La bazua spaventata ritira l’incantesimo

Oggi vi racconto un’altra storia, accaduta davvero, nella mia Valle, molto tempo fa.

Siamo nei dintorni di Casa Cuumbeia (Columbera) e ci troviamo nel piccolo paese di Agaggio.

Nonna Rosa aveva da poco partorito una splendida bambina sana, paffuta e rosa come una pesca, affettuosamente chiamata Netin, diminutivo di Anna.

Quella bimba era l’orgoglio di mamma e papà e riceveva sempre molti complimenti da tutti gli abitanti del posto perché aveva un visino bellissimo ed era anche quieta e serena.

Tra quelle persone però, viveva anche una vecchia, che trascorreva la sua vita isolata dalla comunità ed era conosciuta come una signora un po’ strana. Tutti la chiamavano “la bazua” e cioè “la strega”.

Un giorno, questa vecchia, bloccando il passo a Rosa, si avvicinò alla piccola neonata e, con fare malizioso, la accarezzò e le fece diversi complimenti. La Nonna rimase un po’ turbata da quell’incontro ma non ci fece caso più di tanto. Continuò a passeggiare con la sua piccola e poi rincasò.

Quella stessa sera la bimba iniziò a piangere senza nessun motivo e non ne voleva sapere di attaccarsi al seno materno per nutrirsi. Un comportamento che non era certo da lei, sempre allegra e tranquilla. Nonna Rosa iniziò a preoccuparsi un po’ e, quando giunse a casa suo marito, Nonno Augustin, gli raccontò dell’incontro con la vecchia bazua.

Il buon Augustin, dopo aver osservato la situazione e soprattutto quel comportamento anomalo della figlioletta, non ci pensò due volte. Guai a toccargli la famiglia.

Uscì per strada e si diresse immediatamente verso la dimora della strega. Un tempo nessuno chiudeva a chiave la porta di casa, anzi, la chiave veniva lasciata addirittura nella toppa e quindi, quell’uomo, risoluto e arrabbiato, poté piombare nella cucina della megera senza neanche chiedere il permesso. Convinto di avere tra le mani la colpevole del disagio di sua figlia, la prese per il collo e senza delicatezza alcuna le disse《Cos’hai fatto a mia figlia?!》 ma senza neanche aspettare risposta continuò《Vedi di porre subito rimedio altrimenti io…》

La donna, spaventata da tanto impeto, non gli lasciò neanche finire la frase e cercò subito di rassicurarlo dicendo 《 Torna pure a casa! Da questo momento la tua bambina sta bene! 》

Infatti, quando Nonno Augustin tornò a casa, la sua piccola stava bene. Aveva mangiato e ora dormiva serena sognando meraviglie.

Ancora una volta vi chiedo: coincidenze? Realtà? Suggestione? Superstizione?

Non si sa e non si saprà mai ma così andò.

Gli avvenimenti, oggi racconti, pieni di mistero, sono sempre esistiti nella mia Valle. Oggi non se ne sentono più. Come se non accadessero più ma c’è qualcosa ancora, come un velo sottile, che aleggia su questi luoghi e che non intende far dimenticare.

La magia, l’atmosfera, le circostanze di una Valle magnifica, resa ancora più ricca e suggestiva anche da chi, prima di noi, l’ha abitata.

Spero vi sia piaciuta questa storia e ringrazio la mia amica Vale per avermela raccontata.

Vi aspetto per il prossimo misterioso racconto di malocchio, fatture e rimedi che riguardano una cultura antica. A volte una medicina popolare, a volte tradizioni e usi, a volte, invece, il coraggio di chi, per difendere la propria famiglia, affronta anche le streghe. Ma che potere queste bazue!

Un bacio da brivido!

Pigmy Jones e il muretto impraticabile

Eccomi qua, pronta a raccontarvi la mia ennesima topoavventura. Questa volta, il primo che ride lo banno e non lo faccio più entrare nel blog, sappiatelo.

Allora, l’altro ieri, un bel pomeriggio di fine aprile, Pigmy e tutta la sua allegra famiglia di topolini decidono di andare a fare una bella scorpacciata in montagna. Una volta riempite le pance, avrebbero camminato lungo un bellissimo sentiero nel bosco fino a un santuario in mezzo a un prato, dove i cuccioli avrebbero sicuramente dato sfogo alla loro felicità.

Portiamo con noi il nocciolo-pallone. Chiunque avrebbe volentieri dato due calci a quella cosa pseudo-sferica che ruzzolava un po’ ovunque. Arriviamo davanti alla chiesa. Le piante, i fiori e il panorama sono bellissimi e, davanti al santuario c’è una bellissima Madonna azzurra che…. avrebbe dovuto benedirmi, ma probabilmente quando mi ha visto si è girata dall’altra parte.

