’ un posto brutto – ripeté il vecchio – c’è una scarpata, uno strapiombo. Già una volta, anni fa, sono andati a prendere uno che era caduto giù. C’è un sentiero, ci portavamo le bestie malate. Ma è pericoloso, da solo con ci può andare. E nessuno la può accompagnare”.

“Beh, pài… cheicün ër li sëria…” (Be’… qualcuno ci sarebbe)

“E chi?”

“Cul… ën l’Abenìn.” (Quello… ad Abenìn)

“Chi? ‘R ni i a ciù nësciüni lasciù!” (Chi? Non c’è più nessuno lassù!)

“Ma sì! Cur mesagée… com ‘r së ciama…” (Ma sì, quello zoticone… come si chiama…)

“Chi? Chi ti diju? Giusé Burasca? (Chi? Chi dici? Giusé Burasca?)

“Certu! Ee” (Certo!)

“Ma va! Sëra mort!” (Ma va, sarà morto!)

“Ma nu! Miliu, ‘r figl’ de Lanteri, ër l’à vist a faa de fascine ën lë bosch damùnt de cave.” (Ma no! Emilio, il figlio di Lanteri, l’ha visto fare delle fascine nel bosco sopra la ceva)

Guido, torinese abituato alla vita e ai ritmi cittadini e dipendente dalla tecnologia, si ritrova così ad affrontare un viaggio alla ricerca di qualcuno che possa guidarlo tra i monti e i sentieri della Valle Argentina. I suoi passi lo condurranno ad Abenìn, dove dovrà affidarsi ad altri per portare a compimento il proprio lavoro, senza poter utilizzare apparecchi elettronici, i quali nelle zone impervie dell’alta Valle non captano i segnali della rete.

Abenin

“Ad Abenìn non c’era nessuno, nemmeno il vento. La conca era immersa nel silenzio profondo, di quelli in cui, camminando, si sentono le pietre parlare coi sassi. Le poiane volteggiavano nell’aria immobile. Una cornacchia tagliò radente le cime e scomparve. C’era qualcosa di fragile. Trovare l’unica casa abitata di Abenìn non fu difficile. Ce n’erano un gruppetto, fatte di sassi grigi messi uno sopra l’altro, incastrati e impastati di terra, invasi dai muschi. Erano basse e anguste, con poche o nessuna finestra, un buio così pesto all’interno da impedire il respiro. Gli usci, bassi e stretti, avrebbero costretto all’umiltà qualsiasi visitatore che non fosse stato un bambino.”

Abenin

Ed è qui che avviene l’incontro tra Guido e Giusé soprannominato da tutti Burasca per via del suo carattere tempestoso. Guido deve restare ad Abenìn per poco tempo, ma… be’, non sta a me rivelarvi la trama del romanzo e i suoi colpi di scena, topi, ma chissà se alla fine riuscirà a montare la sua antenna e se Giusé Burasca lo aiuterà nell’impresa!

Guido finirà per trovare amici (e nemici) inaspettati e metterà in discussione ciò che ha sempre creduto di se stesso. “Nel tempo dei lupi” è un romanzo che ha una grande profondità, nonostante l’apparente semplicità della trama. Ma continuiamo a camminare sulle parole dell’autore…

edicola Abenin - Realdo

“Ad Abenin, in cima alla collina, c’è un’edicoletta con una croce e vicino un abete. Lì la strada spiana dopo la brusca rampa che sale dal Pin. Dentro c’è una Madonna e una bottiglia di coca con dei fiori appassiti. E’ un buon posto se si ha da pregare. Quando Guido ci arrivò, era un monumento di ghiaccio e di silenzio.”

Abenin - Realdo

“La neve si posava sulle fasce d’erba e lentamente le coricava, come un mantello. I dirupi, i burroni, le cicatrici della montagna apparivano ora più serie e profonde. File di muretti ordinavano i gradoni della conca e delimitavano la strada e le case. Alcuni erano gonfi, ingravidati dal tempo. Altri avevano già ceduto e vomitato nel terreno il loro magma di sassi. Altri resistevano fieri, chiusi, perfetti… ma per quanto ancora?”

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Che poesia, che parole! Non sono la sola a elogiare questa valle antica e fiera.

