Non rubate a Topozia!

Quel giorno topozia era giù nell’orto dietro casa.

Era un afoso pomeriggio di luglio e il sole era appena sceso dando la possibilità di raccogliere gli ortaggi senza crepare di caldo.

La casa di topozia è cosiffatta: antica, coloniale; una bella facciata sul davanti, chiusa da un cancello grigio, e un’entrata principale che da su un piccolo cortile. Si gira intorno, si passa sotto un portico laterale e si arriva dietro, nella corte, alla campagna. E… chi girò dietro casa quel giorno, furono i Carabinieri.

Topozia stava rastrellando di fianco all’insalata facendo molta attenzione a non sciupare i teneri germogli. Con il vento della sera prima, parecchie foglie e alcuni fiori si erano staccati dal Glicine color lilla ed erano andati a posarsi sulla coltivazione. Alzò il capo lasciando la schiena curva verso le zolle.

I due gendarmi, vestiti di nero, le fecero prendere un coccolone. Si asciugò il sudore con la mano sporca di terra. Con l’altra mano, si appoggiò al manico del rastrello piantato al suolo cercando di far riposare il fisico.

Un piccolo paesino e tutti si conoscono.

Il Brigadiere la chiamò per nome parlando la sua stessa lingua; quante volte da bambino aveva giocato in quella campagna con mio padre, mentre, sua madre prendeva il caffè proprio con mia zia.

– I te intran in cà e ti mancu ti te ne acorzi? – (Ti entrano in casa e tu nemmeno te ne accorgi?) disse l’ufficiale alla mia anziana parente.

Topozia era perplessa “Ma cosa stà dicendo questo qua?”, “Ma chi è entrato in casa?”. In quel mentre, un altro Carabiniere raggiunse i due colleghi strattonando un ragazzino trasandato.

– Sono suoi questi? – chiese il giovane in divisa mostrando a mia zia un mucchio di piccoli oggettini gialli luccicanti. Topozia trasalì. L’anello di sua mamma, l’orologio del suo povero marito, collane, bracciali, medaglie, tutti i suoi ori preziosi. I suoi ricordi più grandi.

Per le persone anziane, questo è un gran valore. Quegli ori… ma come potevano essere in quel palmo? Quegli ori erano sempre stati nel portagioie. Cosa ci fanno qui? E poi i soldi, quei pochi contanti che chiunque tiene in casa, alla portata di tutti, per comprare la prima cosa che viene in mente, che occorre. Pochi si… ma suoi! Di topozia!

E quello sbarbatello non aveva l’espressione pentita. Il ladruncolo di monili e banconote pensava forse di avere anche ragione. Penso fu questo che fece scattare la molla selvaggia della sorella di mio nonno. Quell’aria strafottente, che tante volte gli ha fatto da scudo, che probabilmente ha dovuto imparare ad usare fin da piccolo, a zia però, non piacque. Imbracciato il rastrello, e aggrottato la fronte, la rotondetta signora, iniziò a suonargliele di santa ragione davanti alle forze dell’ordine e, il poverello, non poteva nemmeno ribellarsi sapendo di essere in pieno torto e davanti ai tre uomini. Subiva, borbottando, lo sfogo. E zia giù, con tutta la forza che aveva. 87 anni di vigore inviperito.

Uno sconosciuto si era permesso di entrare in casa sua e andare a rovistare per le sue stanze mentre lei lavorava la terra. Quelle mani avevano toccato le sue maniglie in ottone e, quelle scarpe, calpestato, piano, senza fare rumore, i suoi pavimenti. Il tutto, dopo aver scavalcato un cancello chiuso e aperto un portone, chiuso anch’esso, con due giri di chiave. Inaccettabile.

– Brutu disgrasiau che ti nu sei autru! Maladetu, sa te piu ca te ciapu ben a te ne daggu tante che pi’n pò ti te ghe pensi ben de vegnì a rumpe e cuje chie a ca mea!… Vergugnusu fiu de na bagaina!…. – (Brutto disgraziato che non sei altro! Maledetto, se ti prendo bene te ne do tante che per un po’ ci pensi a venire qui a rompere le balle a casa mia! Vergognoso figlio di una…. ehm… beh… questa non la traduco).

