Case Carmeli: un nido in Valle Argentina

Si ritorna a viaggiare per la mia splendida Valle e a scoprire luoghi magici dal profumo antico che affascina e lascia di stucco. Come ad essere in un’altra dimensione.

Sono incantata e non vedo l’ora di condividere con voi questa gioia. Non accadeva da tanto tempo, visto il mio lungo letargo… abbiate pazienza… però, ora, seguitemi perché un posto fiabesco vi attende per mostrarsi in tutta la sua umile ma attraente bellezza.

Un posto che non vi concederà di venir via tanto facilmente, vi terrà nel suo morbido abbraccio silenzioso e ricco di meraviglia.

Sotto la più nota Realdo, borgo caratteristico e assai suggestivo dell’Alta Valle Argentina, affacciato a strapiombo sulle falesie che incorniciano Rio Sant’Antonio, c’è una piccola frazione che non ha nulla da invidiare alle altre.

E’ circondata dalla pace e da Castagni secolari, da orti ben curati e al di sotto di lei scorrono le limpide acque del Torrente Argentina che ne ravviva l’anima.

Sono a Case Carmeli Topi! E oggi vi porto con me in un tour mozzafiato!

A circa 1.000 mt s.l.m., in un angolo appartato della mia Valle, sboccia un gruppetto di case prevalentemente in pietra, un tempo nido di parecchie persone che si dedicavano soprattutto alla raccolta delle castagne da vendere verso la costa.

Terrazze pianeggianti e pulite, abitate da grandi Castagni, circondano questo minuscolo paesino e accoglievano molti anni fa i mulini dove quei frutti venivano lavorati e trasformati in farina.

C’è persino un campo da bocce sotto l’ombra di questi alberi. Un campo da bocce come se ne vedono molti nei dintorni dei borghi della mia Valle.

Sgattaiolo sopra a quelle foglie che adesso, durante la fredda stagione, dopo essere cadute in autunno, scrocchiano sotto le mie zampe. Un terreno ben diverso da quello che poi troverò tra le dimore, realizzato in ciappe di ardesia come i tetti antichi che qui ancora sorgono.

Tra i terrazzamenti spunta un’edicola bianca dedicata alla Madonna che, negli anni, ha ricevuto diversi restauri. Il culto mariano, nella mia Valle, è sempre presente e mai viene dimenticato.

Man mano che mi avvicino al mucchietto di case sono ora gli orti con la terra arata e soffice ad accogliermi. Orti piccoli ma numerosi e importanti.

Sembrano sistemati da poco e, non so perchè, mi mettono allegria.

Queste piccole distese scure fanno capire che esiste, tutt’oggi, una quotidianità.

Ebbene, che ci crediate o no, da circa tre anni, a Case Carmeli vivono un’arzilla coppietta e un signore che hanno deciso di ripopolare questo luogo anche se, umilmente, raccontano di essere una quantità assai scarsa. Io invece ne sono felicissima e quel numero, considerato “povero” da loro, mi sembra già una ricchezza!

Fino a qualche anno fa, infatti, Carmeli era completamente disabitato. Le persone utilizzavano le loro seconde case solo in estate. E lo fanno ancora ma, oggi, qualcuno ci vive tutto l’anno e ha persino disposto delle – Case Vacanze – per accogliere eventuali ospiti.

Ora, come vi ho preannunciato prima, cammino su questa pavimentazione storica realizzata dalla mano di uomini che costruivano ogni cosa.

Se alzo il muso verso l’alto posso vedere case splendide, ancora ben curate. Verande, balconi e travi riempiono i miei occhi. E non mancano i messaggi di “Benvenuto” vicino alle porte d’ingresso. Qui, sono tutti cordiali.

Arrivati a Case Carmeli ad accogliervi saranno i padroni del paese e cioè gattini dall’espressione furba che lì vivono felici e liberi formando una simpaticissima gang. Sono abbastanza socievoli ma anche guardinghi e io, che sono un Topo, devo dire che apprezzo il loro osservarmi da lontano e avvicinarsi con estrema cautela.

A dire il vero, arrivando dalla stradina principale, comoda e asfaltata, la prima cosa che vedrete sarà una fontana in pietra, con una tettoia in legno.

Si tratta di una fontana dedicata a Edoardo Alberti, un anziano muratore della Valle Argentina, nato a Realdo e considerato una memoria storica.

Poi ecco lo svolgersi del borgo. Il sole lo bacia ovunque.

Illumina anche gli attrezzi per coltivare, le ringhiere che proteggono, le canne e i bastoni che servono nelle campagne.

Gli arnesi sono appoggiati ai muri. Alcuni sono arrugginiti mentre altri sembrano essere stati sempre usati. C’è davvero di tutto: seghe, rastrelli, imbuti, mestoli, vanghe, carriole…

Solo alcuni carruggi restano in ombra. Sono carruggi brevi, fatti di scale e antri.

Diverse porte in legno conducono a delle cantine.

Al posto della ringhiera, una grossa corda è utilizzata come scorrimano. Per non cadere. I gradini sono ripidi in effetti.

Troviamo ancora qualcosa dedicato alla Vergine Maria accompagnato da una frase assai conosciuta nel mio mondo: “Oh passegger che passi in questa via volgi lo sguardo a salutar Maria”.

A volte si legge anche: “Oh pellegrin che passi da ‘sta via, non ti scordar di salutar Maria”… il significato non cambia.

A Carmeli ci sono una piccola piazzetta, aiuole e vasi ovunque, staccionate e… i miei adorati monti tutt’intorno.

Al di sopra di quei tetti, laggiù in fondo, posso ben vedere, stagliati contro il cielo, la statua del Redentore e il Monte Saccarello che svettano sopra Verdeggia, ultimo paese della Valle Argentina.

Così vicina alle mie montagne, questa frazione, regala scorci davvero particolari e penso riesca a farlo in ogni stagione dell’anno essendo già bellissima in inverno, periodo dai colori più spenti e opachi.

Sulle rive del piccolo rio che costeggia Carmeli da un lato, cioè Rio Paves, la Natura è già desta e vispa pur essendo gennaio. Quei raggi luminosi rendono tutto più tiepido e piacevole.

Alcune Lucertoline corrono sulle pietre adesso calde e, con sorpresa, noto persino la presenza di qualche Cincia Bigia abbastanza rara da vedere.

Appare simpaticissima con il ventre bianco e tondo come una pallina e il caschetto nero sulla testa. Il suo “Tciùùùù”, che emette di continuo, mi fa alzare lo sguardo verso il cielo terso e sotto ai balconi degli edifici adiacenti al rio.

Chi alloggia qui ha davvero una splendida vista su un gran pezzo di Valle! Un panorama da invidia! Forse anche la Cincia, dall’alto dei rami spogli, si sta godendo questo spettacolo.

Decido di continuare a guardare meglio e più da vicino quelle case. Le viuzze sono poche ma permettono di raggiungere ogni abitazione.

Non ci vuole molto a girare per tutta la borgata ma sono diversi i punti in cui soffermarsi ad osservare, annusare e immaginare il passato.

Le scale non mancano e sono tutte circondate da erba e fiori che stanno nascendo per festeggiare, in largo anticipo, la primavera.

Intorno a Carmeli, infatti, ci sono già le Violette, la Veronica e tantissime Primule a regnare con il loro giallo che spicca tra quelle tinte marroni.

Queste Primule, nate qua e là, circondano anche il vecchio lavatoio. Oggi di acqua non ce n’è più nelle sue due vasche ma lui è ancora lì, in memoria di mestieri antichi che incuriosiscono.

L’acqua la si può comunque ottenere dalle varie fontanelle che ci sono sparse per il paese. Piccole ma molto caratteristiche.

Anche il lavatoio, raggiungibile grazie ad un breve sentiero, è circondato dai Castagni e da quelle terre silenziose.