E nel romanzo è l’anziano Giusé Burasca, allevatore dai modi burberi e schietti, a insegnare indirettamente a Guido un modo di comunicare nuovo per lui, un linguaggio semplice e più diretto rispetto a quello portato dalla modernità e dalle antenne nell’era degli smartphone. E alla fine anche Guido, forse, riuscirà a far parte di quella natura che dapprima gli era apparsa ostile e distante…

lichene

“Riconosceva i larici, li distingueva uno dall’altro dalla forma del tronco o dai muschi che ne ricoprivano la corteccia. La montagna cominciava a parlargli. La piramide del Gerbonte, le colline di Abenìn non erano più il muto scenario in cui misurare un campo elettromagnetico; capiva finalmente la loro indole. Un lato dolce, con i fianchi della montagna che abbracciano le quattro case, il pontetto per il paese, come in un piccolo presepe, e poi poggi stretti, ma comodi, scalati dai muretti ordinati di sassi. Un lato severo, selvatico, con il dirupo e la valletta spezzata nel baratro: un ciuffo d’erba e poi più nulla, la valle giù, aperta, con qualche pino che si aggrappava alle rocce.”

abenin gerbonte

Ma c’è un altro personaggio in questo libro di cui non vi ho ancora parlato: una lupa, muta spettatrice degli eventi. Silenziosa, selvaggia e misteriosa, con la sua presenza sconvolgerà ogni certezza di Guido e Giusé. (Per la foto seguente ringrazio il fotografo Paolo Rossi, al quale avevo dedicato il seguente articolo qui sul blog: “Paolo Rossi racconta il lupo e i suoi segreti“).

lupo

“La lupa non sembrava avere problemi: proseguiva decisa qualche metro avanti a lui. Guido non vedeva altro che la bestia davanti a sé che ogni tanto si voltava a guardarlo. Ma cosa voleva dirgli? Dove voleva portarlo? La seguì fino ad abbandonare la radura dei larici. Si trovò così immerso completamente nel bianco. Non era cieco, ma la vista gli era assolutamente inutile in tutto quel bianco. La lupa era un’ombra grigia davanti a lui. […] Era qualcosa di profondamente diverso rispetto all’uomo. Tra lui e lei, là fuori, non c’erano solo alberi, erba e colline, ma anche tutto ciò che fa tuonare le nuvole, il vento che le muove, il buio, la notte, il gelo. Cose che oggi, quotidianamente ignoriamo, persi nel rumore di fondo. Quella lupa era arrivata come dal passato, percorreva sentieri che altri lupi prima di lei avevano percorso e si trovava davanti i nemici di sempre, come se anche il tempo ad Abenìn fosse tornato indietro. Ma ora, dove si trovava? Nel tempo dei lupi o in quello degli uomini?”

Il lupo, quello straordinario mammifero ormai sulla bocca di tutti, è tornato a popolare le zone selvagge della mia Valle, ormai lo sapete. E’ un essere schivo, che si fa beffe dell’uomo, e nel libro Revelli usa un motto semplice e schietto per definire questo animale libero fiero: l’è ‘r louv l’animàa ciù furb! (E’ il lupo l’animale più furbo).

Abenin - Realdo - Gerbonte

Il sottotitolo di questo libro è “Una storia al confine”. Revelli parla molto di confini nella sua opera: il confine tra l’Italia e la Francia, dove le vicende sono ambientate; il confine tra antichità e modernità, tra umanità e bestialità, tra civiltà e zone selvagge e incontaminate. Si sente il confronto tra i confini, quelli reali e immaginari che l’uomo ha creato, quelli ai quali la natura non obbedisce perché le leggi umane non hanno validità assoluta su tutto e sfuggono al suo controllo, a differenza di quanto egli stesso tenda a pensare.

Valle Argentina Realdo

Siamo in terra brigasca, dove in passato si consumarono battaglie sanguinose e di cui ho già avuto modo di raccontarvi molte volte, qui sul blog. Sono luoghi che hanno visto scontrarsi italiani e francesi in numerose occasioni, proprio perché questa sembra ancora oggi terra di nessuno, dove ogni cosa è possibile e dove le leggi umane faticano ad arrivare.

E ancora oggi qui, sulle montagne che vi mostro in queste mie immagini e tramite le parole di Giacomo Revelli, gli sms, il web e i social network non arrivano. Qui tutto è autentico, non ci sono schermi a fare da tramite. E quello che l’autore vuole farci vedere è che le sofisticate tecnologie odierne arrivano ovunque, ma l’unico ripetitore che non riescono a toccare è il più importante: quello del cuore.

