La Topina e le streghe della Valle Argentina in un progetto universitario

Oh topi, ma guardate che me ne succedono davvero delle belle! L’ultima proprio qualche giorno fa, in cui in una mail, una giovane studentessa ligure ha voluto intervistarmi (un’intervista a me… a me! Ma che bello!) per un progetto universitario che coinvolgerà anche la Sicilia e la Sardegna.

Tale progetto si occupa di indagare le figure femminili del nostro passato e, di conseguenza, anche le leggende e le superstizioni nate nel tempo. Io sono stata ben felice di dare il mio contributo e quindi vi lascio qui di seguito l’intervista per intero, così che possiate goderne anche voi. Ringrazio ancora Nicoletta e le sue colleghe di corso per avermi coinvolta!

  1. Conosci qualche leggenda che abbia come protagonista una strega?

Ci sono molte storie e leggende legate alle streghe nella zona in cui abito, molte delle quali sono realmente accadute. Alcune sfumano nella superstizione e nelle credenze popolari, ma l’entroterra della Liguria di Ponente pullula di questo genere di racconti. Da me, a seconda delle zone, le streghe sono chiamate “bàzue” “bagiue” o “bàzure”, e nel cuore delle Alpi Liguri, in Valle Argentina, vantiamo la presenza di quella che è definita “la Salem d’Italia”: Triora. Il borgo è famoso per essere stato protagonista di processi alle streghe da parte dell’Inquisizione, che qui fu particolarmente severa. Una storia molto sentita e ricordata è quella di Franchetta Borelli, che fu torturata e resistette a diverse ore di cavalletto, nonostante la sua età avanzata. Famosa è rimasta la sua frase: “Stringerò i denti e diranno che rido”, tramandata e documentata fino ai giorni nostri. Franchetta sopravvisse alle torture e al giogo dell’Inquisizione, fu rilasciata, ma il suo corpo restò segnato nel profondo, portandone le conseguenze per gli anni che le restarono da vivere. Il suo caso è emblematico perché apparteneva alla nobiltà, e questo suscitò non poco scalpore nel borgo e in tutta la Repubblica di Genova, alla quale Triora apparteneva. Altra storia legata alle streghe di Triora è quella delle sorelle Isotta e Battistina Stella, entrambe processate. Di Isotta sappiamo che non resse alle torture e morì. Un’altra donna torturata uscì di senno e si gettò dalla finestra di Palazzo Stella, nella Piazza della Collegiata (quella centrale al borgo, che reca lo stemma della città, il Cerbero). La leggenda  dice che il corpo della donna non fu mai ritrovato. C’è poi la storia di un’altra figura femminile triorese, tale Magdalena, di cui si sa poco, ma ai tempi del processo alle streghe di Triora era una ragazzina in età adolescenziale. In molti dicono che fu istruita alle arti magiche da sua madre, strega esperta e di alto livello, anche lei imprigionata e torturata come la figlia. In alcuni scritti compare l’accusa a una donna, interrogata e torturata perché si diceva che stesse imparando l’alchimia da un giovane medico del posto. Si dice che i fantasmi di queste streghe che furono accusate, torturate e che morirono durante il processo si riuniscano ancora oggi nei luoghi che le hanno viste protagoniste. Per quanto riguarda le streghe più in generale, ancora oggi, in certe zone, gli anziani credono che avere i capelli rossi per una donna sia segno di stregoneria. Anche il manto delle mucche, dalle mie parti, non poteva avere sfumature rossicce, tant’è che la razza bovina che produce i formaggi delle mie zone ha il pelo bianchissimo, tanto era radicata questa superstizione. Fino al secolo scorso si credeva che le bàzue potessero maledire il bestiame e tormentare i neonati con il loro malocchio. Ci sono diversi racconti popolari al riguardo, ogni famiglia ha il proprio che si tramanda da generazioni. Ci sono poi anche le storie e le dicerie legate ai luoghi, come Lago Degnu (nel territorio di Molini di Triora), una polla d’acqua profonda contornata da fitti boschi, un tempo impenetrabili, che si credeva fosse luogo prediletto per il Sabba che le bàzue facevano con il Demonio in persona. Ci sono poi il Lavatoio del Noce e la Fontana di Campomavue a Triora, dove le streghe lanciavano il malocchio e dove si racconta che una bàzua in particolare diede un saggio consiglio al capostipite di una famiglia che sarebbe diventata tra le più facoltose del paese, proprio grazie al buon consiglio della donna. Altro luogo legato alle streghe trioresi è la Cabotina, antico forte di cui oggi restano i ruderi, situata ai margini più poveri del borgo. Qui si dice si riunissero le streghe per i loro malefici.