Siamo molto vicini alle cave d’Ardesia dell’Alta Valle e la presenza di questa pietra protagonista è assai nota anche qui. I portali, le vie, i gradini, i tetti… tutto la esalta. La si può vedere grezza oppure lavorata.

In Valle è la Regina nera della Natura!

Alcune case hanno più di un piano e parecchie sono state restaurate anche se l’atmosfera è rimasta quella di un tempo.

La maggior parte delle volte sono stati utilizzati materiali naturali per i restauri, come la pietra e il legno. Questo fa sì che il borgo resti affascinante e riporti ai tempi dei nostri nonni.

Notare il fumo di una stufa uscire da un camino e sentire odore di legna nell’aria è stato poi un vero tocco magico che ha completato quella bellezza.

Tra quegli edifici si continua ad affacciarsi sulla Natura che è davvero vicina e sfiora i muretti a secco e le strade. Non solo le rocce severe ma anche i fitti boschi sono proprio a un passo dalle dimore.

Partendo dalla costa, in un’oretta scarsa, si giunge dove il tempo si è fermato.

Ritrovo persino la Lunaria, che qui abbonda. Quando ero ancora una cucciola, la mia Topononna la usava essiccata per abbellire la nostra tana e la chiamava “Le Monete del Papa”.

Non vorrei più andar via da qui ma so che ho ancora tanto da scoprire e tanto da scrivere sulla Valle Argentina quindi mi devo incamminare verso la via del ritorno.

Non perdo l’occasione di guardarmi ancora intorno, come a voler immagazzinare tutto nei miei ricordi e immortalare con lo sguardo quella meraviglia, oltre che con la mia fida macchina topografica.

Quelle case, quelle piccole finestrelle con le persiane in legno chiaro… è come se mi salutassero e mi dessero appuntamento alla prossima…

Persino una Poiana viene a dirmi << Arrivederci! >> volando quieta, sulla mia testa, nel cielo azzurro di questa indimenticabile giornata.

Case Carmeli è un posto che tornerò a frequentare perchè mi è davvero piaciuto molto. E anche salendo a Realdo, o a Verdeggia, o a Borniga non si può non fare una tappa qui.

Ci si passa proprio davanti!

Saluto questo luogo che mi ha accolta splendidamente e a voi prometto che ci vedremo presto per il prossimo tour!

Restate con gli scarponi nelle zampe mi raccomando!

Ciao Carmeli e… a presto Topi!

Squit!

Nel ventre dell’antica Foresta dei Labari

E’ una soleggiata mattina di inizio autunno quando mi inoltro per un sentiero largo e pulito che passa sotto a dei Noccioli e dei Castagni meravigliosi.

Il silenzio assai apprezzato di quel luogo è rotto, di tanto in tanto, dai fruscii delle lucertoline veloci che si muovono tra le foglie secche a terra e il cinguettio di uccelletti felici.

Cardellini e Fringuelli, infatti, mi circondano e mi accompagnano in quella macchia che trionfa di vita.

Posso però udire anche il crocidare di qualche Ghiandaia che sembra alterata (come al solito, visto il caratteraccio che hanno, e mi riferisco soprattutto alla mia amica Serpilla) e il battere del Picchio che buca quei tronchi enormi alla ricerca di linfa e insetti. O forse vuole prepararsi un nuovo nido.

Attorno a me, l’Erica e i Noccioli, rendono tutto ancora più brioso e rigoglioso, colorando di rosa e di verde ciò che ormai sta assumendo tinte più calme e mature.

Nonostante la stagione, posso godere ancora della presenza di qualche fiore più temerario che non ha paura a sfidare i primi freddi.

Il sentiero scende a tornanti e mi porta verso il torrente che attraverso per ritrovarmi nell’antica Foresta dei Labari.

Sono sopra al paese di Corte, ho preso la strada che va verso Vignago, facendomi aprire la sbarra che ostruisce il passaggio, e mi sono diretta verso Case Loggia per la via che conduce ai Casai.

Qui, un percorso morbido di erbetta e foglie, scende alla mia destra e lo prendo per portarvi dove vedrete.

Il piccolo torrente si lascia attraversare con facilità anche se ci vogliono scarponi adatti per non bagnarsi i piedi. Gli scarponi adatti ci vogliono anche perché, nei Labari, la vegetazione è esagerata e senza la giusta attrezzatura e un abbigliamento adatto si rischia di farsi male o di non apprezzare tutta quella bellezza.

I Rovi, infatti, impediscono il cammino con il loro voler essere totalmente al centro dell’attenzione. Carichi di More gustose, che mi consentono una bella scorpacciata, si innalzano boriosi per far notare quelle meraviglie viola e rosse che li abbelliscono.

Altre piante legano le caviglie e trattengono come a voler essere notate anch’esse. Ci sono arbusti che graffiano e fronde che accarezzano ma, tra loro, qualche ragno ha costruito ragnatele resistenti e assai vaste.

Mi rendo conto che da questa descrizione, questo luogo può apparire poco piacevole, ma vi assicuro che non è così. Ci vuole un po’ di sacrificio per raggiungere la meraviglia e, inoltre, tutto quel verde è davvero suggestivo anche se all’essere umano può apparire antipatico. Io poi, che sono una piccola Topina, mi faccio meno problemi sgattaiolando sotto a tutta quella flora.

Quel bosco continua ad essere florido ed esuberante ma, ogni tanto, regala angoli stupendi e quando si giunge in questi piccoli eden si pensa davvero che sia valsa la pena della fatica di prima e di quella che si dovrà fare poi.

Queste zone sono delle affascinanti radure sotto a Castagni secolari dalla bellezza indescrivibile. Non bastano cinque uomini adulti per abbracciarli. Sono enormi, antichi, saggi.

Sono in quel luogo da tantissimi anni e mi chiedo cosa possano aver vissuto.

Hanno già partorito dei ricci che il vento forte dei giorni precedenti a fatto cadere a terra ancora acerbi. Il loro verde è sgargiante, quasi fosforescente ma, dentro, le Castagne protette sono sane, turgide e pronte per essere consumate.

Le chiome generose di questi alberi fanno ombra alle Felci sottostanti che rendono quel sottobosco prospero e fresco. Sono le piante che simboleggiano il mistero e infatti chissà quanta vita si nasconde sotto i loro rami leggeri. Piccoli roditori come me e insetti trovano il loro habitat naturale proprio tra questo cupo fogliame.

La Felce permette al bosco di essere più idratato e umido in quei punti. Lo si nota anche dalla presenza di molti Funghi strani attaccati ai tronchi.

I Noccioli persistono e con i loro fusti sottili e ramificati e le loro foglie a cuore nascono tra scogli ricoperti di muschio nuovo, rendendo quel palcoscenico un territorio simile a quello dell’Irlanda.

Mi aspetto di vedere un Druido uscire da dietro un arbusto e parlarmi.

Un’ulteriore radura, ancora più aperta delle precedenti, mi permette di vedere il cielo che da tempo non riuscivo ad osservare sotto a quelle alte piante.

Che meraviglia quelle montagne ancora verdi!

Non solo, vedo anche i profili dei miei monti e vengo salutata persino da un’Aquila Reale che sorvola su quei crinali alla ricerca di cibo.

Gli spunzoni delle Rocche più conosciute svettano nel vuoto e fanno impressione. Viste da qui assumono un aspetto austero e imponente.

Quella più dolce, dietro di me, è Rocca della Mela, il panettone della Valle Argentina. Un enorme masso bianco e tondo che amo sempre guardare come se fosse un punto di riferimento.

Da qui posso vedere anche il Toraggio e il Pietravecchia se mi volto verso Sud – Ovest e mentre mi accingo a scrutare quelle cime conosciute l’eco mi porta il grugnire di diversi cinghiali.

Il sole scalda di meno rispetto a qualche giorno fa e i rettili fanno di tutto per riscaldarsi a quei tiepidi raggi. Una grossa Vipera se ne sta in panciolle sdraiata su della legna e non vuole essere disturbata. Si mimetizza molto bene tra quei rami secchi che formano una catasta naturale. Sta facendo rifornimento di calore. E’ bellissima con quei disegni che le arricchiscono il corpo e deve aver appena mangiato perché la sua pancia è davvero enorme! Santa Ratta, speriamo non si sia divorata un mio parente!