Sentiero Colle Sanson Valle Argentina

Una terra, questa, che sta pian piano riconquistando il suo lato selvatico e selvaggio, là dove la presenza antropica si limita ormai a sporadiche e occasionali occupazioni, limitate al periodo estivo. Ci si sente ospiti, qui, non di certo padroni, e Revelli lo ha descritto molto bene.

Abenin - Realdo - Valle Argentina

Con delicatezza e semplicità, riporta in vita gli antichi conflitti tra uomini e lupi, riapre vecchie ferite non ancora rimarginate e fa riflettere su due mondi distanti e vicini al contempo – quello umano da una parte e quello animale dall’altra – che viaggiano paralleli senza (quasi) mai incontrarsi. Una storia che invita al rispetto, a sentirsi padroni soltanto di se stessi e ad aprire gli occhi per incrociare lo sguardo con quello del lupo.

Adesso vi saluto, topi. Torno a zampettare in zone selvagge per voi. Un ululato a tutti!

 

Viene chiamata la Bianca Signora

E non é la mia cara amica amica Maga Gemma!

Un giorno, un umano, un certo Gianni Agnelli, proferì una frase che la dice lunga. Egli affermò: “La signora di classe non è quella che quando passa fa fischiare, ma quella che fa calare il silenzio” e io sono proprio convinta che l’imprenditore intendeva rivolgersi a lei, la Bianca Signora.

La neve, topi! La neve della Valle Argentina. Oh, sì! Ne sono convinta, perché nessun altro, come lei, riesce a far calare così il silenzio. Tutto tace sotto il suo candido manto. È fredda, bagnata, gelata ma affascina tantissimo.

Ci basta pensare e osservare i suoi cristalli, i famosi fiocchi di neve, per comprenderne il fascino e la bellezza. Non ce n’è uno uguale all’altro, sapete? Hanno simmetrie complesse e incredibili che vedono artefici il vento, il microclima, l’atmosfera e molte altre caratteristiche meteorologiche e chimiche che, già a livello molecolare, in qualche modo lavorano nei confronti della loro formazione.

Ricoprono ogni cosa, senza pietà, ma con pacatezza e gentilezza.

Salvo durante le tempeste, è ovvio!

Si adagiano indifferenti sulle ciappe, sui sentieri, sugli alberi e sui monti e, proprio su questi ultimi, si riposano fino a primavera inoltrata.

 Tutto assume un colore talmente chiaro da abbagliare, soprattutto se raggiunto dai raggi del sole ed è proprio in quel momento che la Valle Argentina brilla come un diamante!

Nella zona dell’Alta Valle non si può parlare di neve perenne. I pascoli, in estate, manifestano il loro verde sgargiante e i monti sembrano di velluto, ma sicuramente la Bianca Signora persevera di più che a quote basse.

Un tempo era davvero raro vederla avvicinarsi al mare. Fenomeno che accadeva quasi in modo straordinario. Ultimamente, invece, ogni inverno mette a dura prova anche gli abitanti delle coste e di inizio Valle. I topini sono molto felici per questo, mentre i topi più grandi, se devono muoversi con le loro topomobili o lavorare all’aperto, lo sono decisamente un po’ meno.

Anche loro però non possono fare a meno di notare tanto splendore!

La mia Valle è bella anche quando a vestirla è questa Signora dal carattere austero, ma lieto al tempo stesso.

Si dice che abbia anche la capacità di ripulire l’aria, permettendoci così di respirare purezza. Un valido aiuto per Pini, Abeti e Larici che fanno di tutto per darci ossigeno rigenerato. Più di molte altre piante, le conifere, come già vi ho detto altre volte, hanno il potere di disinfettare l’aria. I polmoni del bosco. Un bosco che ora appare diverso.

Tutto offre un’atmosfera differente grazie a quel manto. Tutto è calmo e addormentato. In realtà, però, sotto la protezione offerta proprio dalla neve, nella profondità della terra, c’è comunque vita. Una vita che pare non esistere, ma palpita e si prepara ogni giorno al lieto evento che incontrerà all’inizio della bella stagione e del primo tepore. Sarà il giorno in cui si mostrerà al mondo, salutando la Bianca Signora, che tornerà a farci visita l’inverno successivo.

E allora, topi, io vi saluto con un bacio ghiacciato e rimango ancora un po’ qui, a godermi questa splendida, candida vista e a fare anche due capriole in questa specie di bambagia, fredda ma divertente.