  1. Sai se esistono altre versioni?

La storia di Franchetta è reale e documentata, ma sono sorte leggende che la vedono come protagonista, sussurrate un po’ a mezza voce, come a voler favoleggiare su un personaggio che è divenuto simbolo di una lotta importante. C’è chi dice che sia vissuta a lungo dopo le torture, forse proprio grazie alle sue conoscenze della magia; alcuni ipotizzano si sia trasferita altrove, in un borgo non lontano, e che qui abbia fondato una stirpe di donne sapienti e conoscitrici della stregoneria. Lo stesso si dice delle altre donne che furono incarcerate e torturate insieme a lei, di alcune si racconta siano morte al rogo, anche se pare non ci sia testimonianza di alcun rogo di streghe in Valle Argentina. Di tutte le accusate non vi è più traccia negli archivi, ad oggi ancora non abbiamo certezze riguardo l’epilogo del processo, e questo ha permesso a molti di fantasticare sull’accaduto. Esistono anche tante versioni delle superstizioni legate al malocchio perpetrato ai danni di bambini e del bestiame, ognuno ha la propria. Ci sono storie di neonati che non smettevano di piangere per via di un maleficio e che ritrovavano la calma solo dopo che la strega, smascherata, veniva intimata di smettere o dopo l’azione di una contro-fattura da parte di qualche altra buona donna conoscitrice di rimedi magici. Ci sono anche storie riguardanti le pecore che, per via di una fattura ricevuta, non producevano più latte, o scappavano senza motivo, irrequiete.  Non conosco tutte le versioni che sono state raccontate sulle storie che riguardano le streghe, ma di sicuro ne esistono di diverse.

  1. Come l’hai conosciuta? Te l’ha raccontata qualcuno?

La storia di Franchetta, di Isotta e Magdalena è famosa e l’ho conosciuta al Museo Etnografico e della Stregoneria di Triora. Da lì mi sono poi documentata su alcuni testi. Le leggende e le storie legate al bestiame e ai luoghi le ho conosciute leggendo dei libri sulla stregoneria locale e grazie ai racconti orali della nonna di una cara amica.

  1. Se ti è stata raccontata, ti è stata raccontata in lingua italiana o in dialetto?

A me in italiano, ma la nonna della mia amica le raccontava in dialetto.

  1. E tu l’hai raccontata a qualcuno o la racconteresti a qualcuno? Se sì, in italiano o in dialetto?

Io racconto tutto quello che posso per non spezzare quel filo magico che ci lega al passato. Le racconto in italiano perché tra chi mi segue non tutti sanno parlare o comprendono il dialetto. Tramando queste storie in particolar modo sul mio blog, cosicché siano fruibili dal maggior numero di persone, ma mi è capitato anche di leggerle ad alta voce davanti a diversi ascoltatori.