E giù botte da orbi. Inutile dire che un minimo sorriso, alle guardie, scappò, finchè il Brigadiere, alzando gli occhi al cielo, tentò di fermarla – Alè, basta adesso, un pò gliene hai dato! –

– Maresciallu, levaimelu vui da sottu a-e mae, perchè mi a nu me fermu! Pelandrun! – (Maresciallo (topozia da’ i gradi ai Carabinieri a casaccio) levatemelo voi da sotto le mani perchè io non mi fermo! Pelandrone!).

Insomma topi, datemi retta, non rubate a topozia!

Noi liguri… abbiamo carattere!

Squit!

M.

Topononno aggiustagatti

Buffo vero? Un topo che rimette in sesto un gatto.

Ebbene si amici, eccovi in pole position l’ultimo arrivato in tana. Si lo so, niente di che. Bellissimo per carità, ma un pò rantegu. Da noi “rantegu” vuol dire malconcio. Sembra un ragno più che un micio. Ma come si fa a resistere ad un musetto così?

E’ arrivato lui. Miagolando pretenzioso. Topononno lo ha visto nel suo orto e… gli ha dato da mangiare. Ciao. Finita. Amore a prima vista.

Ora, voi forse non riuscite a vederlo ma è magro da far paura e, quando è arrivato una settimana fa, manco si reggeva in piedi. Dire che zoppicava è dire poco. Sembrava, boh… non so nemmeno io cosa sembrava!

Adesso invece già saltella, si nasconde, gioca. Ha ancora gli occhi un po’ cisposi, dentro alle orecchie ha l’intera centrale di Chernobyl e, sul naso, la discarica comunale.

Non ha pulci solo perchè inizia a far freschetto. Avrà anche i vermi presumo ma, il vermifugo, è un prodotto troppo moderno per topononno. Nessuno è venuto a reclamarlo e lui se ne va a zonzo beato per la campagna con un altro trovatello. Sì, topononno si è messo a salvare tutti i gatti della Liguria. Vuole imitare me e Niky mi sa.

Mia zia quando l’ha visto ha esclamato – In autru gattu?! – (Un altro gatto?!) e mio nonno – E mialu… poru ninin, cum’a fajevu a lasciallu cuscì, nè… vegni, vegni minuminu… – (E guardalo… povero ninino, come facevo a lasciarlo così, nè… vieni, vieni minuminu…).

Mia zia – Ma ti ti sei nesciu, u pà in rattu autru che minuminu…- (Ma te sei scemo, sembra un ratto altro che minuminu…). Ecco, questo è stato il dialogo in famiglia quando quattrozampe peloso è giunto.

Zia di gatti non ne voleva più da quando quello che avevano è andato a finire sotto ad una macchina che l’ha investito e ucciso. Poi, si è lasciata convincere a prendere la trovatella Lucy e adesso questo. Fatto sta infatti che, alla fine, anche zia si è innamorata e adesso è la prima che nasconde un po’ di cibo per portarlo a quello che un domani sarà un gatto meraviglioso.

Ha un pelo e un muso bellissimi, non trovate anche voi? Non ha un vero e proprio nome. Ormai tutti lo chiamiamo Minuminu che è il richiamo di topononno.

E dovreste vedere come si diverte topononno a vedere micio che salta rincorrendo i grilli o cercando di arrampicarsi sulla catasta di legna.

Ma non ha ancora molta forza nelle zampe e, sapete com’è, nonno non è quello dei veterinari e dei dottori. Forse non sa nemmeno che esiste il dottore per gli animali ma con Lucy è riuscito in tutto e sono sicura che riuscirà anche con questo qui.

E’ inutile ch’io m’intrometta perchè tanto sa lui cosa fare e non sente ragioni. Topononno è convinto sia sufficiente coccolarlo molto spesso e io, tutti i torti, non posso darglieli. Lui infatti, al pomeriggio, si siede sulla sedia di vimini sotto al suo nocciolo e i gatti, uno per volta, gli salgono in grembo per prendersi la loro razione giornaliera d’amore. E poi gli fanno gli appostamenti. Giù nell’orto, si nascondono dietro alla rosa o dietro ad un cavolo e poi, quando lui passa, all’improvviso, saltano fuori. Topononno non si è ancora abituato e, ogni volta, le risate sono spontanee.

Minuminu è ancora un po’ diffidente con gli estranei ma, a parer mio, ancora qualche giorno, e diventa buonissimo. Ho visto gatti molto più selvatici di lui, diventare affettuosissimi. Insomma, topononno, proprio non può stare senza fare niente e, alla sua veneranda età, ora si è messo a fare il “crocerossino” dei felini. Beh, che volete che vi dica, ben venga! Per lui e per loro!

