Un Uomo/Albero in Valle Argentina

C’è un uomo in Valle Argentina davvero particolare… forse sta scappando o forse è timido. Oppure stanco e rincasa. Sì, è un uomo che sta per entrare nella sua dimora, suggestiva quanto lui. La sua casa è un albero e… anche lui è un albero.

Come un gigante buono e nudo, lo si vede accucciato a terra nell’intento di nascondersi.

Oppure ancora… che stia cercando qualcosa?

Cari Topi, anche oggi riesco a farvi vedere qualcosa di meraviglioso grazie alle foto dell’amico Renato.

Un regalo della mia bella Valle. Un regalo che potete vedere anche voi, a Passo Teglia, per la strada che da Drego (sopra a Andagna) va verso Rezzo.

Guardate questo tronco storto e ricurvo. Grosso, liscio. Ha proprio sembianze umane.

Un apparato radicale come se ne vedono davvero pochi.

E i boschi della mia Valle, fatati sicuramente, prendono ancora più vita davanti ai miei occhi.

Sono molte le forme strane e arcane che si notano nella Valle Argentina.

Ve lo avevo già mostrato attraverso Castagni e Faggi secolari. Attraverso i tronchi spezzati dei Larici antichi ma, ogni volta, queste bizzarre opere naturali, lasciano a bocca aperta.

Figure che la natura ha dipinto o ne ha preso le sembianze.

Ve le avevo mostrate anche attraverso le rocce e nelle luci del cielo… ma guardate qui… non è incredibile quest’albero? Non vi sentite immediatamente trasportati in un nuovo racconto di Tolkien, dove Druidi e alberi parlanti vivono in perfetta armonia?

Potrà salvarmi questo gigante di legno dall’attacco di Elfi bricconi o Trolls poco simpatici?

Un gigante nel quale scorre magica linfa. E, assieme a lei, scorre la mia fantasia. Dove il vero protagonista è lo stupore, il quale resta negli occhi a lungo.

Il bosco è vivo e non solo biochimicamente. Il bosco è vivo dentro a ogni corpo. In vibrazioni ancestrali.

Sono un animale, un piccolo roditore, viaggio in altre dimensioni, ma in queste dimensioni voglio portare anche voi.

Osservando certe bellezze si uniscono altri sensi a quelli fisiologici, verso i quali abbiamo fatto l’abitudine.

Si sviluppano nuove percezioni e si affinano ulteriori virtù.

Quanto è affascinante questa figura che mi accompagna. Antica e bellissima. Straordinaria e da rispettare.

Sappiamo tutti che un albero dona ossigeno, ombra, nutrimento, calore, riparo… è un meraviglioso essere vivente, ma quando regala anche la possibilità di dare vita ai nostri pensieri, trasformandoli in fantastici, beh… direi che davvero non possiamo chiedere di più.

Che altro dire Topi? Siete rimasti di stucco vero?

Vi vedo con i baffi a penzoloni. La Valle Argentina continua a stupire e non ha ancora finito, perciò seguitemi anche nella prossima avventura. Vi aspetto.

Vi mando un bacio dalle forme inusuali e ringrazio ancora una volta Topo Renato.

A presto!

Al Ciotto: osservando tinte e arabeschi

Da più di tre anni, di tanto in tanto, mi dirigo al Ciotto di San Lorenzo.

Si tratta di un luogo a me molto caro, situato alle pendici del Carmo dei Brocchi e oltre ad essere un posto bellissimo se lo si sa ascoltare, parla con un’energia davvero profonda e unica.

Per arrivarci passo solitamente da Drego e da Passo Teglia, anch’esse zone della mia Valle senza eguali per il loro fascino remoto.

Una volta giunta all’arrivo mi piace soffermarmi a guardare ogni cosa, lentamente. Lo sguardo si appoggia piano, su tutto quello che addobba questo angolo della mia Valle per me dal sapore mistico e affascinante.