E’ bene proseguire. Nel bosco mi vogliono tutti bene ma la fame è fame, quindi meglio lasciar in pace Signora Aspide e continuare per la propria strada.

Ascolto cos’ha da dirmi questa Foresta così sontuosa. Mi parla di tempi passati. Immagino Saraceni e poi Partigiani nascondersi qui. Immagino animali che oggi non vedo e mi soffermo al suo nome – Labari -.

Dopo aver visto l’Aquila Reale mi viene in mente che i Labari erano degli stemmi Romani che venivano applicati a delle aste per onorare l’Imperatore che accompagnava il proprio esercito. Su questi drappi, di stoffa rossa e oro, veniva proprio ricamata la figura di un’Aquila Reale.

Nella mia Valle sono ancora oggi presenti tante strutture realizzate dai Romani e mi ci vuole davvero poco a pensare, con la fantasia, a truppe armate, cavalli bardati e uomini pronti a conquistare luoghi. Proprio qui.

Proprio in questi boschi che ora invece mostrano solo pace e natura.

Alcuni resti di vecchi casoni di pietra mi portano ad una vita pastorale. Potevano essere case, cascine, rifugi, stalle, magazzini, caselle… qui qualcuno ha vissuto o teneva provviste.

Alcuni tratti sono freschi e scuri, è come essere nel ventre di una madre, ci si sente protetti ma occorre ugualmente fare attenzione. Dobbiamo cercare di essere cauti e gentili in un territorio che non abitiamo quotidianamente.

Il tappeto di foglie cadute l’anno scorso scricchiola sotto le mie zampe e mi fermo per ascoltare altri nuovi rumori di quella vita.

Si sta d’incanto. Mi siedo. Tiro fuori la mia piuma e l’inchiostro. Prendo una grossa foglia di Castagno e inizio a scrivere le mie sensazioni.

Vi lascio quindi ma, come vi dico sempre, restate pronti. Appena ho finito, vi porterò in un altro posto da favola.

Un bacio secolare a voi.

A Rielli – “frazione” di Cetta

Oggi, Topi cari, andiamo a conoscere meglio una manciata di case poco nota in Valle Argentina rispetto ad altre frazioni, ma assai importante per quello che riguarda il nostro passato e per come, tuttora, è mantenuta da chi ogni tanto, la vive. Ogni tanto… sì… e cioè, prevalentemente, in estate.

Negli altri periodi dell’anno la si può definire disabitata ma la cura e l’amore che coccolano queste antiche dimore sono sensazioni che trapelano da ogni angolo e in qualsiasi stagione.

Seguitemi quindi a Cetta, dove già vi portai qui https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2019/02/08/1-2-3-cetta/ in questo minuto borgo che si divide in quattro frazioni (se così si possono chiamare) pur appartenendo a Triora.

Abbiamo Cetta Sottana e Cetta Soprana e, quest’ultima, si divide ulteriormente in tre mucchietti di case. L’ultimo ammasso di abitazioni, per la via che a breve vi mostrerò, è chiamato Rielli ma si pronuncia con una sola L e la E stretta: Rieli.

Cetta è un paesino che si sviluppa attraverso queste tre borgate per lungo, verso un sentiero molto conosciuto, chiamato “il Sentiero della Castagna” il quale porta a Colle Belenda e a Carmo Langan.

L’ultima borgata è proprio Rieli che finisce dove inizia il bosco anche se, in realtà, qui, il bosco è ovunque. Un meraviglioso bosco di Castagni e Roverelle che abbraccia quel mondo antico.

Da qui partivano i nostri nonni per andare a vendere le Castagne verso la Val Nervia e, una volta giunti nei pressi di Colle Belenda, dovevano attraversare un Passo chiamato ancora oggi “Passo dei Fascisti” del quale vi parlai qui https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2019/05/06/il-sentiero-della-castagna-e-il-passo-dei-fascisti/ sul quale venivano perquisiti e dovevano pagare dazio (quando andava bene).

Questo sentiero, subito dopo le case, attraversa Rio Grognardo, unico elemento naturale che si permette di far rumore, con le sue acque vivaci, in quello che è il silenzio più assoluto. Siamo infatti dove la pace regna incontrastata e il verde di questa macchia è acceso e onnipresente in questa stagione.

E’ un sentiero pulito e abbastanza pianeggiante ma noi, adesso, dobbiamo andare a visitare le tane dei miei convallesi, non possiamo continuare a stare qua.

Tra gli orti ben tenuti e un’infinità di muretti in pietra si sviluppa Rielli che, sovente, mostra diverse opere d’arte realizzate da chi tiene a questo luogo.

Si tratta di scritte, dipinti e piante che, messi assieme, vivacizzano questa zona.

Alcune opere si possono leggere su lastre di ardesia e riportano poesie, consigli o frasi di alcune note canzoni. Altre, invece, si devono soltanto ammirare.

Le case sono per lo più in pietra e ben curate, con persiane in legno, raramente aperte, terrazze fiorite e campanelli originali e si affacciano su un panorama fatto di monti e fitti boschi.

Tutta Rielli resta proprio di fronte alle verdi montagne.

Sono montagne assai particolari. In estate, quando la vegetazione è rigogliosa, mostrano un cuscino morbido di chiome prosperose. In autunno, un foliage davvero particolare di tinte forti. In primavera, annunciano lo sbocciare della nuova vita, e in inverno, dato lo spogliarsi di quegli alberi enormi, sono ben visibili i sentieri nascosti che servivano per spostamenti di vario genere a chi lì viveva.

Un dedalo nella foresta.

La stradina principale che non può accogliere auto ma solo motorette e motocarri è stata realizzata in cemento per alcuni tratti e costeggia il paese lasciando lo sguardo libero di poter ammirare quelle montagne vellutate.

Alcuni gradini, anch’essi in pietra, si inoltrano in salita e in discesa tra quelle abitazioni, disegnando vicoli stretti che permettono però al sole di entrare e, tra quei massi chiari e il calore dei raggi, alcuni Gechi e molte Lucertole si godono il tepore di quelle immobili giornate.

I Corvi Imperiali accompagnano in quella quiete, spiccando nell’azzurro del cielo con il loro piumaggio nero e lucido. Sono gli esseri più movimentati vista la pace che c’è.

Ad una prima vista sembra proprio di essere in un luogo dove la quotidianità abbia deciso di lasciare il posto ad altro, partendo per le vacanze, ma non è affatto così.

Se si sa ascoltare si può percepire il rumore di una motosega che lavora nei campi, il verso degli uccellini allegri e il ronzio degli insetti indaffarati, il battere di qualcuno che lavora e sembra proprio di essere nel classico “C’era una volta…” dove le fiabe diventano realtà.

Non è difficile aggiungere, con un po’ di fantasia: una nonna che chiama dall’uscio i bimbi perché il pranzo è pronto, il profumo di legna bruciata nel camino per scaldarsi, l’odore di una torta alle mele e le campane che suonano a festa.

L’obbligo di dover zampettare e non poter usare le topo-mobili ci permette di assaporare tutto questo.

L’auto la si deve infatti lasciare all’inizio del paese di Cetta Soprana, in Piazza XXV Aprile dove ad accoglierci c’è un caratteristico monumento dedicato ai Partigiani che lì vissero, battagliarono, si nascosero e camminarono in lungo e in largo per quei monti.

I loro nomi sono accompagnati dai soprannomi, gli stessi che si possono vedere sulle lapidi nel piccolo Camposanto. Davvero toccante.

Rielli è così curato da avere persino un Parco Giochi tutto suo, proprio in mezzo al bosco, all’ombra di grandi Castagni che sono serviti anche per essere i pali di geniali altalene realizzate con i copertoni delle auto.