Vi aspetto al prossimo articolo! A presto!

Fuori dal tempo ad Agaggio Superiore

Alcuni luoghi della mia Valle, soprattutto in certe stagioni, paiono come sospesi in un momento senza età. Ci sono posti che hanno la parvenza di essere simili ad Avalon, fuori dai canoni ordinari dello spazio e del tempo come noi li intendiamo.

Questa è l’impressione che fa Agaggio Superiore in questo periodo dell’anno, dove il vero, indiscusso protagonista resta il silenzio surreale che permea ogni cosa.

E’ una frazione di Molini di Triora e dista quattro chilometri da questo borgo. Ci si arriva da Agaggio Inferiore, si sale, si sale fino ad arrivare ai 702 metri sopra il livello del mare. E l’altitudine, qui, si fa subito sentire col suo freddo più intenso, gli sbuffi di vapore che escono dalle narici e dalla bocca quando si respira.

Tutto è sospeso, come vi dicevo. Neppure le foglie morenti sui rami osano più frusciare e quelle già abbandonate al suolo non scricchiolano, restano là, immobili, come se ogni cosa fosse vittima di un incantesimo.

Guardandosi intorno, parrebbe quasi abbandonato. Gli oggetti lasciati nei dintorni sembrano spettri di un tempo ormai perduto, ogni cosa permea una nostalgia palpabile, percepibile.

mollette bucato

E’ malinconico, Agaggio Superiore, con le sue finestre sbarrate, gli usci chiusi e quei tetti che gridano al cielo il loro bisogno di essere rimessi in sesto. Pietra e ciappe d’ardesia la fanno da padroni, e gli unici abitanti paiono essere gli animali, che ci salutano subito con affetto al nostro arrivo. Eppure nulla è come sembra, perché anche se qui tutto pare immobile e quieto, anche là dove il silenzio sembra sintomo di abbandono, c’è chi resiste come il timo aggrappato alla roccia e abita ancora nelle casette di Agaggio, con ritmi lenti, quasi come quelli di un tempo lontano. E c’è l’azienda Casciameia, che vende prodotti locali, ottimi vini e i tipici fagioli della vicina Badalucco.

Una volta c’era anche una bottega qui, come in ogni paese della mia Valle. E in quella stessa bottega abitava la famiglia che la gestiva. Un tempo era così: ci si accontentava di spazi modesti, qualche volta non si aveva neppure il lusso dei vetri alle finestre.

Oggi quella bottega è una casa che attende nuovi abitanti, nuove risate e rinnovati sorrisi.

La passeggiata nel piccolo borgo è piacevole, continuiamo a essere accompagnati da gatti e cagnoloni pronti a farci le feste, come se avessero rivisto un amico di vecchia data.

Ci abbandoniamo alle coccole di quel momento, ma poi continuiamo e raggiungiamo  Piazza San Carlo, dove svettano due chiese, l’una dirimpettaia dell’altra.

E qui diventiamo muti testimoni di un contrasto che quasi disorienta, un connubio tra vecchio e nuovo. C’è la chiesetta antica, con le mura di pietra, ormai fantasma di se stessa. E poi c’è la sua più nuova controparte, la facciata intonacata coi toni del cielo primaverile.

Ci sono anche qui, come ad Aigovo, i giochi per i bambini. E che bella l’altalena, in quel contesto di alberi, prati e panorami! Salirci è come darsi la possibilità di toccare il cielo con un dito, vestire per un istante i panni di una cinciallegra che guizza veloce da un ramo all’altro.

A proposito di boschi, quelli dei dintorni sono tutti di Castagno e i colori del re del bosco sono accesissimi in questo periodo. Una volta la popolazione di Agaggio viveva di castagne, si partiva presto al mattino per raccoglierle, lavorarle. Un po’ tutta la mia Valle viveva grazie a questa portentosa e generosa pianta, ve l’ho detto più volte. E faceva freddo in inverno, molto più di adesso. L’acqua ghiacciava nei catini durante la notte, e al mattino si doveva spaccare il ghiaccio per potersi lavare il viso.

Tempi duri, certo, e Agaggio li conserva tra le rughe delle sue case antiche, nella lapide dedicata ai caduti della guerra e in quella memoria bellica che permea ogni luogo della mia Valle con il suo grido di libertà che riecheggia ancora, rimbalzando da un borgo all’altro.