Mi piace contemplare, pensare, riflettere e guardare intorno a me tutta quella bellezza che mi circonda sentendomi davvero una Topina fortunata. Si tratta di una dolina tutta fiorita in estate e circondata da austere rocce, una faggeta fatata e abeti antichi che proteggono. Una radura a forma di conca nella quale talvolta si forma un piccolo lago o è prato in base al periodo dell’anno.

E’ proprio durante queste attente osservazioni che ho potuto notare come questo luogo si modifica di stagione in stagione.

I suoi cambiamenti sono in realtà molto evidenti e dati principalmente dai colori che lo abbelliscono ma se quando parliamo di colori pensiamo soprattutto all’autunno… beh… al Ciotto di San Lorenzo (chiamato anche il “Sotto”) le tinte regalano emozioni ogni mese.

E’ vero che, prima di aprire le porte all’inverno, i Carpini si vestono d’oro e i Larici delle nuances del tramonto. Com’è anche vero che i Faggi diventano color della terra bruciata e le capsule di semi delle Graminacee creano puntini neri sparsi qua e là ma quando la fredda stagione giunge del tutto è la Bianca Signora, la neve, a regnare rendendo tutto candido e brillante.

Il foliage, in questo luogo, è davvero attraente.

D’estate, invece, è il viola della Lavanda e del Cardo Selvatico a prevaricare su tutto. Il colore della magia, ed è quasi più presente addirittura del verde vivace, il vero padrone.

Lo stesso Cardo, terminato il periodo estivo, appare di un avorio lattiginoso e sfavillante.

Tra il profumo del Timo anche gli insetti contribuiscono a colorare il tutto ma ovviamente, il gradino più alto del podio spetta alle farfalle e le loro ali dipinte.

Per non parlare delle bacche. Tante tantissime e tutte diverse tra loro. Quelle color rosso fuoco si notano già da lontano.

Molte tonalità di grigio e di marrone vengono date anche dalla corteccia degli alberi che circondano l’antico Ciotto ricco di storia e leggende.

Osservando certi tronchi, dal basso verso l’alto non si possono non notare le diverse sfumature di queste alte piante e, una volta che ci si trova con il naso all’insù, un ulteriore spettacolo si apre davanti agli occhi agitati.

Un intreccio infinito di rami, sia spogli che ricchi di fogliame, si annodano, si avvicinano e si incrociano fino a formare strane forme di linee, degli arabeschi stupendi che sembrano disegnare il cielo.

Come dei centrini, posizionati all’incontrario, abbelliscono anche l’aria sicuri nel risultato di una meraviglia totale.

Via via che i giorni passano, andando verso il periodo del gelo, dopo il trionfo di vita e tinte forti, tutto si spegne divenendo sempre più pallido e mostrando il riposo.

Nonostante questo sonno color pastello, pare d’esser in un incanto, nella tela di un pittore malinconico e che ama i colori tenui. L’inverso della vivacità verde incontrata in passato.

Insomma, il Ciotto di San Lorenzo regala sorprese sempre. Non può non lasciar stupiti e grazie alla natura variegata che lo forma resta un punto assolutamente unico della Valle Argentina.

Io, sognante, vi mando un bacio colorato e vi lascio immaginare questa tavolozza. Vado a prepararvi un altro articolo!

Sul sentiero Parvaglione attraversando ruscelli

Il bellissimo sentiero che percorriamo oggi, lo facciamo a scendere, partendo dalla Casermetta Lokar, situata a 1700 mt s.l.m., in cima al Monte Gerbonte per arrivare al Pin, appena sopra Borniga.

Chiamato “Sentiero Parvaglione o dei Paravaglioni” ma più conosciuto come “Sentiero degli Alberi Monumentali” deve il suo nome ad una caratteristica etimologia che riguarda le Farfalle. Parvaiui, infatti, in dialetto, significa Farfalloni e ci sono momenti in cui, alcune zone di questo luogo incantato, si riempiono di meravigliose Farfalle di tutti i colori. E’ tipica la frase che da noi si dice quando nevica – I càa parpiiui de neve – (scendono farfalle di neve/grandi fiocchi).