Ogni più piccolo scorcio ricorda attenzione e impegno. Un affetto profondo verso il luogo natio.

Un luogo che ha visto crescere tanti dei nostri nonni.

Un luogo che ha visto nascere timidi corteggiamenti sul Ponte di Mauta, violente e terribili fucilazioni tra alberi secolari, la raccolta e la lavorazione dei doni di Madre Terra.

Un luogo capace di rimanere nel cuore per chi lo visita.

Dove l’avanzare degli anni sembra essersi fermato tra quei sassi che formano rifugio.

Un luogo che è poesia per tutta la Valle e anche estremo confine verso la Val Nervia e, di conseguenza, la Francia.

Devo però ammettere che l’immaginazione, così facile qui da arricchire, porta un po’ di malinconia.

E’ un luogo talmente magico che si spera davvero di percepire ciò che vi raccontavo poc’anzi. Fisicamente e realmente intendo.

Beh… chissà… dicono che i borghi dell’entroterra stanno iniziando a ripopolarsi. Ho visto tantissime case in vendita e a poco prezzo. Sarebbe davvero magnifico se un giorno, tutto questo, tornasse a farsi sentire vivo nell’eco della Valle Argentina.

Non mi resta quindi che mandarvi un bacio malinconico ma non sono triste, bensì molto felice di aver assaporato questa atmosfera unica!

Vi aspetto per il prossimo tour, non muovetevi! Squit!

 

 

Nel Regno di ghiaccio – tra Garlenda e il Saccarello

Oggi, cari Topi, non vi porterò a fare una semplice escursione ma vi condurrò, assieme a me, all’interno di una fiaba. Una fiaba che ci regala la nostra splendida Valle. Una fiaba che ha inizio presso il Passo di Garlenda dove un potente Mago, attraverso un incantesimo, ha ghiacciato un intero Regno.

Tornerà a brillare il sole diradando questa fitta coltre di nebbia?

Il gelo lascerà il posto alla primavera?

Scopriamolo insieme prendendo come spunto un fenomeno meteorologico che crea atmosfere incredibili per realizzare una fiaba che farebbe invidia persino ai fratelli Grimm attraverso la sua scenografia.

Dal Passo della Guardia, sopra l’abitato di Triora e oltre Gorda, intraprendiamo il sentiero in salita, un po’ faticoso da percorrere per chi non è abituato a camminare, e ci dirigiamo verso il Passo di Garlenda salendo verso creste che fan da confine tra la Valle Argentina e la Valle Arroscia.

Abbiamo attraversato anche il Bosco del Pellegrino che, avvolto da una spessa bruma, appare come un luogo incantato della Terra di Mezzo. Alcuni personaggi del Piccolo Popolo sono sicuramente nascosti qui da qualche parte, nel sottobosco di questa macchia.

Ma andiamo avanti, le vette ci aspettano e iniziamo ad arrampicarci per il sentiero che vi ho citato, il quale, permette di raggiungere molti altri luoghi oltre alla zona di Garlenda.

L’umidità la fa da padrona, tutto gocciola attraverso stille trasparenti che bagnano e rinfrescano l’aria. Sono le uniche forme di vita che si permettono di fare rumore.

Qualche piccola pigna giace su quell’erba tagliata dalla stradina. E’ un’erba che ancora non ha mutato il suo colore e appare riarsa dal freddo che padroneggia da diversi mesi.

Il silenzio si fa sempre più pesante, più si sale e più le gocce si zittiscono costrette a immobilizzarsi legate da temperature assai basse. Non possono più lasciarsi andare nel vuoto tuffandosi a terra, bensì restano ghiacciate attaccate ad ogni cosa.

Tutto si è trasformato all’improvviso. Tutto è immerso nel ghiaccio. Tutto è sospeso, come in attesa, in un luogo senza tempo.

La montagna sulla quale mi sto arrampicando mostra ora una barba bianca che prima non aveva.

Ogni stelo d’erba è ricoperto da minuscoli fiocchi gelidi e candidi. Trasparenti coperte, lucide e ghiacciate, abbracciano bacche e rametti.

Sui massi, una fredda corazza lascia muovere dell’acqua tra se stessa e lo scoglio. La si vede oltre quello scudo ed è l’unico movimento percepito in mezzo a quella natura che appare totalmente immobile.

Davvero pochi i segni di vegetazione se non dati da una pianta chiamata con un nome decisamente appropriato in situazioni come questa: Semprevivo.

Su Cima Garlenda, persino le rovine delle vecchie costruzioni militari sono ricoperte dalla neve. Proprio così. Qui c’è anche la neve. Tutto è bianco. Assolutamente bianco.

I resti delle vecchie casermette si vedono appena vista la foschia. Le pietre grigie sembrano più scure del solito in mezzo a tutto questo candore.

So esserci il Monte Frontè dinanzi a me ma non posso vederlo, la nebbia è troppa e io devo dirigermi verso la parte opposta. La mia meta è il Monte Saccarello.

E’ proprio grazie a questa grande quantità di nebbia che si può ammirare la galaverna, precipitazione atmosferica che vi spiegai in questo post https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2020/03/13/lincantesimo-della-galaverna/

I rami spogli degli alberi sono pieni di stalattiti ghiacciate costrette dal freddo ad una posizione orizzontale. Sono le gocce che hanno dovuto seguire obbligatoriamente la forza importante del vento e ora hanno reso quell’ambiente totalmente surreale.

Non è possibile che sia vero. Pare tutto così assurdo.

Quell’aria mi taglia il viso ma sono ben attrezzata e posso andare avanti. C’è l’obbligo di ramponi, al di sotto dei fiocchi farinosi si toccano lastre scivolosissime.

Avanzo, camminando in cresta, fino a raggiungere il Rifugio Sanremo ovviamente blindato in questa stagione. So di essere a 2.054 mt s.l.m. e riesco a vedere la struttura solo avvicinandomi parecchio a lei. Una breve sosta e riparto.

Alla mia sinistra posso ora captare e a volte vedere il vuoto dell’abisso di fianco a me. Devo fare attenzione a dove metto le zampe mantenendomi a destra. Mi sto dirigendo verso il Saccarello e, laggiù in fondo, quindi, alla fine di questo lungo dirupo, ci sono i paesi di Realdo e Verdeggia.

Lunghi tratti di bianco e silenzio assoluto mi aspettano prima di giungere al secondo Rifugio.

Si tratta del Rifugio La Terza decisamente più grande di quello precedente. Ora sono a 2.060 mt s.l.m. non è cambiato molto rispetto a prima, come altitudine, ma cambierà da adesso. La mia meta è in salita.

Riparto. E’ faticoso. L’aria e il terreno non mi aiutano. Il freddo neanche. Ma devo farcela per sciogliere l’incantesimo e continuo decisa. Non vedo nulla attorno a me. Sono diverse ore che i miei occhi osservano solo bianco… bianco… bianco….

Mi fermo, riprendo fiato, riposo ma senza mai un ripensamento e dopo altri passi… c’è una figura laggiù in fondo. Un’ombra scura si staglia leggermente in quella foschia.

Sono arrivata. La statua del Redentore si innalza in tutta la sua bellezza. La galaverna ha colpito anche lei, in modo significativo, donandole un aspetto incredibilmente affascinante.

Ce l’ho fatta. Non posso raggiungere la vetta del Saccarello, non ho più tempo, devo fare ritorno perché la montagna e la natura hanno i loro tempi e devo rispettarli ma sono comunque giunta dove volevo arrivare.

Mi preparo a tornare indietro e percorro diversi metri quando una potente folata di vento mi obbliga a girarmi verso l’altra sponda della Valle Argentina.

I miei occhi si spalancano dall’entusiasmo. Le nuvole si diradano permettendomi di vedere una bellezza infinita che non ha eguali e non mi consente di proferir parola.