  1. Credi che ci sia un fondo di verità in questa leggenda?

Quella di Franchetta, delle sorelle Stella e di Magdalena, come già detto, sono storie vere, documentate da testi originali consultabili. Per quanto riguarda invece le altre leggende, credo fosse solo la paura della gente dell’epoca ad alimentare certe storie, un po’ anche per invidia. È vero, però, che le donne d’un tempo si tramandavano la conoscenza delle erbe e delle energie naturali; erano guaritrici e levatrici, e si sa che la loro posizione fosse molto pericolosa. Non era difficile che qualche loro paziente o che la puerpera morissero, e a quel punto diventava semplice pensare subito a malefici e fatture. Non credo nella superstizione. Credo piuttosto nel fatto che ognuno sia artefice del proprio destino e che l’uomo sia in grado, con il proprio pensiero e le proprie emozioni, di creare la propria realtà. Le presunte conseguenze del malocchio, quindi, così come delle fatture, sono per me provocate dalla convinzione degli effetti negativi e del male che si poteva ricevere da altri. In sostanza, ognuno si attirava ciò su cui poneva di più la propria attenzione. Per quanto riguarda le storie e le dicerie legate ai luoghi, in particolar modo quelli con una forte presenza dell’acqua (come Lago Degno, lavatoi e fontane), moltissimo tempo fa nelle mie zone era praticato il culto delle fonti e delle acque, che si credevano presiedute da divinità femminili benevole. Credo che le donne accusate di stregoneria in epoca medievale praticassero culti più antichi, o che semplicemente mantenessero vive le conoscenze legate a tempi remoti di cui s’era già persa la traccia. Difficile risalire alla verità, ma credo che un fondo di realtà ci sia in queste storie, anche se il significato è stato travisato dal cristianesimo e dalla paura della gente dell’epoca.

  1. Per quanto riguarda le fate, invece, conosci qualche leggenda che abbia come protagonista una fata?

Nelle zone in cui vivo si parla poco di fate, ed è un argomento di cui io stessa vorrei sapere di più. La Liguria, infatti, è più famosa per le sue storie di streghe e fantasmi, che non per altri abitanti soprannaturali. Tutto quello che so è che alcuni luoghi sono legati a queste figure, come il Bosco di Rezzo, nel territorio di Imperia, che viene spesso soprannominato Bosco delle Fate. C’è uno scoglio misterioso tra i comuni di Badalucco e Montalto-Carpasio, ancora una volta intitolato alle fate, ma il motivo di tale appellativo si è perso nel tempo. Alcuni storici non ufficiali affermano che un tempo la Valle Argentina fosse soprannominata la Valle delle Fate, ma non si sa da dove e da cosa derivi tale appellativo. So che la Liguria ha in comune con la Sardegna una figura femminile che sosta sulle rive dei torrenti, lavando panni insanguinati. In Sardegna le chiamano Panas e sono donne morte di parto, qui da noi, invece, sono simili alle Banshee irlandesi e sono descritte come fate piangenti e addolorate che fingono di provare strazio per attirare gli ignari uomini di passaggio, al fine di farli impazzire e annegare per poi nutrirsi della loro energia vitale. C’è poi un’altra leggenda legata alle fate che abitano le grotte. Anche questa caratteristica le accomuna alla “vicina” Sardegna, che ha le Janas, ma le nostre fate delle grotte sono ancora una volta di natura malevola. Pare si pettinino di continuo e che non possano perdere il loro magico strumento, pena la perdita della strada di casa. Non aiutano volentieri gli uomini, tutt’altro, ma se questi ultimi aiutano loro, sono disposte ad elargire doni e consigli.

  1. Sai se esistono altre versioni?

Purtroppo no, conosco solo quelle che ho raccontato.

  1. Come l’hai conosciuta? Te l’ha raccontata qualcuno?

Ho conosciuto queste storie sui libri e tramite racconti lasciati sul web da conterranei.

  1. Se ti è stata raccontata, ti è stata raccontata in lingua italiana o in dialetto?

In italiano.

  1. E tu l’hai raccontata a qualcuno o la racconteresti a qualcuno? Se sì, in italiano o in dialetto?

Anche qui, vale la stessa risposta che ho dato alla domanda n. 5.