Ma questo nome nasconde ben altro, di ancora più affascinante, preso anche dal termine francese Papillon (Farfalla) in una terra dove un tempo le lingue del francese e dell’italiano si mescolavano spesso, formando sovente ulteriori dialetti o lingue a sé come ad esempio l’Occitano. E qui siamo proprio sul confine, non per niente si possono ammirare, ad Ovest del Monte Saccarello e delle Alpi Liguri dove siamo, la Catena del Tanarello e Punta Missun che appartengono, oggi, alla Francia.

Come vi dicevo, il fascino di questo termine è dato soprattutto dalla Dea Parvati o “Figlia della Montagna” (una meraviglia), simbolo di fertilità, amore e devozione, nonché espressione di energia e potere creativo. Vi ho sempre detto che la Farfalla è simbolo di Rinascita e qui ne abbiamo un’ulteriore prova.

Qui dove Madre Terra partorisce una natura selvaggia che occorre assolutamente rispettare.

Osserviamo però anche l’altra dicitura: Sentiero degli Alberi Monumentali. E lo credo bene. I Larici, gli Abeti e i Faggi che costituiscono un ambiente unico nel suo genere, sono davvero splendidi e maestosi. Un tempo venivano tagliati per avere la legna ed è spettacolare notare, dove adesso è rimasta la vecchia cappaia, una nuova vita crescere. Piccoli alberelli teneri teneri, fioriscono dall’anziano tronco e con una punta di albagia spiccano verso l’alto, senza temere gli enormi fratelli. Tra molto tempo saranno proprio come loro.

Forte era la richiesta di legname durante i due periodi bellici più importanti della storia e, questa foresta, venne ripopolata velocemente, dopo studi dettagliati, di nuove piante. Fortunatamente, alcuni fusti, a causa della loro irregolarità o della loro consistenza considerata non idonea, vennero lasciati e oggi sono testimonianza di un mondo vetusto, che perdura da secoli e che può raccontare molto di un ambiente ancora poco conosciuto.

Gli alberi che consideriamo giovani, sono anch’essi altissimi e rigorosi. In un Faggio che offre riparo, qualcuno dall’animo artistico, ha posizionato una piccola pietra con due occhietti. Sembra un allocco in tana.

I piccoli alberelli di cui vi accennavo poc’anzi, sono morbidi e flessibili. Rispetto ai grandi, il loro verde è più acceso, più vivace, sono meno seriosi ovviamente, data la loro giovane età. I Larici invece, ancora arsi dal freddo invernale, appaiono cupi e spenti ma comunque bellissimi. I Faggi devono ancora mostrare il meglio di sé, mentre gli Abeti, donano un tocco di colore cupo che suggestiona. Si distinguono l’Abete Rosso e quello Bianco. Qualche Sorbo colora quella solennità.

E’ facilissimo, in questo ambiente di alberi secolari, di morbido sottobosco e di neve ancora presente, immaginare gli occhi d’ambra di Lupo spuntare all’improvviso da dietro un tronco. Proprio così, siamo nella terra dei Lupi e non serve saperlo, lo si percepisce. Lo si visualizza senza alcuna difficoltà. Quello è il suo regno.

Aspettando il suo arrivo ammiro quei tronchi. Alcuni sono sagome strane, forme bizzarre e attraenti. Un muschio di velluto li ricopre. Il verde è vivo, deciso, appariscente. Pettinato sul via vai delle rughe di legno. Mi chiedo se dobbiamo essere noi a paragonare queste bellezze a quelle celtiche, o se un irlandese le notasse probabilmente inizierebbe a dire nella sua terra natia << Proprio come quelle dell’Alta Valle Argentina >>. E poi… fate e folletti e gnomi, tra primule e anemoni.

Bombi e formiche vivono quei luoghi per nulla disturbati dal nostro camminare.