Vedo il Monte Gerbonte, il Grai e tutte le altre montagne alle quali sono molto affezionata. Il cielo si tinge di azzurro e alcuni raggi del sole penetrano prepotentemente tra quelle nubi scaldandomi le guance. Ora vedo. Ora posso vedere. E non ho parole per descrivere tanta meraviglia consentita al mio sguardo.

Mi giro indietro, vedo di nuovo il Redentore che da poco ho salutato. Eccolo. Ecco dov’ero poc’anzi. Mi giro a destra, sono euforica. Riesco ad ammirare persino la Valle Arroscia e il suo distendersi tra quei monti.

Davanti a me, adesso, il Monte Frontè è ben visibile e lo sono anche Realdo e Verdeggia ora.

Alcuni pezzetti di ghiaccio si staccano da quelle piante appesantite e io sono circondata dalla bellezza.

Che splendore, non riesco neanche a descriverlo. Ne è valsa davvero la pena.

Approfitto di quel calore concessomi dalla luce solare e mi dirigo nuovamente verso Garlenda per far ritorno. Penso proprio di aver annullato l’incantesimo che ha trasformato questi luoghi in un Regno di Ghiaccio.

Penso di aver sconfitto il potente Mago. Sorrido.

Sorrido come se davvero vivessi una favola e faccio ritorno verso la tana.

Scendendo per il sentiero che mi riporterà verso Passo della Guardia mi trovo di nuovo in mezzo ad una natura che non è più gelata.

Alcuni Camosci si godono il sole sdraiati sui pascoli sopra Rocca Barbone e nei monti attorno. Qualche Cincia svolazza felice da un albero all’altro e c’è persino qualche insetto a dare segni di vita.

Una vita straordinaria che mi godo soffermandomi un secondo ad ammirarla e respirarla. Ho forse vissuto un sogno?

Ce l’ho fatta, non mi resta che lasciare questo posto trattenendolo nel mio cuore e attendere la prossima magia.

Che ne dite Topi? Vi è piaciuta questa fiaba? Un pizzico di fantasia in un tour che ho intrapreso realmente e che consiglio solo ad esperti perché, altrimenti, si può patire parecchio viste le condizioni avverse che ho incontrato. Non avventuratevi mai se non siete preparati o non avete qualcuno che sappia guidarvi davvero.

Non mi resta che salutarvi. Vado a preparare una nuova storia.

Un bacio gelido a voi!

Da Colle Melosa al Rifugio Grai

Esiste un sentiero che da Colle Melosa porta al Rifugio Grai posizionato sul monte omonimo.

E’ un sentiero che taglia una montagna dall’altezza ridotta, un po’ in salita e anche un po’ faticoso a scendere, visti i tratti con abbondanti pietre al suolo ma assolutamente fattibile.

Da fare se si vuole poi godere di un panorama davvero mozzafiato, spesso reso ancora più incredibile dai giochi che le nuvole si prestano a mostrare. E sono giochi stupendi, mai banali.

Subito dopo la Locanda di Colle Melosa, si sorpassa il rudere di una vecchia postazione militare, un piccolo edificio e una baita continuando a rimanere sulla strada principale.

Dopo pochi metri, oltre questa casa solitaria, anziché continuare per lo stradone che diventa sterrato, ci si inoltra in un percorso ben visibile che inizia sotto l’ombra di diverse Conifere. Si tratta di una stradina che rimane sulla destra ed è unica, senza deviazioni, basta salire.

Salire, sì, certo. Ma, attenzione, occorre tener presente che gli occhi servono ben aperti e serve guardarsi attorno.

Il motivo è la presenza di molta fauna e avifauna che popola quella zona. Non sarà difficile infatti notare sulle montagne di fronte Caprioli e Camosci o Aquile e Corvi Imperiali sorvolare quei cieli.

Tenete anche conto che stiamo per raggiungere un luogo abitato dai Gracchi Alpini. Ebbene sì, questi uccelli, simili a dei Corvi ma più piccoli, hanno preso residenza da parecchi anni proprio sul Rifugio.

Ma andiamo con calma, abbiamo un po’ di strada da fare anche se siamo su un cammino abbastanza breve. E’ interessante anche la natura che ci circonda più da vicino e che quasi calpestiamo.

In questo periodo stanno nascendo i primi Crocus che, ancora chiusi e timidi, si rizzano tenaci in mezzo ai fili d’erba inariditi dal gelo. Sono molto teneri ma danno un tocco di colore in mezzo a tutte quelle tinte ancora assonnate e, a bassa voce, parlano già di primavera.

Tra il Semprevivo che ha patito l’umidità invernale e aspetta il caldo, si può notare anche la Stregona Candida con le sue foglie spesse e lanose che spuntano tra gli steli di quello che sembra essere fieno.

Questi doni di Madre Terra si iniziano a intravedere dopo aver abbandonato le Conifere a inizio percorso, le quali, sono splendide da osservare quando, ricoperte di nebbia, si bagnano fino a gocciolare dai loro aghi stille d’acqua come se piovesse.

Il resto del sentiero è all’aperto e sotto il sole, soprattutto durante la prima parte della giornata. La bruma però scende sovente nel pomeriggio e al calar della sera se non si è in piena estate.

Già salendo lo sguardo viene appagato da un bel vedere unico. I monti intorno sono bellissimi e le nuvole, sempre più basse rispetto a noi, sembrano giocare a rincorrersi muovendosi veloci nel cielo. Sembrano enormi coperte di cotone. La loro presenza però non ci ha proibito di godere di un’alba bellissima come sempre accade qui a Colle Melosa.

Il Rifugio, nostra meta, lo si può già vedere. E’ incastonato nel Monte Grai come una pietra preziosa e mostra tutta la sua facciata principale. Lunga e grigia.

Le sue finestre oggi sono delle aperture senza protezione ma un’unica grande finestra è la vista che offre su tutta la mia Valle.

Giunti alla sua base non si può non ammirare il Monte Gerbonte, il più vicino a noi da qui che, meno alto degli altri, riposa in tutta tranquillità in mezzo alla Valle.

Ma la sua immagine ci mostra una montagna davvero caratteristica e spettacolare con le sue rocce che salgono verso il cielo e le distese di Larici che lo ricoprono. Appare ruvido, severo, ma se lo si guarda in autunno, grazie al generoso foliage dei suoi alberi, regala palcoscenici molto colorati e dona calore.

Da qui ci si incanta anche a vedere la famosissima Diga di Tenarda. Un lago artificiale creato all’inizio degli anni ’60 e che, in questa stagione, sembra un lago selvaggio del Québec. Una piccola parte delle sue acque è ancora ghiacciata, se ne denota il brillio, ma lo spettacolo più intenso lo regalano gli alberi attorno che riflettono la loro figura in quello specchio immobile.

E’ meraviglioso poter vedere la Catena Montuosa del Saccarello. La si vede perfettamente stagliarsi contro l’infinito. Si riconoscono tutti i miei monti, uno per uno, e fra loro è ben visibile anche il Passo della Mezzaluna.

Ci si può sedere su quelle pietre e su quel bordo che mostra il dirupo. Ci si può sedere e ammirare tutto con serenità. Quello che si vede riempie il cuore nella sua zona più profonda e un senso di gioia pervade tutto il corpo. E’ bellissimo, è come essere in cima al mondo.

A scendere, come vi dicevo, si può faticare un poco a causa delle pietre, alcune dissestate, che si incontrano lungo il cammino ma vi assicuro che non c’è nulla di difficoltoso in questo.

Si fa quindi ritorno alla Locanda dove ci aspetta la Topomobile e, piena di ricchezza dentro me, posso rintanare.

Non mi resta che lasciarvi un bacio grande quanto grande è ciò che ho visto e andarvi a preparare il prossimo articolo che sarà davvero suggestivo.

A presto quindi! Squit!

Il sentiero oltre le mura

Triora è un borgo meraviglioso da visitare. I suoi carruggi raccontano di storie antiche, di streghe, di battaglie e signorotti.