Avrei visitato volentieri l’interno della chiesa, ma era chiusa, per cui, dopo averci girato intorno, ci siamo accomodati sulle panchine di legno mentre i piccoli giocavano instancabili. A un certo punto, il pallone scappa sopra a una sorta di alto terrazzamento. Un muro di pietre e delle rocce lo frenano e il pallone rimane incastrato tra le radici delle piante. Con un lungo bastone riusciamo a tirarlo giù per ben due volte. La terza volta, ahimè, il pallone, vola ancora più in alto, nella boscaglia e il bastone, a quel punto, non serve più. Bisogna arrampicarsi su quel muro, alto quasi tre metri, e arrivare così ai piedi del bosco.

Chi parte per arrampicarsi? Io, naturalmente. Tsk! Che problema volete che ci sia? Sono cresciuta arrampicandomi ovunque: alberi e muri, per me, non hanno mai avuto segreti.

Vado tranquilla. Primo piede, mano. Secondo piede, mano… l’agilità di una topina è indescrivibile, ve l’assicuro. Et voilà, arrivo in cima in un batter d’occhio, nessun problema, ormai ho da fare l’ultimo slancio di gamba per poter davvero dire di essere  nel bosco. Lo slancio l’ho fatto, sì, peccato che l’ultima pietra sulla quale poggia il mio piede fuoriesca da quel perfetto puzzle tridimensionale. Cade al suolo, lasciando entita il vuoto sotto di me. Mi faccio forza con le zampe anteriori, ma la pietra, creando un buco nel muro, fa sì che tutte le altre pietre la seguano.

Sono riuscita a devastare un’opera d’arte di anni e anni fa.

Cado come un sacco di patate, tre metri di volo. Rovino per terra, le pietre tutte addosso e ovunque intorno a me. Picchiano così forte da sembrare una lapidata, in quel momento. Topobabbo con la sua topocompagna e i topini rimangono letteralmente senza parole.

Mi rialzo in men che non si dica per non farli spaventare. Topino stava già per mettersi a piangere e allora mi son messa a ridere prendendomi in giro da sola. Topina, invece, assorta com’era a contemplare una mosca, della mia rovinosa caduta non je ne poteva frega’ de meno. Che donna! Anche topobabbo, per cercare di salvarmi si è preso qualche pietra addosso, ma per fortuna non è successo niente di grave.

Non mi sono fatta nulla e quindi, imperterrita, torno a riprendere il pallone che era ancora là. Questa volta devo passare dalla roccia rimasta, non ho altra scelta. Mi arrampico nuovamente ed eccomi in cima, come una conquistatrice testarda pronta  a prendere la palla colorata.

Mi accuccio per afferrarla con le mani e, all’improvviso, tutto il mio braccio, la mia coscia e il fianco iniziano a riempirsi di un sangue rosso vivo che gocciolava, anzi sgorgava, incessante… dalla mia testa! Niente panico… l’unico problema sono i topini, provo a evitargli la scena, ma è così copioso che tutti gli altri topi non pensano ad altro che a me.

Ridiamo loro il pallone e li mandiamo a giocare, ma non sono intenzionati a obbedire. Topino accorre alle borse per cercare dei fazzolettini di carta. Il mio amore… (topini svezzati e pronti a tutto). Tutti mi prendono e mi buttano la testa sotto una fontana di  acqua ghiacciata. Per fortuna!

Topobabbo è preoccupato, non riesce a capire da dove esca il sangue perchè è così tanto che sono completamente rossa ovunque: testa, orecchio, collo, capelli… tutto. Mi lava, mi tiene premuta la ferita… insomma, è eccezionale, considerando che anche lui ha un polso gonfio per via di una pietra che gli si è rovesciata addosso nella mia caduta. Decidiamo di tornare indietro e la gentilissima coppia di gestori del ristorante nel quale abbiamo mangiato mi offre del ghiaccio. Non voglio altro, capisco di stare bene e, dopo circa un’ora, la ferita inizia a rimarginarsi. Ora scende solo una gocciolina di sangue ogni tanto.

Dallo zampillo che faceva prima, sembrava quasi che qualcuno avesse sgozzato un vitello! Non immaginavo che da un taglietto in testa potesse uscire così tanto sangue. Probabilmente, oggi il santuario non ha voglia di essere rimirato, oppure non ci sono più i Romani che fanno i muretti come si deve.

A parte gli scherzi, quel muro dietro era vuoto, mai visto un muretto così. Anche le nostre terrazze sono pietre appoggiate soltanto, ma sono ancorate al terreno… Babbo dice che quelli si chiamano muri morti. Ho imparato una cosa nuova e pensate che, prima di andare via, abbiamo anche dovuto ricomporlo, altrimenti guai a lasciare davanti a un luogo sacro uno scempio simile: i miei amici della valle mi avrebbero inseguita per mari e per monti.

Comunque io sto bene, davvero. mi sento solo la schiena e la gamba un po’ indolenzite, ma la testa sta bene. Ce l’ho dura! Per ora, dunque, posso ancora continuare  a scrivere i miei post.

Va be’, dai, prima scherzavo: potete ridere, se volete. Ho riso anch’io pensando alla caduta, perchè credo di essere stata buffissima. Chissà se ho fatto il triplo carpiato? E topobabbo mi ha detto: «Pigmy, te l’ho già detto mille volte che sei un Jerboa e non uno scoiattolo volante!».