Si scende. Alcune zone sono leggermente impegnative. L’attraversamento di diversi ruscelli richiede attenzione, anche se basta un solo passo per giungere dall’altra parte. Che bello essere una topina femmina! I maschietti ti dan la zampa… et voilà! Ti ritrovi sul lato opposto del rio.

Siamo quasi a maggio. In questo periodo la neve è ancora parecchia ma inizia a sciogliersi, quindi risulta morbida e scivolosa. Un bel paio di scarponi adatti sono quello che ci vuole. Anche impermeabili ovviamente.

Il primo rio che si attraversa è chiamato Rio Cassin. Siamo sotto a Cima Marta e tra poco raggiungeremo un punto panoramico che lascia senza fiato, permettendo di vedere la punta del Gerbonte, dove siamo appena stati, e poi tutta la parte alta della mia Valle contornata dal Monte Frontè, dal Passo della Mezzaluna e dal Passo del Garezzo. Più in basso, cullati dalle Alpi, Borniga, il Pin e Abenin.

Indicherei questo sentiero come – adatto a tutti – soprattutto in assenza di neve.

E’ solo lunghetto. Andando di buona lena bisogna calcolare circa 2 ore e mezza per arrivare al Pin, considerando sempre che stiamo scendendo. Se siete come me, che mi fermo a fotografare ogni cosa, aumentate pure il tempo.

Ma come si fa a non immortalare tanto splendore? Questa natura offre vari spettacoli. Primi fra tutti: Rapaci, Picchi, Camosci, Lupi e Caprioli. Io sono riuscita a fotografare uno Yearling, da come potete vedere, cioè un giovane Camoscio. Ce n’erano due, ma l’altro era troppo distante, beatamente sdraiato sulle rocce, e il mio obiettivo non mi permette tanto.

All’interno della foresta l’atmosfera è umida e ombrosa. Il verso del Cuculo accompagna per tutto il tragitto così come lo scrosciare dell’acqua che, a tratti, forma cascatelle fresche e pimpanti.

Flutti allegri si tuffano tra le rocce e scendono veloci unendosi ad altra acqua. L’ambiente si rinfresca ancora di più e si prova a guardare oltre a quella trasparenza.

Attorno a loro tante impronte. Il Tasso, ho scoperto, ha gironzolato ovunque!

L’aria è frizzantina. In alcuni punti si percepisce odore di selvatico. Da noi si dice bestin e trattasi soprattutto di animali come Capre e Cinghiali che emanano il loro forte odore. Naturalmente, visto dove siamo, si tratta prevalentemente di Camosci e Caprioli.

Il bagnato provoca freschezza nelle narici e il lieve venticello può raffreddare le zampe anteriori altre al muso.

C’è tanta acqua da bere. Piccolissimi laghetti permettono di dissetarsi e, infatti, vicino a loro, le orme permettono di leggere movimenti che incuriosiscono. Storie alle quali non pensiamo dalla nostra tana, ma cosa accade i questi luoghi magici, mentre noi ancora dobbiamo alzarci dal letto? La neve, tende a soffocarli ma il loro vigore è più forte e, alla fine, risultano contornati da nuvole bianche.

Dopo aver camminato su un sottobosco morbido, contornato da Rododendri che devono ancora fiorire e primule che spiccato nel pallore dell’erba paglierina, si arriva all’asfalto che ci fa proseguire per qualche tornante fino alle auto.

E’ in questo momento che ci si sente appagati e si ha voglia di tornarci di nuovo. La natura chiama e lascia addosso un pizzico di malinconia.

Con lo sguardo si ripercorre la strada fatta. Si rivedono quei Larici severi, alti e dritti verso il cielo. Quelle guglie aspre e ardenti che quasi intimoriscono. E si promette. Sicuri di non essere riusciti ad ammirare tutto quello che c’era da vedere. Si promette di tornare e così sarà.

Ora vado riposare le zampette però, mi auguro di avervi fatto fare un bel tour anche questa volta.

Io vi mando un bacio pacato come pacata è la natura che ho incontrato oggi.

Alla prossima topi!