È suggestivo camminare per quei vicoli, toccare le pietre che reggono quelle case imponenti, ammirare i contrafforti che parlano di unione.

Appare assurdo notare come, in alcuni punti, i potenti raggi del sole non riescono ad entrare nonostante stiano picchiando su ogni tetto con forza e calore. Si possono ben vedere e ben sentire, fuori le mura del paese.

Ai confini di quell’abitato che da qui, senza più case attorno, mostra la mia splendida vallata. Fuori le mura che, un tempo, chiudevano il villaggio in un mondo a sé, totalmente autonomo. Fuori da mura che proteggevano chi viveva all’interno.

Ed è da qui, verso Sud, che nasce un sentiero panoramico assolutamente da percorrere, costeggiando così Triora dall’esterno. È un sentiero a salire che ci porterà verso la parte più alta del paese ma, soprattutto, ci farà giungere in uno dei luoghi più noti di tutta la Valle Argentina.

Si tratta della “Cabotina”, un piccolo spazio dove molti molti anni fa, secondo la voce del popolo, le streghe si ritrovavano di notte per ballare col diavolo.

La natura è assai presente lungo questo percorso ben delineato in terra battuta e ciottoli.

Oltre ad alberi spogli e arbusti verdi posso già notare fiori di Calendula e Borragini destinati ai più golosi. Preziosi doni di Madre Terra già sbocciati nonostante il freddo mese di gennaio.

È entusiasmante vedere da qui Molini di Triora laggiù in fondo. Lo si vede in tutta la sua grandezza, disteso lungo il torrente. Di lui si notano i tetti rossi delle case, il campanile della chiesa e i monti che lo circondano. Si vede bene anche la Strada Provinciale che si percorre per salire su in Valle, partendo dal mare.

Al di sopra sonnecchia Andagna appoggiata sul monte. E’ riconoscibile anche la sua piccola chiesetta di San Bernardo alla sua destra.

Anche il paese di Corte è una meraviglia visto da qui incorniciato da foglie vive e turgide.

Ebbene sì, da come potete vedere, la vista è ampia e splendida.

All’inizio di questo percorso, ciò che resta di quelle mura in pietra, si vede ancora bene e, in principio, si passa sotto ad una volta, anch’essa in pietra, che un tempo doveva essere una delle varie entrate nel villaggio. E’ stretta e ricoperta di rovi. Immagino guardie davanti a lei a controllare il territorio. Chi si avvicinava e chi usciva dal borgo.

Tratti di quelle rovine accompagnano lungo tutto il cammino, anche se di loro è rimasto ben poco e, quel poco, oggi, è ricoperto da una natura selvaggia e ingorda.

Ci sono delle costruzioni. Sembrano vecchie case. Sono dei ruderi. Si individuano delle finestre e delle porte nelle pareti restanti. Forse erano le case delle sentinelle o abitacoli nei quali accordarsi per decidere come muoversi contro il nemico.

Continuando si arriva in un punto in cui degli scalini e un po’ di salita ci portano sempre più vicino alle zone abitate dalle streghe. Dei paletti di legno servono da ringhiera e muretti in pietra, più recenti, formano quel tratto di strada.

Il piazzale nel quale si giunge è lastricato di pietre piatte e lisce. Ci si può ballare sopra sicuramente ma le bazue, di certo, avranno danzato su un terreno più rude.

Anche da qui un altro splendido panorama arricchisce gli occhi. Si può vedere una parte della Catena Montuosa del Saccarello ed è una meraviglia.

Alcune piccole porte in legno sono dipinte. Sono diverse le porte disegnate in questo paese conosciuto come la “Salem d’Italia”.

L’atmosfera è diversa adesso rispetto a prima. Si entra nell’arcano.

La rappresentazione di una bella strega dai capelli rossi lo conferma. Accanto a lei uno scaffale pieno di erbe essiccate per ricordare gli elisir e le pozioni che queste donne creavano.

Donne vissute nel XV secolo e perseguitate dall’Inquisizione che qui, a Triora, è stata davvero protagonista per molti anni.

Una passeggiata breve, tranquilla, da fare se ci si vuole rilassare e per vedere questo paese, conosciuto in tutto il mondo, e la mia Valle anche da un altro punto di vista.

Ora mi guardo i vecchi casoni che si trovano proprio qui, alla fine di questo sentiero.

Un bacio stregato a voi! Alla prossima!

Quando un ponte si fa incanto

In Valle Argentina ci sono luoghi che offrono ambienti suggestivi e sempre diversi ogni volta che ci vai, a seconda della stagione e delle condizioni meteorologiche del momento. Ecco perché certi scorci vanno assaporati in occasioni diverse, per poter godere della bellezza che Madre Natura offre e che sa dipingere in modo sempre differente.

Oggi vi porto a visitare un posto che definire fiabesco è poco, conosciuto e visitato soprattutto da fotografi e appassionati di epiche storie fantastiche, non a caso, aggiungerei. Sto parlando del ponte di Creppo e dei suoi dintorni, attraversati da sentieri variegati in cui è bello perdersi e abbandonarsi all’avventura.

Per scendere giù, fino alle acque limpide e cristalline del torrente, si imbocca il sentiero dalla strada provinciale, subito sotto l’abitato di Creppo. Volendo, da qui si potrebbe arrivare a Drondo, a Ca’ de Bruzzi, al Gerbonte e in altri luoghi meravigliosi, ma oggi il nostro breve tour si fermerà al ponte.

albero

Si scende dolcemente, seguendo i profili soleggiati delle campagne e dei prati assolati, dove gli alberi da frutto sono spogli. Siamo accompagnati dalle pietre rustiche dei muretti a secco, quei massi che caratterizzano la mia terra e ai quali sono affezionata.

Creppo muretti

Roverelle e Ippocastani svettano contro il cielo azzurro e terso, sono ormai spogli e i loro rami paiono dita nodose agganciate alla volta celeste.

Giungono anche due occhioni dolci a salutarci in questa nostra passeggiata e intorno è tutto un andirivieni colorato del giallo e del blu delle cinciallegre.

cavallo

Anche se siamo a gennaio, il tepore del sole scalda a sufficienza e ci permette di indugiare sul paesaggio senza rabbrividire. Il Gerbonte si erge davanti a noi, il suo volto aguzzo è piacevolmente familiare, punto fermo di tante passeggiate. Con lui, stretto in un abbraccio tra rocciosi parenti, c’è anche il Grai coperto di bianco.

gerbonte da creppo

Si abbandonano le bionde campagne per attraversare luoghi più umidi, si passa sotto rocce incombenti dalle quali piovono cascate di piante verdi e tende di rami ormai secchi.

rocce

E ancora la luce del sole si spegne un po’ di più, resta in alto e non ci raggiunge. Siamo assai vicini al torrente ormai. Si passeggia fra i tronchi delle conifere sempre rinverdite dal loro fogliame, alternate dalle spoglie latifoglie, che mostrano senza pudore il loro tronco nudo.

castagno

Ci sono anche castagni secolari, perfettamente riconoscibili in mezzo all’apparente desolazione della natura. I colori che prevalgono sono il marrone del suolo e il grigio-bruno degli alberi, ma c’è un’altra tinta che inizia a dipingere i massi: il verde brillante del muschio, talmente acceso da sembrare surreale.

muschio bosco

Poi, tutt’a un tratto, si gira una curva, si fanno due passi in salita e…

ponte di creppo

… ci si trova in un mondo del tutto diverso, magico e incantato come una fiaba, dove ogni cosa è coperta da uno spesso manto di brina. E il ponte di Creppo è là, immobile in mezzo al candore. Il suo suggestivo semicerchio è come la gobba della luna di cui oggi imita il pallore.