  1. Credi che ci sia un fondo di verità in questa leggenda?

Anche in questo caso, mi trovo a ipotizzare che il fondo di verità legato a queste storie sia sempre l’antico culto legato a divinità femminili che era particolarmente sentito nelle zone più interne delle valli dell’imperiese. Ci sono molte grotte sulle alture della Valle Argentina, così come anche nella vicina Val Roya. In tali grotte sono stati trovati reperti archeologici importanti che testimoniano il culto dei defunti e della Madre Terra da parte degli uomini primitivi che abitarono queste zone. La grotta era principalmente luogo di sepoltura, sono stati trovati scheletri in posizione fetale, il che fa pensare all’intento di far tornare i cari estinti nel ventre, nel grembo materno della Terra. Tale culto sopravvisse a lungo, insieme a quello delle fonti di cui parlavo poco fa, e, per sradicarlo, il cristianesimo inventò storie di demoni, streghe e fate malvagie, affinché la gente temesse ciò in cui aveva fermamente creduto fino a poco tempo prima.

  1. Credi di essere superstiziosa? Credi che nel tuo paese/città/regione ci sia una forte superstiziosità?

Io non lo sono, ma nella mia zona c’è ancora chi crede alle antiche dicerie e pratica scongiuri, soprattutto nei paesi.

  1. Credi che la superstizione possa giustificare la nascita delle leggende?

Di alcune sì, quasi sicuramente. Prendendo, ad esempio, la storia delle fate lavandaie, immaginiamo che essa sia nata in epoca cristiana, quando la chiesa cercò di estirpare il culto delle acque – e quindi di divinità femminili – che si praticava con convinzione in Valle Argentina. A questo punto, per via del nuovo culto imposto, iniziarono a circolare superstizioni – e quindi leggende – riguardo certi luoghi. Per esempio, dalle mie parti si diceva che le fonti fossero presiedute da draghi (lo testimonia il toponimo della Fonte Dragurina sul Monte Toraggio), e il drago per il cristianesimo era un altro aspetto del demonio e del male. Questa mia tesi la deduco anche dal fatto che in queste zone l’evangelizzazione fu molto capillare, e si può notare dalla grandissima quantità di santuari, chiesette e cappelle sparse in tutti gli anfratti della vallata. E, guarda caso, sorgono quasi tutti vicino a delle fonti e sono dedicati quasi tutti alla Madonna o a sante. Senza contare che a Triora è stato chiamato addirittura un pittore illustre ad affrescare i muri di una chiesetta di montagna, quella di San Bernardino (i dipinti sono attribuiti al Canavesio, anche se non sono firmati), lo stesso che affrescò la vicina Notre Dame Des Fontaines a La Brigue che le è valso il soprannome di “Sistina delle Alpi”. Perché scomodare così tante forze ed energie per una valle piccola e sperduta, mi vien da pensare? Doveva esserci un motivo ben preciso, e secondo me non si discosta tanto dal voler distogliere l’attenzione del popolo dal culto delle antiche divinità femminili, legate all’acqua, alla terra e alla fertilità.

  1. Credi che le leggende si stiano estinguendo?

Credo che l’essere umano abbia un atavico bisogno di raccontare storie e di tramandarle. Purtroppo, però, mi trovo a dover dire che c’è una certa chiusura in questo. Sono in molti a non voler raccontare, vuoi per paura, per superstizione o semplicemente per una scarsa propensione personale, e trovo sia un peccato, perché molto del patrimonio orale va perdendosi. La nota positiva, però, è che sono in molti a volerlo riscoprire, a ricercarlo e a raccoglierlo.

Allora, topi? Che ve ne pare? Io sono proprio contenta di aver avuto questa opportunità. Un grazie a Nicoletta e un bacio a voi!