Adesso vi saluto, topi miei. Le gemme sugli alberi a novembre mi dicono che quello che sta per arrivare sarà un inverno lungo e freddo e devo ancora finire di preparare le mie provviste di articoli per voi.

Un bacio di brina dalla vostra Prunocciola.

Via Camurata e il quartiere Sambughea

Topi, la festa di Halloween è già passata, ma oggi ho da raccontarvi una storia che mette davvero i brividi. Munitevi di coraggio, perché ve ne servirà per attraversare i luoghi che voglio mostrarvi in questo articolo.

Siamo a Triora, il paese più misterioso della mia bella Valle.

Vi ho parlato spesso delle sue meraviglie nascoste e delle dolorose vicende che si susseguirono qui, ma c’è una cosa che ancora non vi ho raccontato.

Seguitemi, entrate con me dentro il paese. Percorrendo tutta la via principale, si giunge alla piazza Beato Reggio, quella con lo stemma di Triora raffigurato al centro del pavimento lastricato. Alla nostra sinistra c’è la chiesa della Collegiata, sorta – così si dice – su un antico tempio pagano.

Alla nostra destra, invece, ci sono i tavoli colorati del Ricici Caffè e del Cocò Café. Le persone qui si siedono a sorseggiare qualcosa in compagnia, scambiandosi due chiacchiere.

Dirigendoci verso i portici, imbocchiamo la via che ha inizio sulla destra. Il suo nome è già tutto un programma, topi miei. Si chiama Via Camurata e c’è una leggenda che spiegherebbe il motivo particolare e spaventoso dietro questo appellativo.

Via Camurata - Sambughea - Triora

Una targa arrugginita ci comunica dell’accesso a un quartiere molto suggestivo, quello della Sambughea, “dove il borgo mostra i suoi più genuini aspetti”, così cita l’insegna.

Credo non ci sia niente di più vero, topi, perché ci troviamo nel cuore nascosto di Triora, quello che non si spiega facilmente agli occhi dei turisti. Era – ed è ancora – il limite più basso della città, il suo confine, ed è rimasto uno scrigno dai mille misteri.

La via Camurata è buia, coperta da volte più o meno alte, raramente intervallata dalla vista del cielo. I lampioni la illuminano notte e giorno, si respira un’aria molto suggestiva. Si procede in discesa, mentre non si può fare a meno di notare che il borgo, che mostrava il suo volto più allegro e giocondo in Piazza Beato Reggio, qui fa trapelare una faccia assai diversa, cupa e ombrosa.

Il silenzio pervade ogni cosa, non c’è traccia degli schiamazzi dei bambini, delle voci lontane della televisione, né del chiacchiericcio delle persone che fanno comunella davanti ai negozietti di souvenir.

Si ode il fruscio del vento, lieve, ma costante, come se ci trovassimo nel bosco. Gli uccelli cinguettano in lontananza, la loro eco, però, qui sembra meno gioiosa. Ovunque c’è odore di pietre umide, a tratti si percepisce quello tipico delle cantine.

La maggior parte delle case di questa via sono abbandonate, in rovina, sembrano grotte, talmente sono buie. Il tempo pare essersi fermato a decenni, forse secoli fa, come avvolto da un terribile incantesimo.

Via Camurata - Triora3

Persiane rotte e scardinate, infissi usurati dal tempo, porte ricoperte di ragnatele, piume di uccello sui muri e vetri rotti alle finestre la fanno da protagonisti in questo scenario surreale.

Sembra di sentire cigolare i cardini al vento, ma è solo suggestione. Ci si accorge che qualcosa non va, si percepisce.

Stando alla leggenda di cui vi parlavo prima, questa via racchiuderebbe segreti terribili.

Pare, infatti, che un anno in cui la peste si fece particolarmente feroce, la gente ammorbata che viveva in questa via e resisteva tenacemente alla malattia senza voler spirare per ricongiungersi al Creatore, venisse murata ancora viva all’interno delle abitazioni.

Non mi credete? Lo so che è difficile e che penserete che io abbia alzato un po’ troppo il gomito, ma sembrerebbe vero, a giudicare da quello che ho potuto vedere nel mio tour. Guardate!

La via, tutta, è costellata di porte evidentemente murate. Ce ne sono a bizzeffe, alcune nascoste, altre più irriverenti nel mostrare il loro passato, ma sono numerose, è impossibile non notarle.

Come se ciò non bastasse, ad accrescere la tetraggine dell’atmosfera che qui si respira sono alcuni soffitti delle volte che fanno da tetto alla via.

