L’Eremo di Santa Maria Maddalena del Bosco

Come vi ho promesso ieri, vi porto in un bosco ricco di storia e arte. Grazie alla Compagnia di Santa Maddalena del Bosco ( www.maddalenadelbosco.info), meglio conosciuta con il nome de I Maddalenanti, oggi posso raccontarvi di un luogo antico e misterioso, ma molto conosciuto della mia Valle.

Ci vuole un po’ per raggiungerlo. L’aria è frizzante e in alcuni punti le nuvole coprono la volta arborea. Possiamo parcheggiare l’auto sotto due Castagni e proseguire a piedi, oltre la spessa catena che troviamo ad accoglierci.

Il complesso di S. Maria Maddalena del Bosco è subito lì, e dista da Taggia all’incirca 11 Km. Si trova in un luogo selvaggio e incontaminato, a 623 metri sul livello del mare, sul cocuzzolo di una rupe che forma un pianoro boscoso di piante millenarie, chiamato un tempo Castagneto di S. Maiolo. Prendiamo la stessa strada di confine che ci ha già portato ieri a Santa Rita, sul Cammino del Ghiaccio, è la strada delle Neviere. Questa chiesa, di origine benedettina, venne fondata nel IX secolo, come succursale del priorato che aveva sede a Taggia, presso la Madonna del Canneto, e si raggiunge solo a piedi dopo aver attraversato la stalla. Quest’ultima serviva a sistemare i cavalli al fresco il giorno della festa della Maddalena, in estate.

Una fontanella gocciola acqua freddissima e si trova proprio davanti all’eremo. Anticamente vi era annesso un piccolo monastero, in cui avevano sede le celle dei Padri Benedettini, di cui restano poche tracce nell’attiguo edificio. Il complesso, di modeste dimensioni, è provvisto di un lungo pronao, dal quale si accede anche al locale in cui abitava, a suo tempo, l’eremita (ora serve da dormitorio per la notte della vigilia della festa che vi nominavo prima).

“A festa dà Madarena” ha per simbolo un santuario isolato, accanto al quale, alla base della rupe su cui sorge il complesso, esiste una grotta composta di due piccole cavità adiacenti collegate da uno stretto passaggio detta “u Bauzu da Madarena”. Qui, secondo la leggenda, avrebbe sostato la Santa in viaggio verso la Provenza: i fori all’ingresso e all’uscita del cunicolo segnerebbero l’impronta delle ginocchia nel punto in cui si sarebbe raccolta in preghiera. Di fianco all’ingresso è stata realizzata una splendida meridiana. Sopra, invece, vi è un piccolo dipinto murale trecentesco molto sciupato. Vi si distinguono due figure; alcuni vi vedono l’Incontro di Gesù con la Maddalena, ma non è escluso che si tratti di un’Annunciazione. Purtroppo è davvero antico e malridotto per poter giudicare meglio.

Nel 1921, per ricordare gli interventi promossi da quattro soci benemeriti, fu posta nel pronao una lapide marmorea con l’iscrizione: “Ad nomina indeficienti grato animo, perpetuaeque memoriae, sociorum sacranda ad exemplum viventibus posterisque praehibendum, societas socios benemeritos decrevit Joannem Cunnizzoli a Verona, Thomas Laurentium et Benedictum Fratres, Arrigo Josephum De Carli, qui fervente amore generosisque elargitionibus decorem et commoda societatis munifice auxere, MCMXXI”. Non chiedetemi di tradurre parola per parola, per favore!

Andiamo avanti nella nostra escursione, piuttosto. I Maddalenanti hanno intrapreso molte opere di restauro in questo luogo, e si vede.E’ grazie a loro se oggi si può ancora accedere a questo posto magnifico.

La sagra estiva è famosissima nella zona qui intorno, è molto sentita. Guardate  che grandi lavandini ha l’eremo e quanti tavoli! Ce ne saranno più di cento tutt’intorno, e ci sono ben due forni. Pare che nel secolo XVI l’eremo venisse adibito a ricovero per malati contagiosi. Secondo una tradizione locale, tre vescovi di Albenga vi si ritirarono ai tempi della peste e fecero dipingere sulla parete laterale di sinistra della chiesa i loro emblemi.