 

Streghe, scope e unguenti nella Liguria di Ponente

Oggi voglio parlarvi di streghe. Delle streghe della mia Valle e di questa parte di Liguria che, ancora oggi, riporta tradizioni e usi in merito.SONY DSC Oggi voglio parlarvi delle streghe e dei loro più comuni strumenti. Al di là di pentoloni, pozioni magiche e gatti neri, cosa da sempre è affiancata alla figura della strega, chiamata da noi Bazua, è la scopa. La scopa magica. La scopa che volava. La scopa che da sola si muoveva nella malconcia capanna. La scopa che le portava. Le portava su nel cielo scuro, molto in alto, a volteggiare sghignazzando tra la luna e le stelle.

E le streghe, per viaggiare sul loro mezzo, si spogliavano di tutti i vestiti e cospargevano il loro corpo di un unguento che, non solo le proteggeva, ma le avrebbe rese più interessanti per Satana, il loro amato. Era per lui che viaggiavano decise per diversi, a volte molti, chilometri. In realtà, cari topi, le streghe sì, sono esistite veramente, così come l’unguento e le scope, ma si dubita fortemente riuscissero a volare. Inoltre, non erano affatto diaboliche… tranne quando si arrabbiavano forse!SONY DSCQueste donne, ungevano con il famoso elisir, il manico della scopa e con essa ballavano danze sfrenate al chiar di luna quasi come ad avere un compagno. Questi riti potevano avere diversi scopi.

La ramazza era comunque la loro compagna prediletta dalla quale non si dividevano mai. E’ da qui che nascono tutte le credenze e le leggende che, ancora oggi, a noi in Liguria, e forse in tutto il mondo, fanno tutt’ora un certo effetto e oggi, grazie ai miei ricordi, ai racconti che mi sono stati tramandati dai nonni e a Massimo Centini che ha scritto il libro, a mio avviso davvero interessante “Medicina e Magia popolare in Liguria“, voglio raccontarvene qualcuna.

La scopa come protagonista. Sapete, ad esempio, che se una ragazza camminava in equilibrio su un manico di scopa sarebbe diventata mamma prima di essere sposata? E sapete che quando si cambia casa non bisogna portare dietro le vecchie scope? Si porterebbero dietro anche le disavventure precedenti. Per non parlare del famoso “scopare i piedi”, come si usa dire da tutti noi, a una donna che ancora deve maritarsi. SONY DSCQuesto lo conoscete di certo anche voi. La povera malcapitata, sarebbe rimasta zitella!

Quando si comprava o si costruiva una casa nuova, bisognava tenere sull’uscio una scopa nuova per tre giorni, avrebbe allontanato gli spiriti maligni pronti a infestare la nuova dimora, mentre, se una scopa disgraziatamente cadeva a terra, non bisognava scavalcarla, bensì raggirarla oppure aspettare che qualcuno passasse prima.

Ma le credenze non sono finite. Vi è mai capitato di vedere un bimbo giocare con una scopa? Ebbene, un tempo, questo significava l’arrivo di un ospite inatteso. La scopa è di per sé, e da tempi remoti, uno strumento prettamente femminile. E’ stata inventata per le pulizie domestiche e, quindi, di proprietà della donna. Un uomo che infatti veniva colpito dal manico di una scopa da parte di una signora (e un tempo accadeva spesso), sarebbe diventato impotente. La forza femminile aveva sovrastato quella maschile e, l’impotenza, sarebbe stata la grave conseguenza.

E la gente, dalle streghe, si proteggeva con la scopa stessa. La posizionavano davanti alla porta di casa, per terra, come a sbarrare l’uscio, tutte le sere prima di andare a dormire, proprio per impedire alle Bazue di entrare.