Triora - Via Camurata

Forse dalle foto si nota poco, ma sono neri come la pece, perché questo quartiere fu interessato anche da un devastante incendio, forse lo stesso appiccato dai nazisti nel luglio del 1944 e che interessò in particolar modo Molini di Triora.

Insomma, non ci si stupisce che questa stradina sia rimasta disabitata per tantissimo tempo!

Sotto la Via Camurata scorre un altro carruggio, altrettanto suggestivo: la Via Sambughea, dalla quale il quartiere trae il suo nome. Anche qui una leggenda ne spiega l’appellativo. In seguito all’abbandono della zona, pare che tutto il quartiere sia stato invaso dai sambuchi, piante che, tra l’altro, sono considerate tra le più care alle streghe.

Anche qui il tempo sembra essersi fermato, ma qualche coraggioso abita ancora tra queste pietre affastellate le une sulle altre.

Gli scorci che si vengono a creare sono stupendi, a metà tra l’abbandono e il recupero. Casette rustiche curate da mani sapienti si alternano a ruderi pericolanti, che paiono tenuti insieme solo dalle tenaci radici dell’edera.

In Via Camurata sorgono ben due Bed&Breakfast: La Stregatta e Casa Grande. Nelle vie adiacenti, invece, ce ne sono altri due, La Tana delle Volpi e Ai Tre Cantici. Sapete dove andare, se volete sostare qualche giorno a Triora per attraversare gli scorci più suggestivi che il borgo nasconde.

Qualcuno di voi topi sa dirmi di più riguardo queste due vie e le porte murate? Son solo leggende per spaventare i topini, o in esse c’è un fondo di verità? Fatemi sapere!

Io vi saluto, adesso. Ho i brividi ai baffi, con tutto questo parlare di misteri.

Un bacio terrificante dalla vostra Prunocciola.

 

Una ricerca un po’….. osé

Scusate se vi parlo nuovamente di lui in così poco tempo ma questa ve la devo proprio raccontare. Fa parte delle mie topoavventure, per cui, dev’essere assolutamente detta. Ditemi, avete mai sentito di un topo che cerca un gatto? No? Bene, leggete leggete pure.