Storie di carbone e carbonai

Poco tempo fa vi ho postato un articolo sui forni e i fornai della mia Valle ( https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2019/01/09/storie-di-forni-e-carbonai-della-valle-argentina/ ) accennando al carbone e soprattutto all’attività dei carbonai. Anche questo era un mestiere diffuso, fino a non molto tempo fa. Si parla di circa sessanta anni fa, per l’esattezza.

Questi topi, in pratica, erano in grado di trasformare la legna in carbone vegetale e… udite udite… persino il mio topononno è stato uno di loro!

Dovete sapere che dalle mie parti non esisteva carbone fossile, il combustibile si produceva direttamente dalla legna dei boschi. A Ciabaudo e in tutta la Valle Oxentina c’erano diversi carbonai, ma in generale in ogni paese della mia zona che possedesse una grande quantità di alberi si produceva il carbone, come accadeva su, ai Beuzi, e intorno al pozzo della Neviera dell’Albareo si possono vedere ancora oggi sei carbonaie.

Montalto era uno dei paesi che commercializzava maggiormente il carbone nostrano.

L’arte del mestiere consisteva nel tagliare legna, di cui la Valle Argentina non è certo sprovvista, e trasportarla in uno o più spiazzi pianeggianti e aperti. Qui veniva accatastata in carbonaie e si innescava il processo di combustione lenta, il quale portava alla carbonizzazione, dunque alla trasformazione di un composto organico come la legna in carbone. Bisognava sorvegliare giorno e notte la carbonaia per 5 o 6 giorni per ottenere, a partire dai 30-40 quintali di legna iniziali, fino a 8 quintali di carbone. Un processo lento, dunque.

Era un lavoro che si svolgeva in gran parte dalla primavera all’autunno.

carbone legna2

Pensate un po’ che bravi, questi miei convallesi!

Ma cos’è una carbonaia? Ve lo spiego subito. La parola “carbonaia” intende significare due termini. La “carbonaia” intesa come tecnica di creazione del carbone (come vi ho spiegato poc’anzi) e la “carbonaia” come struttura che trasforma la legna in carbone. Si tratta, cioè, di una cupola o un cono, solitamente parecchio grande e alta, nella quale  la legna bruciava molto lentamente, semi soffocata e muta.

Questa operazione tradizionale consisteva un tempo in quello che era uno dei fabbisogni e delle risorse appartenenti al settore primario della Valle, pertanto tutto il meccanismo era coadiuvato da scrupolose regolamentazioni, gabelle e multe in caso di disguidi.

Il carbone ottenuto veniva messo in sacchi e trasportato poi dai carrettieri nei vari paesi per essere venduto.

Si dice che un buon carbone dovesse cantare, cioè fare tanto rumore, in pratica  scoppiettare. Ovviamente era il tipo di legna a produrre un carbone migliore, ma anche il carbonaio doveva essere bravo nel suo lavoro, controllando il cumulo di terra e legna al fine di far passare la minor quantità di ossigeno, durante i giorni della bruciatura e del consumo, dove un fumo grigio segnalava troppa umidità, e un fumo meno denso e più chiaro indicava invece un ottimo lavoro.

I nostri carbonai convallesi erano comunque avvantaggiati (lo dico sorridendo) da un legno fantastico del quale la Valle Argentina ne era, e ne è, generosa: Ulivo, Frassino e Quercia sembrano essere i migliori. Vi risulta?

Penso di avervi detto tutto quello che conosco su questo antico mestiere, ma ditemi: voi avevate dei topononni carbonai?

Un bacione fumoso, dalla vostra Topina carbonaia.

 

Fatine e sorprese verso Lago Degno

So che uno di voi, un umano, un giorno disse “Non è importante la meta ma il viaggio”. Mi sembra si chiamasse Paulo Coelho e, a mio avviso, aveva proprio ragione. Per affermare ciò che ha detto dev’essere, per forza di cose, passato nella mia Valle perché molte volte, io per prima, nel mio girovagare di bosco in bosco per la Valle Argentina, sono rimasta affascinata da luoghi meravigliosi e incredibili quando la mia destinazione era completamente un’altra.