Nel 1634 venne aggiunta una piccola sacrestia. Da una notizia dovuta alle ricerche di Umberto Martini, estratta dal libro delle delibere comunali dell’epoca, si apprende che il 10 Aprile 1635, Fra’ Guglielmo, eremita della Maddalena, presentò istanza al Comune di Taggia, allo scopo di ottenere un sussidio per officiare funzioni sacre e sopperire alle esigenze della sua vecchiaia. E intorno a questo vecchio eremo, secondo quanto scrive il Tirocco nel libro “I Paesi e i Santuari di Valle Argentina” del 1933 esisteva un orto, o fascia, con alberi da frutta.

All’interno della chiesa è presente un affresco  del ‘400 con i Santi Sebastiano Martire, Michele Arcangelo e Bernardino da Siena. Accanto a quest’ultimo, sono raffigurate tre mitre, come allusione alle sue rinunce alla carica di vescovo; in basso si vedono una chiesa, riconoscibile probabilmente come la cattedrale di Albenga e un castello indecifrabile. Sul libro che S. Bernardino tiene in mano, si possono leggere le lettere PICT, G e, sotto P e E. Vi è pure la data 1615, tracciata con un punteruolo, che non è quella dell’esecuzione del dipinto. Purtroppo la porta è chiusa e attraverso la grata e il buio non ho potuto fare foto migliori rispetto a quelle che vi mostro.

Lungo le pareti di questo edificio religioso si trovano le tracce di alcune croci di Malta che sembrerebbero testimoniare l’antica presenza in zona degli Ospitalieri Gerosolimitani, noti come Cavalieri di Malta. Sopra l’altare è collocata la statua della Maddalena in ginocchio davanti al Crocifisso. La scena è ambientata all’interno di una piccola grotta ornata di stalattiti. La scultura venne posta nel 1937, in sostituzione di una tela del medesimo soggetto che, secondo una credenza popolare riferita da Giacomo Martini nell’opera “Passeggiata nei dintorni di Taggia” del 1884, aveva la curiosa caratteristica di non impolverarsi mai. Dentro la nicchia si conserva un piccolo crocefisso detto “nero” dal colore della croce, databile alla fine del ‘400 o prima metà del ‘500. Sulla parete di destra si trova un dipinto raffigurante la Madonna in preghiera ancora esistente, tuttavia del soggetto rappresentato esisteva un altro quadro che venne rubato insieme ad altri oggetti. Che peccato!

L’opera d’arte più significativa, un crocefisso in legno di pioppo (un altro) databile al XIV secolo, è stata trasferita nella piccola Parrocchia dopo il restauro e sostituita da una copia realizzata dallo scultore Carlo Piffer, autore anche di un più piccolo Cristo in Croce ricavato da un ramo.

Tutte queste nozioni molto interessanti mi sono state raccontate da chi questo luogo lo conosce molto bene.

Allora topi, vi è piaciuto il giro di oggi? E’ stato bello come vi avevo promesso? Bene, io adesso vado a farmi un giretto in mezzo al bosco. Sento il canto di tanti uccellini e l’atmosfera è da sogno. Inoltre, ci sono tante cosine da raccogliere. Ecco, scatto un’ultima immagine da lontano all’eremo e me ne vado a zonzo.

Un abbraccio a tutti, la vostra Pigmy.

M.

Santa Rita – tra le due Neviere

Il Cammino del Ghiaccio, dotato di segnaletica in legno, era un’antica mulattiera che permetteva agli abitanti di Taggia e dintorni di raggiungere le Neviere, costruzioni in pietra che raccoglievano la neve, e potersi rifornire di ghiaccio durante le estati o per la conservazione degli alimenti. Un giorno vi parlerò della Neviera dell’Albareo e della seconda grande Neviera.

L’inizio di questa strada si trova nella parte alta di Taggia, in piazza Santa Lucia, proprio dopo i due ultimi bastioni. Il primo tratto offre una vista spettacolare su tutta la mia Valle che da qui sembra davvero immensa: si può vedere senza difficoltà tutta Arma, laggiù sul mare, e poi Taggia, Castellaro e i monti di Colle D’Oggia ancora baciati dal sole. Poi ci sono le montagne che  racchiudono con un abbraccio tutto il paesaggio e il fiume che scorre giù in basso. L’orizzonte, se lo si osserva a lungo, assume diverse sfumature. Ci circondano le pratoline e gli asparagi selvatici. Le distese di ulivi sono infinite e le fasce sono ordinate.