E’ accaduto tutto due sere fa. Gino, che ormai conoscete tutti, del quale parlai qui https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2015/02/20/gino/  non si trovava più. Oh già. Erano le 11 di sera e si stava per andare a dormire. Eh beh… si sa, gli ultimi controlli prima della notte e uno in particolare va ai nostri amici pelosi. Dovete sapere inoltre che, Gino, abituato a fare uno spuntino prima della nanna e abituato a dormire con me, appena capisce che si va nel letto, è sempre il primo a partire. Ma quella sera, nulla. Gino non c’era. I gatti hanno il dono di sparire per ore e non si trovano, pur essendo tranquillamente raggomitolati da qualche parte. All’inizio, infatti, non ero per nulla preoccupata. Inizio però la ricerca perchè qualcosa mi dice che non era negli armadi, o nel cesto della roba sporca ma ci guardo lo stesso. Per farvela breve, smonto la tana. Mi viene poi in mente che avevo portato in strada il mastello della spazzatura organica. – Non si sarà mica ficcato lì dentro? -. Conoscendo il tipo, che ha sempre fame, scendo giù speranzosa ma…. niente. Dovete sapere che i miei mici possono scorrazzare dal terrazzo al giardino e andare in giro per il quartiere. Un quartiere dove fortunatamente non passano molte macchine e pieno di tane intorno. Loro si divertono. Rincorrono le foglioline che svolazzano, fanno gli agguati tra le piante alle lucertole, scavano buche per poi rotolarsi nella terra. Ma vuoi vedere che ha deciso proprio stasera di andare a scoprire il mondo? Scendo di nuovo giù. Era intanto arrivata la mezzanotte e per strada c’era il silenzio assoluto. Cerco in giardino, niente. Cerco per la via, niente. Mi avvicino alle case, niente. Guardo sotto tutte le macchine parcheggiate, niente, niente e ancora niente. Inizia a subentrare il panico e anche un po’ di rabbia. “Me l’hanno rapito, affettuoso com’è….”, “E’ scappato…”, “E’ andato e ora non sa più come tornare…”, “L’ha investito una macchina….. no! no! no!”. Insomma che mentre topino pregava sul terrazzo, fermo come la Madonna di Fatima, io come una ladra perquisivo mezzo paese. – Gino! – chiamavo. Non m’interessava svegliare qualcuno, dovevo ritrovare il mio micio ma nessuno mi rispondeva. Il suo nome si perdeva nel silenzio e nell’aria vuota. – Gino! – continuavo, ma a rispondermi era solo il vento. Passai così una mezz’ora buona. Ritornai indietro. Dalla parte sinistra di casa ero già andata ma decisi di rifare un altro tentativo. M’incamminai dietro un palazzo. Buio pesto. La torcia del cellulare mi aiutava ben poco. In quel luogo il silenzio sembrava ancora più grande. Non poteva non sentirmi. – Gino! – riprovai. Finalmente sentii come risposta, un gracchio rauco tipo sgneeeck al posto di un – Miao! -. Era lui. Ne ero certa. Me lo sentivo. – Gino! – ripetei entusiasta e fremendo. Il mio urlo fu più deciso a quel punto e qualcuno, dal palazzo, si decise a dirmi le cose come stavano – No! Sono Mario! – rispose una voce maschile nel cuore della notte. – E io Andrea! Va bene lo stesso? – fece un’altra. “Macchissenefrega!” mi dissi! Io avevo ritrovato il mio piccolo. – Gino! -, – E dimmi! – rispondeva uno dei due signori in notturna. – Gino! – feci ancora e un altro suono roco mi fece capire, più o meno, da dove proveniva quel gnaulio che si stava trasformando in preghiera. Fu a quel punto che mi scappò la frase che il sig. Mario e il sig. Andrea mai avrebbero dovuto sentire: – Gino! Amore! Stai fermo che… vengo io! -. Tananana….! Ebbene sì, vi lascio immaginare, non posso davvero scrivere nulla. Ma in quel momento ben poco m’importava delle loro audaci risposte. Dico io, ma la moglie questi non l’avevano? Forse era già a dormire santa donna. Insomma, faccio il giro del palazzo e arrivo davanti al cancello di un residence. – Gino! – feci per l’ennesima volta. A quel punto, due occhi rossi, si accesero nell’oscurità. Dall’altra parte del cancello, sotto alla siepe di bordo, vidi il mio gatto che, terrorizzato, mi guardava aprendo la bocca e facendo tremare la mandibola. Non aveva più voce. – Vieni Gino, vieni… – lo incitavo accucciandomi a terra e, questa volta, badando bene di dirlo sottovoce per non farmi sentire dai due uomini del palazzo. Lui faceva di tutto per venire da me ma era così spaventato che si feriva e si faceva male da solo. In quello stato non ce la faceva. Tra l’altro, dalle sbarre del cancello, non riusciva a passare. Ma benedetto gatto, ma da dov’è che sei entrato? Come sei entrato esci no? No. Non c’era verso. Dovetti aiutarlo. Provai a scavalcare il cancello ma gli spunzoni in alto non me la resero facile e poi è difficile da descrivere ma è un cancello strano, posto su dei gradini, con sbarre sottili perpendicolari. Credetemi, niente di facile per me che mi arrampico ovunque. Dovetti così cercare di fare scaletta al gatto con le mani, mettendone una dopo l’altra sotto la sua pancia per oltrepassare i filamenti ferrosi posti di traverso. Arrivato in cima, dovevo fargli sorpassare gli spunzoni senza che si facesse male anche perchè lui non era per niente calmo nonostante fosse felice di vedermi. In bilico, su una gamba sola, e protratta all’inverosimile stile Nureyev, lo tirai fuori di lì. Con il rischio anche di vedermi arrivare dietro una pattuglia visto che ovviamente il mio gatto era andato in una proprietà privata. Morale della favola: a lui ho quasi storto un’ascella che fortunatamente è guarita nel giro di qualche ora e io, attaccata a quel cancello, ho lasciato la manica della giacca. Gino ha dormito per una notte intera e non ha mangiato nemmeno il giorno dopo. Da quella sera vive appiccicato al mio fondoschiena senza muoversi di lì, ma sta bene. Come si dice, tutto è bene quel che finisce bene ma una cosa vorrei aggiungere per il sig. Mario e il sig. Andrea – Non è che la prossima volta potreste scendere a darmi una zampa???!!! -. Grazie. Buon proseguimento topini e ricordate che, a volte, anche un topo potrebbe mettersi alla ricerca di un gatto!

M.