E allora:- Benvenuto Minuminu!-.

L’unico problema che ha, è il colore del pelo. Topononno è sampdoriano e, quando lo accarezza, lo chiama “gatto juventino”, chissà se sta pensando anche di tingergli il pelo. Con topononno, tutto è possibile.

Quando sarà più grande vi farò vedere la sua trasformazione. Per ora è un frugoletto che dorme nello scarpone di nonno e non è nemmeno capace a fare le fusa. E’ buffissimo. Stiamo a vedere cosa diventerà.

Vi mando un bacione! Miao! Anzi Squit!

M.

Le scarpette della Madonna

Probabilmente solo il mio amico Pani potrà dirmi il vero nome di questi fiori, dopo aver spulciato i suoi archivi. Sono fiorellini piccoli, ma bellissimi, di un giallo intenso ,e i loro minuscoli petali hanno la forma di un sacchettino.

Nella mia Valle sono conosciuti con il nome di “Scarpette della Madonna” e dipingono tutti i prati, i boschi e i sentieri con la loro calda tinta. Non sapendo nulla di loro, non potrò svelarvi i loro segreti e le loro proprietà, posso solo dirvi che sono prelibati per le farfalle e che sono davvero numerosi, qui da me. Sono diventati un fiore simbolico.

Sembrano molto delicati, invece presumo siano robustissimi, perchè riescono a vivere anche in zone impervie e crescono tranquillamente sotto i rovi e tra le sterpaglie. Quale difesa possono avere? Non penso proprio siano tossici, né sono forniti di spine.

Il loro nettare ha una protezione eccellente: racchiuso tra quei petali ricurvi, non si offre generoso agli insetti, pur essendo delizioso. Oh sì, anch’io li ho assaggiati, sapete? E’ proprio vero, i topini hanno sempre un angioletto in più a proteggerli. Da piccola mangiavo tutto quello che trovavo in un bosco. Le loro foglioline sono di un verde brillante e, a lisca di pesce, ricoprono tutto lo stelo. Nei recipienti posti davanti alle Madonnine che s’incontrano per le stradine di montagna, non mancano mai insieme alle Margheritine e ai Non ti scordar di me. La mia topozia mi raccontava sempre la stessa fiaba…

“Perchè ce ne sono così, tanti zia?”

“Perchè, quando arriva, la Madonna è sempre scalza: è molto povera, e allora s’infila due petali di questi nei piedi per camminare senza sentire dolore”

“Ma non può infilarli! Sono troppo piccoli! Che numero porta di scarpe la Madonna?”

“La Madonna, quando li infila, riesce a calzarli perfettamente. Loro diventano grandi quanto è grande il suo piede. E le calzano a pennello, come la scarpetta di Cenerentola!”

Se era andata così per Cenerella, sicuramente poteva riuscirci anche la Madonna, pensavo io, e questa storia penso che tutti la conoscessero, perchè il loro nome è da sempre stato questo.

Quante volte ho aspettato in silenzio di vedere la Madonna che arrivava e si infilava quelle scarpette dorate! Quelle scarpette che per anni hanno addobbato la mia casa come centro tavola, come mazzolino nel bagno e addirittura ne coglievo due da mettere sopra i cuscini, uno per me e uno per mia zia. E ogni sera, quando era ora di andare a nanna, vedevo sempre il suo sorriso nell’avvicinarsi al letto.

Questi fiori mi piacciono tantissimo, suscitano in me molti ricordi, ma al di là di questo, li trovo splendidi. Danno un senso di umiltà e di gioia, di tenacia e educazione. Chissà come si chiamano!

Un bacio profumato dalla vostra Pigmy.

M.

“Caro squit!”

Questa filastrocca la conoscerete tutti, ma per me, pur essendo molto semplice e senza niente di particolare, riassume in sè un mare di ricordi e me la porterò nel cuore tutta la vita.

È popolare e penso che ognuno di voi, nel proprio dialetto, l’abbia ascoltata. Me la cantava sempre una mia topo-zia, una seconda topo-mamma per me, con la quale son cresciuta e che oggi purtroppo non c’è più. Ricordo ancora il suo muso sorridente, mentre con l’indice della zampa mi toccava il musino indicando le parole della canzoncina. Ricordo il lieve pizzicotto sul naso (momentaneo campanile), che veniva dolcemente scosso a imitare il suono della campana a festa. Sento ancora l’odore delle sue zampe e vedo le rughe intorno agli occhi sollevarsi nel sorriso. Io seduta sul tavolo della grande sala e lei su una sedia di fronte a me. Poi, io facevo a lei lo stesso gioco, ma immancabilmente dopo il verso “l’orecchia e sua sorella“, dimenticavo le parole. Oggi, le ho stampate nella mente.