Oggi, topi, voglio portarvi con me proprio in una di queste zone magiche che ho vissuto pienamente mentre mi stavo recando verso il Lago Degno, un lago rinomato e amato dai miei convallesi e da molti turisti.

Inizio a percorrere il sentiero, sopra Molini, che mi porta tra alberi e arbusti di un bel verde acceso. L’atmosfera si fa immediatamente surreale; ci sono abituata, vivendo la natura come un animaletto, ma in quel momento mi sembrava di percepire davvero energie particolari attorno a me.

Saranno stati quel morbido muschio sulle rocce, quelle fronde che si muovevano leggere, quell’ombra fresca, quei tronchi nodosi e scavati e, quelle percezioni, avevano tutta l’aria di essere belle e serene.

Era proprio come se ci fossero delle fate che, nonostante la loro vivacità e le loro tante cose da fare, stavano ad aspettare l’arrivo di qualche anima sensibile che con esse poteva connettersi. Insomma, si percepiva la loro presenza!

In quel momento, mi sono resa conto che null’altro mi sarebbe servito. L’appagamento era totale. Avevo tutto ciò di cui avevo bisogno pur non avendo neppure una ghianda! Avevo Madre Terra, pulsante, vicina a me, avevo la meraviglia delle piccole cose, la pienezza del creato e niente poteva essere più grande.

Molte persone giungono in questo punto volendo a tutti i costi raggiungere la meta prefissata, ma, qui accanto a questo torrente – il Rio Grognardo – a quest’acqua limpida e fresca, a questi massi, a questi rami incorniciati di bellezza, non si può chiedere di più.

Il verde di questo posto è abbagliante, soprattutto in determinate stagioni. Riempie la vista e l’acqua che scorre sotto di esso riflette sagome luminescenti sulle rocce, accompagnando i pensieri con il suo scrosciare. Tutto è pieno di vita, una vita che trabocca da ogni dove.

Ogni tanto il canto di un uccello, persino assai strano, si alterna al ronzio di qualche insetto, ma a prevalere sono i silenziosissimi battiti d’ali delle farfalle. A milioni. Di ogni colore, di ogni forma e grandezza. Riempiono gli occhi e la pace del cuore è assoluta.

Anche i raggi del sole giocano a un andirivieni che incuriosisce e mi chiedo come possa essere tutto così perfetto, come in una splendida orchestra, proprio dove la perfezione non serve e non è richiesta.

Il mio pelo vibra come i fili d’erba accanto. Tutto vibra: il cuore, il respiro, le ciglia. Anche lo strato più superficiale del torrente vibra, creando delle mezzelune tremolanti che incorniciano gli scogli.

E’ la meraviglia. E’ la voglia di vita. Un ponte leggero porta con l’immaginazione a luoghi lontani e sperduti. Alberi fiabeschi sono ricoperti da un muschio che parla di Celti, di gnomi e folletti, che li nasconde e gli fa da moquette. Quei minuscoli fiori rosa sono in realtà così grandi, per me e per loro, da sembrare delle grandi e secolari sequoie colorate.

Il sottobosco è da ammirare, cela una vita tutta sua, un mondo in miniatura dove piccoli esseri tinti annusano, zampettano, si rotolano. Non si è soli. Quell’essenza abbraccia, culla, mi fa sua.

Si diventa parte di lei, una parte così fondamentale dalla quale si percepisce quanto si possa essere un tutt’uno con il pianeta, quanto bisogno si abbia di tutto questo e quanto lui abbia bisogno di te. Qualsiasi essere tu sia.

La miglior medicina per tutti i mali, una panacea, qualora se ne avesse bisogno. E se ne ha sempre bisogno.

E allora, volevo dirvelo. Volevo dirvi che quel giorno non ho raggiunto il Lago Degno – anche perché al momento è ancora vietato l’accesso nell’area – ma ho raggiunto tutt’altro. La bellezza del mio mondo. La natura più vera. La pienezza totale. Consiglio anche a voi di passare qualche minuto del vostro tempo, seduti su una di queste pietre, ad assaporare quello che vi circonda. Il suo potere vi accompagnerà per molti giorni dopo.