Sembra che la Bianca Signora sia passata di qua lasciando dietro di sé una scia come un sentiero di petali gelati da seguire. E io li seguo, eccome!

erba brina

Sembra incredibile che solo pochi istanti fa eravamo al sole, baciati dal suo calore, mentre adesso la punta della coda e del naso sono fredde, circondate da una temperatura ben diversa. Il terreno è duro di gelo, i fili d’erba scrocchiano sotto le scarpe al nostro passaggio, talmente sono gelati. E in alcuni momenti, il ghiaccio pare formare coi suoi merletti dei minuscoli fiori congelati, se ne contano persino i petali.

I profili delle nervature delle foglie cadute sono dipinti di bianco e tutto sembra ingioiellato da minuscole perle argentate.

foglia congelata

I rami più bassi protendono le loro dita ossute verso di noi, qualche volta indossano guanti di licheni e paiono volerci afferrare per farci restare un altro po’.

licheni

Anche le pietre del ponte antico hanno la loro morbida e bianca pelliccia, mentre sotto scorre l’acqua col suo scroscio costante, ma mai impetuoso.

scarponi

Saliamo su quel ponte, lo attraversiamo e in un attimo siamo dall’altra parte, pronti a salire di nuovo. La brina ci accompagna ancora per un po’, poi lascia il posto ai raggi del sole, che illumina gli alberi sui versanti dei monti e tinge il mondo di colori più vivaci. A questo punto, dopo una breve salita, il sentiero prosegue in piano tra ginestre, pini silvestri e castagni ritorti.

ponte legno creppo

E da qui si attraversa un altro ponte, questa volta in legno, ristrutturato dal Comune di Triora e co-finanziato dal Parco Alpi Liguri. Oltre quel ponte, qualche passo più in là, la cavalla dagli occhi dolci ci attende insieme all’abbraccio di Creppo.

cavallo sentiero creppo

Per oggi ci fermiamo qui, topi, ma presto vi farò conoscere altre meraviglie.

Un saluto incantato dalla vostra Prunocciola.

Quelle fessure chiamate “caruggi”

In Liguria, e quindi anche nella mia splendida Valle, le piccole vie che attraversano i borghi vengono chiamate “caruggi”. C’è anche chi li chiama “carrugi” o “carruggi” ma il significato è lo stesso.

Si tratta di stradine strette, a volte anguste, a volte splendide, dove i raggi del sole spesso faticano ad entrare e la gente, che vive in queste vie, è il cuore pulsante del borgo antico.

La parte più vecchia del paese. Quella costruita astutamente, come il guscio di una chiocciola, intorno a un dedalo di strade buie e socchiuse in modo che il nemico invasore potesse perdersi e rendersi così più vulnerabile.

La maggior parte di questi caruggi, che appaiono proprio come piccole fessure, sono dotati di contrafforti, strutture in grado di reggere e unire le abitazioni tra loro e attutire i vari spostamenti sismici di quegli edifici costruiti in altezza per rendere il borgo ancora più a chiuso come uno scudo umbone rovesciato.

Da alcuni di questi elementi architettonici veniva buttato olio bollente su chi si permetteva di invadere il paese. I caruggi infatti, sono pieni di nascondigli sia in basso che in alto e, ancora oggi, in alcuni di loro, si possono trovare gradini che scendono chissà dove o nicchie utili agli appostamenti.

Alcune di queste stradine hanno un aspetto tondo e dolce. Si passa sotto le case attraverso volte a semicerchio e le loro curve donano sinuosità. Possono mostrare il vermiglio arcaico dei mattoni pieni o pietre levigate che rendono il tutto più aggraziato.

Altre invece appaiono come affilate e taglienti, squadrate, e disegnano verso il cielo figure che sembrano geometriche.

Alcune sono davvero buie e molto fresche. L’umidità le rende come se fossero celle frigorifere all’aperto e non è difficile vedere del muschio nascere al suolo.

Altre ancora, un poco più aperte e magari più lunghe, sono solitamente addobbate con cura da chi le vive; i nomi dei caruggi vengono scritti in modo particolare, su lastre d’ardesia o dipinti di cerchi di legno.

Molti fiori abbelliscono le case, i numeri civici sono disegnati sul muro o su piastrelle decorate, e anche i panni stesi, appesi come un tempo, tra una finestra e l’altra in condivisione, donano un tocco di folklore e di colore.

Certi vicoletti sono così particolari che incantano. Statue, quadri, mosaici e roba appesa li rendono veri angoli artistici.

A proposito di ardesia, essa è sicuramente l’elemento più presente in questa ragnatela di viuzze. Naturale e resistente. Con essa si costruivano scale, portali, androni, lapidi, lastre e persino le tegole dei tetti delle case, chiamate “ciappe”, assolutamente tipiche nei miei luoghi.

La pavimentazione può variare. Ha solitamente righe a lisca di pesce intagliate nel cemento per poter frenare l’acqua e permettere di non scivolare a persone, carretti e animali come gli asini. Dovete sapere che alcuni caruggi sono molto in discesa e, se visti all’incontrario, molto in salita. Se si pensa ai nostri vecchi, che passavano di qui con pesi enormi sulla schiena, pare impossibile davvero immaginarli inerpicarsi per queste vie.

Venivano però usati anche i piccoli ciottoli di fiume e i sampietrini, mattoncini quadrati dalle sfumature rosse-violacee con i quali si potevano anche realizzare linee tonde che davano un senso di bellezza alla strada.

Il suolo doveva comunque essere ben praticabile dai carri, unici mezzi di trasporto assieme agli animali che potevano passare per questi vicoli e si pensa addirittura che, proprio la parola caruggio, derivi da “carro”.

C’è però chi afferma siano stati i Saraceni, i grandi nemici antichi dei Liguri, a dare questo nome nella loro lingua.

La parola “kharuj” significherebbe “di fronte al mare” o “sul mare” e potrebbe avere a che fare con la mia splendida regione.

Molti turisti amano passare sotto a questi portici e percorrere queste vie perché hanno davvero un fascino incredibile. Sono estremamente attraenti e raccontano di storia e passato.

Ancora oggi qualche vecchina resta per ore affacciata ad una finestra osservando la vita che passa o donando briciole ai piccioni che regnano indisturbati tra queste case. In realtà si vedono quasi ovunque dissuasori messi apposta per questi volatili ma hanno ben poco successo.

Le sigle di un tempo, scolpite nel marmo o incise nel ferro, e diverse Madonnine non mancano mai ma è facile vedere anche parecchie fontane per queste vie.

Ovviamente tutte una diversa dall’altra. Ognuna mostra il gusto di chi le ha realizzate.

Spero che questo articolo all’interno dei cuori dei paesi della Valle Argentina vi sia piaciuto, io vi lascio un bacio storico e vado a prepararvi un nuovo post.

Squit!

Dai Cubi al Garezzo sul manto nevoso

Con il termine “I Cubi”, in Valle Argentina, si intende la zona dal Passo della Guardia fornita di panche e tavoli atti a ricevere persone che hanno voglia di fare un bel pic nic godendo di un’atmosfera meravigliosa, immerse totalmente nella natura.

In questo periodo però è difficile poter godere di queste comodità, essendo ch’esse sono completamente ricoperte dalla neve.

Si prosegue pertanto, sopra a quel manto bianco, soffice e luccicante.

Si prosegue fino al Colle del Garezzo arrivando al Ciottu de e Giaie (Ciotto dei Torrenti).

Sembra di essere dentro ad una di quelle palle di vetro piene d’acqua, omini e puntini di polistirolo che si muovono dolci, se si scrolla quella sfera trasparente.

I rumori sono ovattati e sopra ogni cosa regna lei: la candida Signora.

Tutto ha un altro aspetto. Nuovo. Dalle sfumature cangianti.

I fruscii dei pezzi di neve ghiacciata che cadono dai rami diventano tonfi sordi al suolo.

Alcuni fili d’erba sono completamente immersi nel ghiaccio e, assieme all’acqua divenuta solida, formano strane figure bizzarre. Anche le gocce che cascano dai profili rocciosi sono adesso stalattiti fredde.

Rocca Barbone sembra il teatro di una fiaba. Il suo cappello è bianco e la severa falesia che la distingue appare ora ancora più aspra, colorata da quel grigio scura che risalta maggiormente.