Avete visto topi quante superstizioni si avevano e quante credenze? Immagino che ovunque ce ne siano. Queste sono le nostre, quelle che la mia gente si porta nel cuore, appartenenti ai Liguri e alle nostre streghe. Colonne di un tempo che reggono ancora alle quali non si crede ma… provate a scopare i piedi a qualcuno e vedrete il suo atteggiamento!

E se v’interessa saperne di più, vi ho dato il titolo di uno dei libri più adatti.

Un bacione da brivido, buona giornata!

L’ultima immagine è un disegno che si trova nel Museo di Triora.

M.

Accade anche questo

Quando Archelfo, ieri, ha commentato il mio post sulle streghe, mi ha chiesto di raccontare una cosuccia che mi è capitata, anzi, che forse ho fatto capitare, qualche anno fa.

Stavo camminando per strada e quell’uomo, brutto e cattivo come la peste, mi guardava passando con una specie di piccolo trattore e sogghignava. Stava seduto, col suo cappello di panno sopra una di quelle vetture con le quali si va nell’orto, era come un motore con dietro un piccolo cassone completamente arrugginito. Io lo guardavo, lo detestavo e dentro di me dicevo: «Ma ti scoppiasse una gomma, defi….e!».

Non c’era un motivo particolare, era solo un uomo odioso, spocchioso e superbo e io non lo potevo vedere.

Mi sono spaventata io stessa perché, non appena ho terminato la frase, ho sentito come uno scoppio sordo e forte. La ruota del suo trabiccolo era scoppiata davvero! Non era esplosa, ma dopo quel botto si stava accasciando al suolo e il trattore si era inclinato così tanto che l’uomo, bestemmiando in piemontese, era dovuto scendere. Ovviamente andava pianissimo, a passo d’uomo, con quel trabiccolo.

«Boia faus! L’è n’en pussibl na f’è parei! Cuma diau….» e boia di qui e boia di là.

Corsi a casa a raccontare a mia madre l’accaduto, perché ero veramente impressionata da ciò che “avevo combinato”! Ebbene sì, mi davo la colpa dell’accaduto, e cose come questa me ne sono capitate parecchie nella vita (non di augurare fattacci e disavventure, ovviamente, quanto piuttosto di immaginare cose o sentirle e poi vederle accadere).

Noi topini siamo sensibili. Ma non è di questo che volevo parlarvi, si tratta sempre di una vicenda, bellissima, che mi è accaduta quando ero bambina, un po’ incomprensibile anch’essa, ma che porto tutt’ora nel cuore. Non c’entra con le coincidenze o lo sperare di riuscire in una cosa, ma è comunque affascinante per la mente e per tutto quel che nasconde, non solo lei, ma anche quelle forze, sesti sensi – chiamateli come volete – in cui viviamo.

Avevo 7 anni. Era estate e tutti gli anni da giugno a settembre andavo ad Andagna, un bellissimo paesino della mia valle, con una zia a passare le vacanze. Era un po’ il mio secondo paese.

Andagna era un posticino tranquillo, contava – e conta ancora oggi – poche anime. Tutti mi conoscevano e sapevano dov’ero, quando invece la mia povera zia non riusciva a trovarmi e mi cercava ovunque. Verso i primi giorni d’agosto di quell’anno, arrivò in paese un cane. Assomigliava a un lupo, col suo pelo castano chiaro e scuro. L’arrivo di un cane ad Andagna mise la gente in agitazione perché era un essere “nuovo”, che non faceva parte della… comunità. Tra l’altro dovete sapere che nella mia valle era usanza, per educare, o meglio, spaventare i bambini, parlare del lupo come dell’uomo nero. Era per questo che quel cane, fin dall’inizio, non piacque a nessuno. I vecchi borbottavano tra loro nel nostro tipico dialetto:

«Ma de chi u l’è stu can? Ti u sai?»

«Da dundu u l’è sciurtiu?»

«U l’è sporcu, u saeà anche cativu, a gu u lezzu in tu u sguardu cu l’è cativu!»