Giunti qui, sulla cresta sopra Taggia, possiamo scegliere se salire verso destra, verso i Beuzi, e scendere a Bussana, oppure dirigerci a sinistra, verso l’eremo di Santa Maria Maddalena del Bosco.

Saliamo a sinistra. E’ un luogo magico, sembra di poter parlare con la foresta. Ci sono ancora le auto dei cacciatori, i cani che ululano correndo, avanzando. Si sente grufolare, o almeno così pare, i suoni sono tanti ed è difficile distinguerli con precisione.

Prima di inoltrarci nel bosco di querce e castagni, ricco di ghiande ancora acerbe, ammiriamo la via che stiamo percorrendo. E’ una strada di confine. La vecchia Podesteria di Badalucco e quella di Taggia se la sono sempre contesa. Dall’archivio di quest’ultima, si apprende che una piccola traversa di essa portava con ogni probabilità al castello di Campo Marzio, dove poco tempo fa sono ricominciati gli scavi archeologici.

Allontanandosi dal bivio Beuzi-Albareo, dove c’è il vecchio agriturismo, si raggiunge la località di Santa Rita. E’ una zona fresca e ombrosa. In estate è d’obbligo fermarsi e sorseggiare un po’ d’acqua fresca. Anche gli animali del bosco vengono a dissetarsi qui.  E’ un luogo prediletto dai Boy-Scouts, che aiutano a tenerlo ancora più pulito. Troviamo un pergolato, dei tavolini, alcuni di pietra, altri di legno, e poi delle panche, un barbecue davanti all’edicola votiva con la statuetta della Santa. Il suo vestito è nero e tra le mani stringe un crocefisso di legno. Questa zona le venne dedicata per volontà di due partigiani che, rifugiatisi proprio in quel punto in tempo di guerra, per salvarsi la vita  si erano affidati a lei in quel momento di difficoltà. Scampati al pericolo, hanno innalzato il piccolo monumento religioso dedicandolo anche a chi non era stato fortunato come loro. Sulla lapide in marmo bianco è scritto infatti: ” Nel ricordo di chi non è più a perenne custodia di questi monti “.

In basso a sinistra è visibile la frazione Campi, raggiungibile da un sentiero non segnalato e qui i Lecci sono verdi come l’Alloro e i Corbezzoli, finalmente maturi, la fanno da padroni. Sono dolcissimi. E’ una zona ricca di funghi di ogni tipo. In alcuni tratti, il Brugo è l’unica pianta rimasta verde, un manto di foglie rossicce ci fa da tappeto e i rami o sono spogli, o color dell’oro.

Ecco il sentiero della Grande Neviera, qui a sinistra, dopo la statua, da percorrere a piedi. Si scende. La strada è sterrata e siamo all’inizio dell’Entrà, un termine dialettale che intende definire la fine delle campagne e delle coltivazioni e l’entrata nel bosco. Non potremmo più godere del panorama come prima, ma quello che incontreremo, proseguendo questa strada, è una sorpresa per la prossima puntata. Non perdetela! Un fresco bacione a tutti.

M.

Francesco Biamonti e la sua Liguria

Quella di cui vi parlo oggi è La mia Liguria, anzi, solo una parte, quella di Ponente. E’ qui che vivo, nel lembo più aspro, e voglio raccontarvelo tramite la penna di uno scrittore.