Parola di Topina! Squit!

San Giovanni dei Prati profuma d’Autunno

Topi, oggi vi porto con me in uno dei posti che più mi piacciono della mia Valle.

A dire il vero, ci troviamo a cavallo tra le Valli Nervia e Argentina, nel territorio di Molini di Triora. Siamo a San Giovanni dei Prati e il nostro tour inizia da un prato verde che in questa stagione andrà lasciando il posto a un beige tenue. Vedete la chiesetta del Duecento, piccola, in pietra? E’ davvero un gioiellino.

La terra ha un odore molto forte e si presenta già più riarsa rispetto ai mesi estivi mostrando zolle nude e pulite. L’aria è frizzante in questa stagione, ma è destinata a diventare ben più fredda, anzi, congelata! Brrr, già mi tremano i baffi e la coda al pensiero!

Le narici captano odore di umidità, c’è profumo di foglie e subito la fragranza autunnale raggiunge i polmoni, insinuandosi in ogni cellula, nel cuore e nell’anima. Credo che, inspirando profondamente l’aria di questi luoghi, sia facile dimenticare ogni cosa, è un’aria pura, che ritempra e rinvigorisce.

Lasciamoci la chiesetta alle spalle, vi va? Proseguiamo insieme di qualche passo, poi svoltiamo a sinistra, imboccando il sentiero largo e piano che si inoltre nel bosco.

L’atmosfera boschiva è accogliente, gli alberi ci avvolgono in un abbraccio verde  cangiante, mentre l’aria fresca imporpora le gote. L’Autunno qui si fa sentire e la Natura si sta preparando per affrontare i lunghi mesi di sonno invernale.

Si riescono a scorgere i piccoli, grandi cambiamenti che in città faticano ad arrivare, con le sue nubi di fumo e i suoi cumuli di cemento: il silenzio è sacro, qui, non esiste rumore al di fuori dei nostri passi e del fruscio del venticello fresco che accarezza le fronde.

Il terreno è umido sotto le zampe e un tappeto di foglie morbide e colorate ci fa strada nella boscaglia, coprendo il sentiero.

Una piccola chioccia, rinchiusa nella sua casetta, se ne sta comoda su una foglia arancione, nel bel mezzo del sentiero. Visto che da qui passano anche le topo-mobili, la sposto ai margini dello sterrato, così che non perda l’orientamento.

Procedendo sul percorso, il bosco si infittisce e gli alberi si impongono sempre di più. Mi fermo a guardarli, ad assaporarne i profumi. Mi piace restare qui ad ascoltare i passi della loro danza nel vento e le parole del loro canto. Le chiome verde-arancio coprono il cielo grigio, offrono protezione al sottobosco e sembrano sussurrare canzoni antiche e dimenticate. Infine una nebbiolina leggera scende dai monti, avvolgendo tutto nel suo abbraccio fresco.

Volete vedere come saranno i monti visti da qui tra qualche tempo? Eccoli, ve li mostro. Ricoperti di neve!

Avete mai fatto caso al fatto che la nebbia renda ancora più vivi i colori tutto intorno? E’ come se, per timore di essere spazzati via dal nulla che avanza, tutti gli elementi naturali si impegnino a brillare di più, si aggrappino ai loro colori per farli risaltare sullo sfondo bianco che avanza: Sono qui, mi vedi? Non sei solo, ci sono anche io!, paiono sussurrare i tronchi, le foglie, le rocce e il terreno. Passeggiando nella nebbia, ci si sente fuori dal mondo, in un luogo senza tempo dove non esiste altro se non la nostra presenza unita a quella degli alberi della foresta. L’aria è sempre più fresca, il bosco sempre più buio. Che ne dite, torniamo indietro? Resterei sempre qui, ma la tana mi aspetta.