E, ovviamente, i bambini non erano da meno, sentendo gli adulti parlare in quel modo. Gli tiravano le pietre, lo canzonavano, nessuno si ci avvicinava, ma da lontano gliene dicevano di tutti i colori.

Eppure lui non se ne andava. Stava spesso in un sottotetto in piazza, dove noi bambini giocavamo. Alto, lontano da noi, sopra una casa a due piani.

Riusciva a passare di lì perché la casa, da dietro, poggiava sulla terra. I due piani dell’edificio erano percepibili solo da un lato. Da lassù ci guardava, schivando le pietre o i ricci di castagne d’India che Franco e il Mago con la compagnia gli tiravano.

I suoi occhi nocciola, guardando il sole, diventavano rossi come rubini e fu così che venne nominato presto “il cane del diavolo”.  Fortunatamente, gli anziani del posto, parlavano tanto, ma agivano poco, perché comunque nessuno ha mai fatto del male, seriamente, a quel randagio. A noi ragazzini, però, faceva paura e poi, sapete come sono i bimbi, da una goccia, ne fanno un mare.

Ricordo che un giorno, nei giochi della piazza mentre dondolavo sull’altalena, da sola, lui arrivò, si fermò dall’altra parte del parco e si mise a guardarmi. Io, me ne andai. Ebbi timore: e se tutto quello che dicevano fosse stato vero?

Un pomeriggio ero con le mie due amiche a giocare. Erano due bambine buone come il pane, mezze francesi e mezze italiane, rosse di capelli e con le lentiggini. Una era più grande di me, l’altra più piccola. Eravamo sempre insieme.

«Andiamo alla villa a far da mangiare!»

Andiamo.

La villa era un’enorme casa abbandonata, disabitata da anni, dietro la chiesa del paese. Avete presente quelle case nei film, con quei portoni di legno massiccio, il cancello chiuso con catena e lucchetto, e davanti l’erba, incolta, alta più di un metro? Ecco, quella catapecchia era uguale. Per noi, far da mangiare, significava mischiare fiori, foglie di menta con sabbia e acqua e preparare delle torte. Nel cortile di questa casa fantasma avevamo trovato delle pentole e delle bacinelle. Andavamo lì tutti i giorni e dovevamo passare da un buco nella rete della recinzione. Ci sedevamo sotto quel portone tarlato e iniziavamo a impiastricciare, fingendo di essere delle comari che si invitavano a cena l’una con l’altra.

Fu una di quelle volte che accadde.

Stavamo sedute in cerchio tutte e tre, io e le due sorelle rosse. Io davo la schiena al portone chiuso a chiave e loro erano una di fronte a me e l’altra di lato, un po’ più distante, perché era sempre senza “ingredienti” e quindi preferiva sedere vicino all’erba per la mancanza di voglia nel doversi alzare ogni due minuti. Io, di quel momento, ricordo solo che stavo pestando delle foglie con una pietra. Rammento anche all’improvviso il forte, fortissimo, urlo di Marie: «PIGMY!».

Non vidi più nulla, sentii soltanto come una forza che mi sballottava, trascinava, non lo so nemmeno io. Gli altri “Pigmy” di Marie li sentii in lontananza.

Sapevo di avere gli occhi aperti, ma non vedevo nulla, solo dopo capii.

Un’immensa nuvola di polvere e fumo grigia mi circondava, non vedevo nemmeno le mie mani. Ero ancora seduta a terra, ma non ero più nello stesso punto.

Quando la nebbia si diradò, ero a circa 7-8 metri di distanza da dov’ero prima. 7-8 metri li ho nei miei ricordi di bambina, potevano essere meno o forse di più.

Marie era dall’altra parte del giardino, nemmeno lei era più sotto il portico, mentre sua sorella ferma, nella stessa posizione, con in viso un’espressione di shock totale. Era come inebetita. Marie mi corse incontro, tentennò un po’ ad avvicinarsi, ma poi mi abbracciò e ricordo la sua manina mettermi i capelli dietro le orecchie. Ogni tanto guardava dietro di me. Dopo un po’ mi voltai anch’io.