Nella luce distesa tra ulivi e solitudini di rocce arrivò il suono della campana mediana. Varì ne contò i viaggi: erano tre, era per un uomo. Non riusciva a immaginare: non aveva sentito dire che a Luvaira qualcuno fosse sul punto. E lì intorno, negli uliveti, non c’era nessuno a cui domandare. Ma la sera, sceso a Luvaira, seppe ch’era stato il passeur ad andarsene e si recò al suo casolare. Era già cominciata la veglia funebre. Una strana veglia. Stavano tutti fuori della porta; solo una donna era rimasta accanto al morto e, insieme a un fiore dal lungo stelo, proiettava la sua ombra sul pavimento di battuto. Nessuno parlava fuori, sotto le stelle. Poi, accompagnate da uno stormire d’ulivi, frasi a mezza voce: Siamo proprio niente! Bisogna essere preparati! che non facevano rumore. Nelle pause della brezza il silenzio si posava sul silenzio. Nel cuore della notte qualcuno accennò al tempo: al gran secco, all’autunno luminoso. Varì lasciò Luvaira ch’era tardi. Prese una mulattiera che saliva in una gola buia e raggiunse un dosso di pietrischi. Lo aggirò e riprese a salire per le fasce di Aùrno. – Ne abbiamo fatto del cammino insieme, – pensava salendo, – ne abbiamo conosciuto nomadi e viandanti. Eravamo due passeurs onesti, lui di mestiere io a tempo perso. Non abbiamo mai lasciato nessuno di qua del confine -. Adesso andava su fasce d’argilla marnosa con ulivi grandi agitati da una brezza ch’era come un vento. Tra quegli ulivi aveva la sua casa e più in là, protette dagli ulivi e dalle rocce, le colture floreali. – Ne abbiamo fatto del cammino insieme, – tornò a dirsi mentalmente. – Lui adesso viaggia per altre terre: del silenzio, della penombra -. Le colline erano scure, e scure anche le montagne contro il cielo stellato. Solo la Cimòn Aurive aveva i crinali verso il mare toccati da barlumi. S’alzò presto. Ma trovò la terra indurita dal freddo e preferì aspettare il sole prima di mettersi a innaffiare. Con l’acqua quella terra dura avrebbe morso le radici”.

da Vento Largo 1991

Originario di San Biagio della Cima, in provincia d’Imperia – ben due valli più in là della mia – Francesco Biamonti ci ha lasciati nel 2001, nel pieno del suo vigore creativo e con un romanzo rimasto incompleto intitolato “Il Silenzio”.

Ogni tanto, a colorare il romanzo, c’è qualche termine occitano, altre volte  francese come i passeurs, i contrabbandieri o traghettatori: coloro che aiutavano a sconfinare chi non possedeva documenti. Sono vocaboli che ci fanno sentire lo scritto ancora più nostro.

Riconoscete la Liguria nelle sue parole? Non so se a voi risulta semplice, ma per me lo è: quasi la bevo tutta d’un sorso e, mentre leggo, non posso fare a meno di vedere l’argento delle piante, osservare i muretti a secco e le fasce, percepire il mare che si staglia contro il cielo. Vedo i boschi, i paesi… tutto. Non mi è difficile sentire lo scontro della mia terra con i popoli vicini, sempre attuale. E la Liguria di oggi risente ancora degli strascichi della mentalità di un tempo, della sua storia, fatta di scorribande, funghe e sconfinamenti.

Il Ponente sa essere arido, ma anche generoso… chissà poi come fa a scegliere tra l’uno o l’altro, tra il pregio e il difetto. E’ un luogo arcano, sospeso tra il mare e un antico entroterra.

“Vento Largo”,”Le parole la notte”, “Attesa sul mare”, “L’angelo di Avrigue”… sono tutti testi di Biamonti che parlano di questa terra meravigliosa. Francesco Biamonti fu spesso elogiato da Italo Calvino. La sua è una narrativa scorrevole e realista, che fa conoscere la parte più intima di una Liguria particolare, con le sue tradizioni, il suo modo di pensare. La mia terra.

M.

Il simpatico Vlady

Pum! si sentì contro l’anta dell’armadietto. La luce della stanza lo aveva attirato un po’ troppo a sè.

Purtroppo, così inaspettatamente, si era senza macchina fotografica e il cellulare ha fatto del suo meglio. Accontentatevi.

Un po’ stordito e affaticato se ne stava lì. Le alette ungulate piantate a terra. Il muso immobile, anche quel suo naso arricciato era immobile. Solo l’occhio seguiva preoccupato i movimenti intorno a sè. Un topo con le ali. Un mio parente. In famiglia lo chiamiamo Icaro.