Un bacione a tutti!

Vostra Pigmy

M.

Mitico Topononno – il “rapimento” della nipote

Quale miglior post, per iniziare l’anno nuovo, se non con un’altra delle mie tante avventure? Questa topi, non ve l’ho ancora raccontata. Un’altra che riguarda me ma anche il mio topononno. Nonno paterno, lo sottolineo, perchè è importante per la storia che sto per raccontarvi.

Siamo nel 1980, io ero davvero uno scricciolo. Una coppia di amici di mia nonna, ma in questo caso parlo di nonna materna, scendono da Milano per passare qualche giorno in nostra compagnia.

Sono amici di questa mia nonna e di mia mamma. Conoscono anche mio padre, ma il padre di mio padre non l’hanno mai visto e, allo stesso tempo, nemmeno quest’ultimo sa della loro esistenza. Ho dovuto farvi questa premessa perchè questi due, marito e moglie, due persone tra l’altro molto educate e per bene, decidono di portarmi a fare un giro  a Bussana per stare un po’ con me essendo, all’epoca, l’unica cucciola di casa.

Non hanno potuto avere figli e io ero sono come una nipote, per loro.

Andiamo a Bussana, facciamo una passeggiata, prendiamo un gelato, mi concedo un giro sugli scivoli dei giochi per i bambini e poi, i due, decidono di andare in un bar-trattoria a prendere un caffè e a riscaldarsi un po’. Era inverno.

La proprietaria prepara loro il caffè e il punch richiesti e, proprio mentre stanno consumando la loro ordinazione, un gruppo di cacciatori, finita la battuta, entrano a bersi in compagnia un bicchiere di vino e ritemprarsi al calduccio.

Tra questi, c’era mio nonno. Ha il fucile in spalla e il cappello imbottito. Mi vede in braccio a uno dei due, mi guarda attentamente e con perplessità e poi pensa: “Oh belin! Sta lì a l’è me nessa...” (“Oh c…o” – diciamo “perbacco” va’ – “Oh perbacco! Quella lì è mia nipote…”).

Sì, sono sua nipote, ma… cosa ci faccio insieme a due sconosciuti in quel paese?

Ma puscibile? Me sbaju? Ma a ghe sumeja…” (“Ma possibile? Mi sbaglio? Ma le assomiglia…”) continua a pensare lui incerto e osservandomi ancora più scrupolosamente.

Il resto è avvenuto tutto in un lampo. Io lo vedo e, seppur piccina, lo riconosco, gli sorrido e grido – Nonno! – allungando le braccia verso di lui.

Quel mio grido “Nonno!” che vuole essere di gioia, è per lui come una parola d’ordine, gli ho dato praticamente il “via!”. Non aspettava altro.

In men che non si dica, sfodera la carabina puntandola contro i due poveri “rapitori di bambini” urlando in un italiano ben comprensibile e scandito: – Mollate immediatamente mia nipote o vi lascio secchi qui dove siete! -.

I due, ignari e tapini, se la fanno letteralmente nei pantaloni.

Nel bar scendee un silenzio tombale. La barista smette di asciugare i bicchieri e si mette le mani nei capelli. L’intera squadra di cacciatori si schiera, a ferro di cavallo, dietro  mio nonno. La coppia mi posa delicatamente a terra e, con tutto il bene che posso voler loro, mio nonno è sempre mio nonno, e sgattaiolo tra le sue gambe lasciandogli strada libera verso gli sfortunati.

I poverini iniziano a balbettare e poi a urlare e a pregare mio nonno, cercando di spiegargli l’equivoco, ma al solo udire i nomi dei miei genitori e di mia nonna si acquieta.

La donna dietro al bancone, che conosce molto bene mio nonno, prende un gettone telefonico e si fa dare il numero di telefono di casa mia per accertarsi che siano davvero due amici.

A quel punto, nemmeno lei sa cosa pensare.

Dall’altra parte della cornetta, mia madre, alzando gli occhi al cielo, spiega tutto all’uomo che mi sta difendendo con le unghie e con i denti (e con un fucile) e che, a quel punto, si scusa con i signori e gli offre caffè e punch.

Scusatemi – dice, ordinando alla barista altre due consumazioni per quel marito e quella moglie che si stanno asciugando il sudore freddo dalla fronte.

La storia finisce con una bella risata da parte di tutti e, alla sera, cenano addirittura insieme.

Questa vicenda è passata alla storia, la si racconta ancora oggi che son passati quasi 40 anni, ma tutto è bene quel che finisce bene.

Certo che tu, nonno, mezze misure niente, eh? – gli dico oggi sorridendo.

Ah – mi risponde lui – Ti u sai ca sa ghe fagevu passà a fruntiera da Ventimija a nu te vigevamu ciù?! Eh? – (- Lo sai che se gli facevo passare la frontiera di Ventimiglia non ti vedevamo più?! Eh? -).

Ah! Ah! Ah! Fantastico!

Grazie nonno, ti voglio tanto bene. Hai i tuoi modi, ma sei speciale!

Un bacio grande,

Tua Pigmy.

M.