Ritorniamo per la stessa strada fatta all’andata, passando cioè dal Campo Sportivo di Molini dove il Tarassaco ai bordi della via inizia a mostrare i suoi soffioni e non più il fiore giallo e intenso di poco fa.

Lasciamo la chiesetta, il suo piccolo campanile che s’innalza verso la luna ancora alta nel cielo del mattino.

Una chiesetta che, sul suo retro, mostra una lastra in gesso raffigurante una candida Madonna con gli occhi chiusi.

Una chiesetta che sarà di nuovo pronta ad accoglierci la prossima volta che torneremo qui, a San Giovanni dei Prati.

Alla prossima gita, topini!

Un abbraccio silvano dalla vostra Prunocciola.

L’Euphorbia – avere stile

Il genere Euphorbia comprende tantissime specie di piante, sia erbacee che succulente ma quella che voglio presentarvi io oggi, dovrebbe essere l’Euphorbia Cyparissias o Cipressina e dico – dovrebbe – perché non ne son sicura al cento per cento in quanto molte si assomigliano. Quello che però posso dirvi con sicurezza è che questo tipo di Euphorbia che ho fotografato, nasce spontanea nei giardini, nei sentieri e nelle campagne apparendo come una semplice erba. Ma che così semplice non è e lo potete vedere anche da voi, insomma, è bellissima. WP_20150403_016La sua più grande particolarità stà nel colore dei suoi fiori. Verdi come tutto il resto della pianta, qualità che a mio dire, la rende elegante e molto originale. Un bel verde acceso che si distingue da tutte le altre tonalità. Questi fiorellini sono piccoli e numerosi su ogni stelo. Molto più numerosi delle foglie che sono invece poche e quasi sempre solo verso l’alto della pianta lasciando il resto del fustarello completamente glabro. Foglie lunghe e sottili. E guardate come s’intona bene con gli altri colori accanto a lei. L’Euphorbia può raggiungere in alcuni casi, anche un’altezza di 40 – 60 centimetri, spiccando così tra il resto delle altre piante erbacee o dei fiori che la circondano. Tra l’altro, si parla di un’erba infestante dunque non sarà difficile notarla e di certo, potete credermi, fastidio non ne da.WP_20150403_017 Dal punto di vista del suo uso in fitoterapia, bisogna tener presente che alcune Euphorbie contengono un latte biancastro che può essere irritante per la pelle e un suo uso sbagliato risulta altamente tossico. Lo sanno persino gli animali da pascolo che la evitano brucando nei prati ma, se lavorata nelle giuste dosi, con competenze mediche e botaniche, la sua radice risulta essere un valido purgante. Ne sono invece attirate le formiche che adorano questa pianta anche se non se ne conosce il motivo. Capita comunque facilmente di trovare una formichina dentro ai petali di un fiore di Euphorbia. Probabilmente è dolce, ma come vi ho spiegato non è conveniente assaggiarla. Nel linguaggio dei fiori questa pianta è strettamente legata a Gesù Cristo e alla sua Passione forse a causa del suo riuscire a stare eretta nonostante il suo essere esile e nuda, affrontando diverse difficoltà e simulando in questo modo non solo la sofferenza del Messia ma anche tutta la Via Crucis che ha dovuto percorrere.WP_20150403_018 Compiere una fatica quindi. Alcune specie di questa famiglia infatti, nascono accanto agli alberi proprio per poter in futuro, una volta cresciute, aggrapparsi ai forti tronchi e rimanere nella posizione elevata che la natura ha deciso per loro. Bella e tenace. Aggraziata e caparbia. Una pianta davvero particolare che riesce a vivere bene sia in esposizione assolata che più all’ombra proprio grazie al suo carattere rustico e resistente. E ditemi, la conoscevate già per caso? Sono sicura di si. Certamente l’avrete già vista da qualche parte. Questa che vi ho fotografato io è nata spontanea nel giardino della mia amica Dina che vi ho fatto conoscere qualche articolo fa. Un abbraccio topi e al prossimo articolo!