Topini e topine ecco a voi il Conte Vladimir. Un piccolo Dracula.

Povero! Che botta ha preso! Va bene, va bene, lo ammetto, non è il Brad Pitt del regno animale però, aspettate, non siate precipitosi, toglietevi dalla testa tutte le credenze popolari che si hanno su di lui e ascoltatemi. Lo sapete che stiamo parlando di un animale eccezionale? Ebbene sì.

Il Pipistrello, conosciuto come essere repellente, mordace e sanguinario, non è altro che una creatura spettacolare e performante in ogni parte del suo corpo.

Allora, innanzi tutto:

1) Non si attacca ai vostri capelli, nè dovrete tagliare la vostra chioma. Il loro infallibile radar naturale, che li guida, permette loro di evitare qualsiasi ostacolo, anche l’uomo.

2) Non vi verranno ad acciecare, non essendo gli uccelli delle streghe; non è loro interesse, nè tanto meno vi orineranno sulla testa lasciandovi calvi. La loro pipì, tra l’altro, non è acido muriatico, anche se puzzetta parecchio.

3) Non sono demoni volanti come hanno voluto farci credere con il romanzo di Bram T. Stoker “Dracula”, nè hanno il potere di scacciare gli spiriti maligni come tanti contadini hanno sempre creduto catturando, uccidendo, essiccando e appendendo alle porte i poveri Pipistrelli imbalsamati.

E chi più ne ha più ne metta. Insomma, all’incontrario, invece è proprio l’uomo, ad essere il nemico più temibile di questi Chirotteri e non viceversa. Un uomo che, a causa di superstizioni, credenze e scarsa conoscenza, li minaccia ed elimina. Inoltre, con l’uso smoderato di pesticidi, non solo lascia il nostro amico senza cibo, ma lo avvelena proprio. Oh già topi! Forse non lo sapevate ma con un Pipistrello che svolazza in giardino, nessun insetto potrà più disturbarvi. E’ un fantastico mangione.

Ma nonostante il suo cibarsi e il suo essere un mix tra topo e uccello, il Pipistrello appartiene alla famiglia dei Mammiferi. Sì! I suoi cuccioli, appena nati, appesi alla mamma, si nutrono di latte. Uno per volta ovviamente, nel senso che, non fanno più di un cucciolo a parto (di solito).

A causa delle ali chiare, nella zona interna, questo esserino non mi è sembrato una comune Nottola, il più tipico dei Pipistrelli della nostra zona, direi invece un Albolimbato ma, di specie, ce ne sono molte è solo che non le conosco tutte.

Il mio interesse comunque era più mirato a farvi conoscere meglio questo simpatico compagno estivo e notturno. In inverno va decisamente in letargo. Perbacco, non facciamoci abbindolare dalle favole! Avrei molta più paura di un Gufo arrabbiato che è sempre proposto nei racconti fantastici come un animale saggio e tranquillo, anzichè di un Pipistrello che, con una mano, eventualmente, posso scacciare.

E… udite, udite, tra non molto v’insegnerò anche a creare un habitat adatto a loro nel vostro giardino o nella vostra campagna accanto a casa! (Ma anche no! Direte voi…) Ma si! Vedrete che una volta che avrete simpatizzato andrete d’accordo, ne sono sicura.

Pensate che alcuni Pipistrelli possono arrivare a vivere anche quasi 40 anni! Passerete una vita insieme pensate! Ok, vi prendo un po’ in giro però, seriamente parlando, lo sapete qual’è il significato del Pipistrello? No, non in Europa dove è discriminato. Per esempio in Oriente, i Pipistrelli assumono un significato del tutto diverso da quanto espresso da altre culture. Fortuna, ricchezza, prosperità sono infatti termini che si collegano direttamente a loro anche sotto l’aspetto di immagini e dipinti.