Ieri, un pò per gioco, un pò per destino, i miei amici di questo blog mi hanno detto di tirare fuori le mie nenie, le mie tiritere, le mie canzoni, come un buon cantastorie della mia terra, tanto da farne nascere una sezione dedicata anche ai ricordi del passato, mio e del luogo in cui vivo. Non potevo non iniziare con questa che, nella sua semplicità, mi commuove, come vedo commuoversi gli anziani in quelle che, con tanto affetto, ricordano.

Ebbene, topini, la sezione si chiamerà “Caro squit!”, spero vi piaccia.

Essendo questa filastrocca particolarmente famosa, mi piacerebbe la scriveste anche voi, nei vostri commenti, come viene cantata nella vostra provincia; è la prima di una lunga serie, dai, rompiamo tutti il ghiaccio per inaugurare la nuova categoria!

Stu chi u l’è l’oeggiu belu, stu chi u l’è so fratellu

sta chi a l’è l’uregetta bela, sta chi a l’è sa surela

sta chi a l’è a gesgetta, cun tuti i soei fratin

e stu chi u l’è u campanin cu fa din, din, din, din, din!

 

Traduzione:

Questo è l’occhio bello e questo è suo fratello,

questa è l’orecchia bella e questa è sua sorella,

questa è la chiesetta con tutti i suoi frati

e questo è il campanile che fa din, din, din, din, din!

Facendo una ricerca, ho trovato questa filastrocca completa e in italiano. È leggermente diversa e, come potrete ben capire, a me dice assai poco sentimentalmente. Ve la posto ugualmente.

Questo è l’occhio bello, questo è suo fratello.

Questa è la chiesina e questo il campanello:

din don din don din don.

La testina bionda,

guancia rubiconda,

bocca sorridente,

fronte innocente.

Din don din don din don.

 

Un dolce abbraccio,

vostra Pigmy.

 

M.

Accade anche questo

Quando Archelfo, ieri, ha commentato il mio post sulle streghe, mi ha chiesto di raccontare una cosuccia che mi è capitata, anzi, che forse ho fatto capitare, qualche anno fa.

Stavo camminando per strada e quell’uomo, brutto e cattivo come la peste, mi guardava passando con una specie di piccolo trattore e sogghignava. Stava seduto, col suo cappello di panno sopra una di quelle vetture con le quali si va nell’orto, era come un motore con dietro un piccolo cassone completamente arrugginito. Io lo guardavo, lo detestavo e dentro di me dicevo: «Ma ti scoppiasse una gomma, defi….e!».

Non c’era un motivo particolare, era solo un uomo odioso, spocchioso e superbo e io non lo potevo vedere.

Mi sono spaventata io stessa perché, non appena ho terminato la frase, ho sentito come uno scoppio sordo e forte. La ruota del suo trabiccolo era scoppiata davvero! Non era esplosa, ma dopo quel botto si stava accasciando al suolo e il trattore si era inclinato così tanto che l’uomo, bestemmiando in piemontese, era dovuto scendere. Ovviamente andava pianissimo, a passo d’uomo, con quel trabiccolo.

«Boia faus! L’è n’en pussibl na f’è parei! Cuma diau….» e boia di qui e boia di là.

Corsi a casa a raccontare a mia madre l’accaduto, perché ero veramente impressionata da ciò che “avevo combinato”! Ebbene sì, mi davo la colpa dell’accaduto, e cose come questa me ne sono capitate parecchie nella vita (non di augurare fattacci e disavventure, ovviamente, quanto piuttosto di immaginare cose o sentirle e poi vederle accadere).

Noi topini siamo sensibili. Ma non è di questo che volevo parlarvi, si tratta sempre di una vicenda, bellissima, che mi è accaduta quando ero bambina, un po’ incomprensibile anch’essa, ma che porto tutt’ora nel cuore. Non c’entra con le coincidenze o lo sperare di riuscire in una cosa, ma è comunque affascinante per la mente e per tutto quel che nasconde, non solo lei, ma anche quelle forze, sesti sensi – chiamateli come volete – in cui viviamo.