Ancora pochi passi, percorro gli stessi metri fatti dai Camosci prima di me e posso godere di un panorama mozzafiato.

In primo piano vedo il Monte Pellegrino, meno imbiancato rispetto alle montagne alle quali do la schiena e, dietro di lui, si staglia davanti ad un mare color oro e azzurro Monte Bignone, solo e snello.

Zampetto per quella strada innevata senza sentire alcuna fatica, è tutto così bello che mi sento leggera come un piccolo insetto.

Il sole, prima dell’arrivo della foschia, scalda e brucia la mia coda ma è gradevole lasciarsi baciare da lui a quelle temperature.

Tutto è assolutamente bianco attorno a me. Alcuni riflessi azzurri delineano strane forme a terra.

Cumuli formati da neve, erba e vento sembrano il suolo di un altro pianeta e si immaginano extra-terrestri avanzare. Invece no, è sempre la mia splendida Valle Argentina che sa regalare scenari incantevoli e ogni volta diversi.

Sopra la mia testa volano indaffarati tantissimi Corvi Imperiali e Gracchi Alpini.

Sono così numerosi che mi par strano, tra loro, distinguere anche una coppia di aquile che subito si allontana.

Sono vivaci, forse affamati. Totalmente neri eppure riflettono così tanto la luce della Grande Stella da sembrar color argento.

Mi rendo conto di essere circondata anche da diversi Camosci.

Le mamme con i loro piccoli hanno formato un gruppetto che, tranquillo, si gode il sole su un prato bianco.

Alcuni invece passeggiano alla ricerca di cibo.

Altri ancora sbucano curiosi e un po’ impauriti dalle rocce e dai cespugli spogli mostrando a malapena il muso. 

E poi c’è chi sceglie comode postazioni per un riposino in totale relax, senza voler essere disturbato da nessuno. Davanti a me, intanto, si apre un nuovo scenario.

Il Poggio di Goina sovrastato da U Zimun (il Cimone) candido e tondo.

Dietro di loro, alla mia sinistra, lo splendore è dato da Alpi Liguri alle quali sono molto affezionata. Il noto Passo della Mezzaluna, completamente avvolto dal mantello immacolato, racchiuso tra Cima Donzella e Cima Arborea e, poco oltre quest’ultimo monte, l’adorato Carmo dei Brocchi. Alto, possente, austero e bianco anch’esso.

In mezzo al Passo svetta con un piglio di simpatica superbia persino Pizzo Penna.

Di fronte a me, dopo il Monte Faudo, una distesa azzurra e brillante indica il mare ed è impressionante vederlo da qui, stando con le zampe in mezzo alla neve, su questi alti monti.

Ora sono sotto al Monte Frontè.

Posso vedere la Madonna ricoperta dai fiocchi gelidi. Un forte contrasto con tutti quei pennuti neri, come il carbone, che le volano attorno.

Alcuni punti di questo tragitto possono risultare pericolosi in questo periodo dell’anno. Piccole o grandi slavine possono cogliere di sorpresa e alcuni pezzi di roccia possono spaccarsi e cadere nel vuoto. Occorre quindi evitare di stare sotto agli speroni di roccia e portarsi dove gli ambienti si aprono mostrando un territorio che gli occhi faticano a credere vero da tanto che è bello.

Le zampe scendono in quell’ovatta di 20 o 30 centimetri ed è bene avere un’attrezzatura adatta come scarponi e pantaloni impermeabili e ghette.

Si potrebbe anche ciaspolare ma non è così alta, ci si cammina dentro tranquillamente.

Le zampe fanno nuovi movimenti. È ovviamente diverso avanzare su questo terreno, meno stabile rispetto a quello estivo, ma è comunque piacevole.

Noto che anche il Gallo Forcello, del quale vedo le orme, la pensa come me. Dev’essersi divertito qua.

Era da parecchio che non vedevo il Colle del Garezzo con questo abito.

La neve, la vera protagonista, è bellissima, e riesce a far risplendere ulteriormente un mondo che già trovo affascinante di per sé.

Spero sia piaciuto anche a voi in questa sua nuova veste, così vi saluto sapendo di lasciarvi una graziosa visione.

Ma le mie avventure con la bianca Signora non sono finite qui. Aspettatemi perché ve ne racconterò e mostrerò delle altre.

Per adesso vi mando un bacio candido e vi aspetto per sgattaiolare ancora, assieme a voi, in diversi palcoscenici gelidi ma affascinanti della mia Valle.

I tramonti che non ti aspetti

Sapete che amo zampettare nei boschi e sulle creste rocciose della mia Valle, sono la mia passione principale, ma… ci sono giorni in cui mi piace passeggiare anche in riva al mare e godere dei suoi ritmi, dell’andare e venire di quelle onde salate che plasmano costantemente la costa ligure.

tramonto gabbiani

Un pomeriggio di questi mi trovavo proprio a zampettare in prossimità della spiaggia, col ritmico fragore del mare ad accompagnare i miei passi. Gli amici cormorani pescavano indisturbati tuffandosi in acqua, qua e là qualche gabbiano solcava il cielo e sulla sabbia i cani inseguivano i bastoni lanciati dai loro padroni.

In quel quadretto già felice e armonioso poi, nel giro di pochissime ore, il cielo s’è acceso di tinte così vivide da far spalancare gli occhi di meraviglia.

tramonto spiaggia sole

Sì, perché in Liguria, soprattutto nelle stagioni più fredde, le albe e i tramonti sanno regalare emozioni difficili da dimenticare.

Ti entrano dentro, urlano la loro bellezza a ogni tua cellula, e tu non puoi fare a meno di ammirarla e desiderare di portarla con te.

tramonto silouette

E allora, con la macchina fotografica tra le zampe, scatti un clic dopo l’altro, per cogliere ogni attimo, ogni istante di quello spettacolo naturale che incanta tutti. Ogni topo si ferma a rimirare tanta beltà e tutti cercano di immortalarla, i più con il topo-smartphone nella zampa.

Ma, ditemi, come si fa a restare indifferenti davanti a questi colori accesi, infuocati?

mare tramonto

Le onde del mare paiono diventare d’oro fuso, quando il sole le bacia più da vicino mentre si abbassa sempre di più verso l’orizzonte.

Laddove i raggi non giungono più, ecco che invece l’acqua si fa plumbea, ma al contempo si tinge di lievi tocchi violetti, come se invisibili dita macchiate di colore avessero indugiato sulla tela del mare sporcandola appena.

onde tramonto

E i viola! Ah, topi, le sue sfumature tolgono il fiato a chiunque! Lilla, rosa, violetto, indaco… sono tutti colori di cui la tavolozza dei miei cieli è assai ricca.  Vengono sfoggiati quasi con spudorato orgoglio, affinché noi che abbiamo le zampe ben piantate a terra possiamo goderne appieno.

porto tramonto

Tutto si trasforma, ogni cosa assume tinte diverse e va a creare scenari fantastici; le barche cambiano colore, i profili scuri dei pescatori sui moli fanno contrasto con le onde dalle tinte cangianti, le banderuole si stagliano su spicchi di cielo surreali e inverosimili,  ma… ma tutto non dura che pochi minuti.

tramonto1

La notte incalza, reclama il suo regno fatto di ombre e di buio. Il sole tenta un po’ di ritardare il suo tuffo simbolico nel mare, pare fermarsi un secondo, indugiare. E, in quel suo apparente tentennamento, tira fuori tutta la luce e tutti i colori di cui ancora dispone, in un ultimo guizzo d’energia prima di abbandonare queste latitudini e andare a colorarne altre.

banderuola tramonto

Un miracolo, topi. Un incanto. E io sono grata e fortunata perché posso godere di tanta meraviglia, ma voi lo siete con me, perché ci sono io a mostrarvela, anche quando non potete goderne di presenza.

Un saluto colorato a tutti!