Ma una cosa carina ce la racconta l'”Associazione della Tutela dei Pipistrelli”: la credenza secondo cui ai Pipistrelli è dato il dono dell’immortalità, ad esempio, è da collegarsi al fatto che questi animali vivono nelle grotte; le stesse grotte dei “Santi Eremiti”, gli 8 Immortali, i quali, secondo la Storia antica della Cina, vivevano sulle montagne, in caverne isolate cibandosi del “latte delle grotte” che altro non era che l’acqua che gocciolava dalle bianche stalattiti e che avrebbe avuto la prerogativa di concedere longevità. Analogamente, il Pipistrello che coabitava con loro, avrebbe posseduto la dote di allontanare la morte. I Cinesi consigliano ancora oggi che, se si vuole diventare “immortali”, occorre cibarsi di uno di questi animali…! Non solo, ma spesso, nei matrimoni, venivano regalati agli sposi oggetti con raffigurati due pipistrelli, come augurio di una doppia felicità che doveva durare tutta la vita.

Che ne pensate? Storcete ancora il naso al solo vedere queste creature? Ma su dai, in fondo, siete topini anche voi!

Ah, ci tengo a dire che il piccolo nella foto, si è poi ripreso e, fuori, ha ricominciato a volare.

Vabbè, vi dò un bacio…. sul collo (ih!ih!ih!) a tutti!

M.

Monte Ceppo visto da un’amica

Carissimi topi, oggi vorrei raccontarvi di un angolo meraviglioso della mia Valle (che già conoscete), in un modo un po’ particolare. Ebbene si, vorrei che a presentarvelo fosse una mia cara amica che l’ha visto e ne è rimasta entusiasta.

Il luogo in questione è Monte Ceppo, un luogo incredibile dove spesso vi ho portato (in ultimo, con il mio post “Dalla radura ai Cianazzi”). L’amica invece è Mirial e dal suo splendido blog – Sogni di una Notte di Luna Piena –  miopaesedellemeraviglie.blogspot.it ci decanta questa casa di gnomi e folletti cogliendola in un momento davvero particolare. Ho parlato con Mirial e non potevo permettere di non far vivere anche a voi, topini, queste emozioni. E allora preparatevi, dalla sua rubrica

ha inizio un fantastico viaggio, con immagini strepitose da mozzare il fiato. Questa è la mia Valle amici. Questo è il mio mondo. Queste, le parole di chi l’ha conosciuto:

     “Bentornate nella mia Foresta Incantata, creature del bosco! Come sempre, prima di cominciare ricordo a tutti voi di cosa tratta questa rubrica. Grazie a “Lost in Nature”, vi accompagnerò tenendovi per mano nei luoghi incantati in cui mi condurranno i miei passi e che intrappolerò eternamente nella mia macchina fotografica. Le immagini saranno accompagnate da frasi, scritte di mio pugno o tratte dalla letteratura e dalla poesia, oppure ancora da un “resoconto di viaggio”. Questa rubrica non ha cadenza fissa, la pubblicherò occasionalmente, ogni qualvolta avrò qualcosa da raccontarvi o un posto in cui guidarvi. Se nella scorsa puntata vi ho fatti diventare piccoli piccoli per farvi guardare più da vicino i fiori di Zafferano, oggi invece voglio portarvi sulle nuvole, oltre le cime degli alberi della mia Foresta! Forse penserete che vi sballotto di qua e di là, un po’ rasoterra e un po’ a sfiorare il cielo, ma credetemi, ne vale davvero la pena!!! La vostra fata Mirial qualche giorno fa è andata a Monte Ceppo, luogo di cui vi avevo già parlato qualche tempo fa. Da lassù si gode di un panorama mozzafiato, ma io non potevo minimamente immaginare cosa avrei visto una volta arrivata là. C’ero stata già una volta, all’inizio di quest’anno, ed ero rimasta incantata a guardare l’orizzonte e il susseguirsi di vallate, creste montuose e mare dinnanzi a me. Ma questa volta è stato tutto diverso! La strada per arrivare a Monte Ceppo era degna di un dipinto: gli alberi spogli avevano lasciato cadere il loro manto rosso di foglie al suolo, creando un tappeto uniforme ed interrotto solo dall’asfalto della strada. Il bosco, a tratti talmente fitto da risultare buio e cupo, a tratti rado e luminoso, sembrava surreale, uno di quei luoghi che esistono solo nelle fiabe. Il sole stava calando e tingeva di un rosa acceso i monti circostanti, che sfumavano poi a valle in un freschissimo ed intenso azzurro cielo. Tra una vetta e l’altra, sempre a valle, si insinuava una nebbiolina leggera che si estendeva come un manto su tutto il paesaggio sottostante a me. Più continuavo a salire di quota, più mi sentivo pervadere il cuore da un’immensa meraviglia, ma non era ancora niente paragonato a quello che ho visto poco dopo. Mi è bastato svoltare una curva per ritrovarmi in un posto magico, surreale, ai limiti della realtà! Sotto di me si estendeva un vero e proprio mare di nuvole che ricopriva l’intera vallata, lasciando emergere la vetta su cui mi trovavo e poche altre cime, che apparivano come veri e propri isolotti in mezzo al mare. Il cielo era al crepuscolo e sfumava dal rosa al giallo, fino a stemperare nell’azzurro. Da un lato c’era il sorriso della Luna crescente, dall’altro la vetta di un colle che spuntava dalle nuvole, sembrava Avalon!