Avevo 7 anni. Era estate e tutti gli anni da giugno a settembre andavo ad Andagna, un bellissimo paesino della mia valle, con una zia a passare le vacanze. Era un po’ il mio secondo paese.

Andagna era un posticino tranquillo, contava – e conta ancora oggi – poche anime. Tutti mi conoscevano e sapevano dov’ero, quando invece la mia povera zia non riusciva a trovarmi e mi cercava ovunque. Verso i primi giorni d’agosto di quell’anno, arrivò in paese un cane. Assomigliava a un lupo, col suo pelo castano chiaro e scuro. L’arrivo di un cane ad Andagna mise la gente in agitazione perché era un essere “nuovo”, che non faceva parte della… comunità. Tra l’altro dovete sapere che nella mia valle era usanza, per educare, o meglio, spaventare i bambini, parlare del lupo come dell’uomo nero. Era per questo che quel cane, fin dall’inizio, non piacque a nessuno. I vecchi borbottavano tra loro nel nostro tipico dialetto:

«Ma de chi u l’è stu can? Ti u sai?»

«Da dundu u l’è sciurtiu?»

«U l’è sporcu, u saeà anche cativu, a gu u lezzu in tu u sguardu cu l’è cativu!»

E, ovviamente, i bambini non erano da meno, sentendo gli adulti parlare in quel modo. Gli tiravano le pietre, lo canzonavano, nessuno si ci avvicinava, ma da lontano gliene dicevano di tutti i colori.

Eppure lui non se ne andava. Stava spesso in un sottotetto in piazza, dove noi bambini giocavamo. Alto, lontano da noi, sopra una casa a due piani.

Riusciva a passare di lì perché la casa, da dietro, poggiava sulla terra. I due piani dell’edificio erano percepibili solo da un lato. Da lassù ci guardava, schivando le pietre o i ricci di castagne d’India che Franco e il Mago con la compagnia gli tiravano.

I suoi occhi nocciola, guardando il sole, diventavano rossi come rubini e fu così che venne nominato presto “il cane del diavolo”.  Fortunatamente, gli anziani del posto, parlavano tanto, ma agivano poco, perché comunque nessuno ha mai fatto del male, seriamente, a quel randagio. A noi ragazzini, però, faceva paura e poi, sapete come sono i bimbi, da una goccia, ne fanno un mare.

Ricordo che un giorno, nei giochi della piazza mentre dondolavo sull’altalena, da sola, lui arrivò, si fermò dall’altra parte del parco e si mise a guardarmi. Io, me ne andai. Ebbi timore: e se tutto quello che dicevano fosse stato vero?

Un pomeriggio ero con le mie due amiche a giocare. Erano due bambine buone come il pane, mezze francesi e mezze italiane, rosse di capelli e con le lentiggini. Una era più grande di me, l’altra più piccola. Eravamo sempre insieme.

«Andiamo alla villa a far da mangiare!»

Andiamo.

La villa era un’enorme casa abbandonata, disabitata da anni, dietro la chiesa del paese. Avete presente quelle case nei film, con quei portoni di legno massiccio, il cancello chiuso con catena e lucchetto, e davanti l’erba, incolta, alta più di un metro? Ecco, quella catapecchia era uguale. Per noi, far da mangiare, significava mischiare fiori, foglie di menta con sabbia e acqua e preparare delle torte. Nel cortile di questa casa fantasma avevamo trovato delle pentole e delle bacinelle. Andavamo lì tutti i giorni e dovevamo passare da un buco nella rete della recinzione. Ci sedevamo sotto quel portone tarlato e iniziavamo a impiastricciare, fingendo di essere delle comari che si invitavano a cena l’una con l’altra.

Fu una di quelle volte che accadde.

Stavamo sedute in cerchio tutte e tre, io e le due sorelle rosse. Io davo la schiena al portone chiuso a chiave e loro erano una di fronte a me e l’altra di lato, un po’ più distante, perché era sempre senza “ingredienti” e quindi preferiva sedere vicino all’erba per la mancanza di voglia nel doversi alzare ogni due minuti. Io, di quel momento, ricordo solo che stavo pestando delle foglie con una pietra. Rammento anche all’improvviso il forte, fortissimo, urlo di Marie: «PIGMY!».

Non vidi più nulla, sentii soltanto come una forza che mi sballottava, trascinava, non lo so nemmeno io. Gli altri “Pigmy” di Marie li sentii in lontananza.

Sapevo di avere gli occhi aperti, ma non vedevo nulla, solo dopo capii.