Dietro di me, a un palmo da dove mi trovavo, c’era “il cane del diavolo” che ansimava con la lingua a penzoloni. Ricordo ancora il suo fiato caldo nella testa. Rabbrividii, sembrò quasi che la mia amica lo capì.

«Ti ha trascinato fin qui!» mi disse.

In quel momento capii cos’era successo. Il mastodontico portone crollò di colpo. Quel cane doveva già essere lì, ma noi non l’avevamo visto, altrimenti come altro aveva fatto? Se lui non mi avesse trascinata, con la bocca, più in là, quel portone mi avrebbe uccisa. Era veramente pesante, quella porta, e io avevo appena sette anni.

La mia camicia a quadri rossi e marroni era strappata all’altezza della spalla, così come il colletto. I segni dei suoi denti mi avevano graffiato, ma non mi usciva sangue, avevo appena una spellatura e qualche piccolo livido sottostante. Tra i suoi denti c’erano i miei capelli.

Spontaneamente, lo accarezzai. Dopo di me, venne il turno di Marie, anche lei lo accarezzò. La sorella di Marie, Cristina, continuava a stare seduta là, non era nella traiettoria del portone. L’unica che l’ha visto scendere, sbucare all’improvviso e portarmi via fu Marie, che dava la faccia al portone ed era riuscita a scansarsi.

Ero piena di polvere. Andai a casa di mia zia, il cane sempre dietro. Raccontai tutto a quella donna che mi ascoltava con la testa tra le mani e continuava a dire: «Oh! U me pulin!», che in italiano significa il mio pulcino. A parte la mia espressione, ero con le mie testimoni e utile mi fu, in questa storia incredibile, lo strappo sulla camicia e il segno dei denti. La saliva. Il bottone mancante. Mia zia uscì fuori, ai tempi la porta di casa si teneva sempre aperta e gli diede da bere e due biscotti che mangiò perché lui non entrò mai in casa nostra, stava fuori ad aspettare.

Da quel giorno, stette sempre con noi e sempre nella villa a preparare da mangiare. Ormai il portone era caduto, pensavamo noi, anche se ci avevano vietato di ritornarci. Il Mago gli tirò un altro riccio di castagna e io lo morsicai nella schiena forte, come non ho mai morsicato nessuno. Il Mago si girò e mi tirò un calcio, così potente nella pancia che non respirai per un quarto d’ora, ma il segno dei miei denti, secondo me, ce l’ha ancora adesso.

Un giorno il cane sparì, non lo vedemmo più per un po’, poi ritornò, lindo e pulito, spazzolato e profumato. Allora, forse, era di qualcuno! Ma di chi?

Dissero che era di un pastore di Molini, ma senza alcuna certezza. Stette con noi tre tutto il pomeriggio, ero convinta di rivederlo l’indomani, ma non lo vidi mai più. Non venne i giorni a seguire, né l’anno dopo, non venne più.

Non ho sognato. Mia zia tenne la mia camicia per tanti anni, poi, chissà cosa ne hanno fatto le mie cugine, che con ogni probabilità la consideravano cianfrusaglia.

Sono passati 26 anni, ma ricordo tutto come se fosse accaduto ieri. Il rumore, l’odore di cane, la polvere, Marie. Di quel giorno penso di aver capito molte cose e altre, invece, come i giri della coincidenza, non voglio nemmeno capirli. Eppure una cosa mi è rimasta nella testa, alla quale mi piacerebbe dare una spiegazione. Dov’era? Come faceva a essere lì senza che noi lo vedessimo? Da dove è uscito così all’improvviso? E chissà da quanti giorni stava lì con noi.

Ti ricordo ancora.

Pigmy.

M.