Un’immensa nuvola di polvere e fumo grigia mi circondava, non vedevo nemmeno le mie mani. Ero ancora seduta a terra, ma non ero più nello stesso punto.

Quando la nebbia si diradò, ero a circa 7-8 metri di distanza da dov’ero prima. 7-8 metri li ho nei miei ricordi di bambina, potevano essere meno o forse di più.

Marie era dall’altra parte del giardino, nemmeno lei era più sotto il portico, mentre sua sorella ferma, nella stessa posizione, con in viso un’espressione di shock totale. Era come inebetita. Marie mi corse incontro, tentennò un po’ ad avvicinarsi, ma poi mi abbracciò e ricordo la sua manina mettermi i capelli dietro le orecchie. Ogni tanto guardava dietro di me. Dopo un po’ mi voltai anch’io.

Dietro di me, a un palmo da dove mi trovavo, c’era “il cane del diavolo” che ansimava con la lingua a penzoloni. Ricordo ancora il suo fiato caldo nella testa. Rabbrividii, sembrò quasi che la mia amica lo capì.

«Ti ha trascinato fin qui!» mi disse.

In quel momento capii cos’era successo. Il mastodontico portone crollò di colpo. Quel cane doveva già essere lì, ma noi non l’avevamo visto, altrimenti come altro aveva fatto? Se lui non mi avesse trascinata, con la bocca, più in là, quel portone mi avrebbe uccisa. Era veramente pesante, quella porta, e io avevo appena sette anni.

La mia camicia a quadri rossi e marroni era strappata all’altezza della spalla, così come il colletto. I segni dei suoi denti mi avevano graffiato, ma non mi usciva sangue, avevo appena una spellatura e qualche piccolo livido sottostante. Tra i suoi denti c’erano i miei capelli.

Spontaneamente, lo accarezzai. Dopo di me, venne il turno di Marie, anche lei lo accarezzò. La sorella di Marie, Cristina, continuava a stare seduta là, non era nella traiettoria del portone. L’unica che l’ha visto scendere, sbucare all’improvviso e portarmi via fu Marie, che dava la faccia al portone ed era riuscita a scansarsi.

Ero piena di polvere. Andai a casa di mia zia, il cane sempre dietro. Raccontai tutto a quella donna che mi ascoltava con la testa tra le mani e continuava a dire: «Oh! U me pulin!», che in italiano significa il mio pulcino. A parte la mia espressione, ero con le mie testimoni e utile mi fu, in questa storia incredibile, lo strappo sulla camicia e il segno dei denti. La saliva. Il bottone mancante. Mia zia uscì fuori, ai tempi la porta di casa si teneva sempre aperta e gli diede da bere e due biscotti che mangiò perché lui non entrò mai in casa nostra, stava fuori ad aspettare.

Da quel giorno, stette sempre con noi e sempre nella villa a preparare da mangiare. Ormai il portone era caduto, pensavamo noi, anche se ci avevano vietato di ritornarci. Il Mago gli tirò un altro riccio di castagna e io lo morsicai nella schiena forte, come non ho mai morsicato nessuno. Il Mago si girò e mi tirò un calcio, così potente nella pancia che non respirai per un quarto d’ora, ma il segno dei miei denti, secondo me, ce l’ha ancora adesso.

Un giorno il cane sparì, non lo vedemmo più per un po’, poi ritornò, lindo e pulito, spazzolato e profumato. Allora, forse, era di qualcuno! Ma di chi?

Dissero che era di un pastore di Molini, ma senza alcuna certezza. Stette con noi tre tutto il pomeriggio, ero convinta di rivederlo l’indomani, ma non lo vidi mai più. Non venne i giorni a seguire, né l’anno dopo, non venne più.

Non ho sognato. Mia zia tenne la mia camicia per tanti anni, poi, chissà cosa ne hanno fatto le mie cugine, che con ogni probabilità la consideravano cianfrusaglia.

Sono passati 26 anni, ma ricordo tutto come se fosse accaduto ieri. Il rumore, l’odore di cane, la polvere, Marie. Di quel giorno penso di aver capito molte cose e altre, invece, come i giri della coincidenza, non voglio nemmeno capirli. Eppure una cosa mi è rimasta nella testa, alla quale mi piacerebbe dare una spiegazione. Dov’era? Come faceva a essere lì senza che noi lo vedessimo? Da dove è uscito così all’improvviso? E chissà da quanti giorni stava lì con noi.

Ti ricordo ancora.

Pigmy.

M.