Le foto non rendono giustizia alla bellezza cui ho assistito.
Il mare di nuvole avvolgeva tutto sotto di me e per la prima volta nella mia vita mi sono sentita fuori dal mondo, lontana dalla Terra, sospesa in un non-luogo meraviglioso. Mi sembrava di essere in un luogo eterno, dove la pace regnava sovrana e dove non esistevano più il tempo e lo spazio. Una pace indescrivibile si è impossessata di me portandomi quasi alla commozione davanti a tanta bellezza! Non riesco a descrivervi il movimento delle nuvole… era lento, ma somigliava al mare in burrasca, in alcuni punti invece sembrava formare cascate silenziose e tremendamente belle. Insomma, uno spettacolo che non si vede esattamente tutti i giorni! Penso che sia proprio il caso di dirlo: ho toccato il cielo con un dito! Era un po’ come volare, come essere su un aereo, con la differenza che io potevo sentire il freddo sulla mia pelle e potevo ascoltare il silenzio, sentire l’odore di terra umida arrivare alle mie narici… Per concludere la giornata in bellezza poi, scendendo da quel paradiso per tornare a casa, mi sono imbattuta in un piccolo capriolo che mi ha attraversato la strada. Che meraviglia la Natura! E pensare che l’uomo non se ne cura affatto…
Con questo io concludo questo post e spero di avervi regalato un angolo di cielo!

A presto!”

Allora topi, cosa ne dite? Vi è sufficiente questa testimonianza per farvi capire quanto la mia Valle sia affascinante? Grazie Mirial un bacione a te e a tutti voi, la vostra Pigmy.
M.

Mi chiamo Melissa e profumo di limone

La pianta di cui vi parlo oggi di chiama Melissa Officinalis, per l’esattezza. Ha un aspetto comune, alta non più di 100 cm e bassa non meno di 30. La sua tinta è il verde acceso, talvolta ravvivato dal bianco dei suoi microscopici fiorellini. E’ protetta da una morbida peluria e cresce ai bordi dei sentieri, ai piedi delle prime rocce, all’inizio dei boschi; dove cresce spontanea.

Melissa è il dolce sogno degli insetti. Il suo nome deriva dal greco e significa “Pianta dolce per le Api”; da qui si trae la conseguente derivazione della parola Miele.

Non tutti gli insetti l’adorano; le zanzare, per esempio, non la sopportano. Il suo profumo è simile a quello della Citronella, un veleno per loro.

Melissa è chiamata anche Melitta, come l’asteroide che le è stato dedicato. Bella, Melissa, con quelle foglioline tenere simili a quelle dell’Ortica. Hanno lo stesso colore.

Inoltre, se non fosse per il suo tono smeraldino si potrebbe confondere con la Menta, sua parente. Scambiarla sarebbe un peccato, perchè non verrebbe utilizzata per i suoi giusti scopi, che sono tanti, un milione.

Avete un’ Herpex Simplex e/o anche la varicella? Melissa. Sul labbro ponete proprio le foglie, un po’ schiacciate, un po’ paciugate. E’ antivirale e antibatterica.

Avete una qualsiasi infiammazione? Soffrite di manifestazioni spastiche-ansiose che possono colpirvi lo stomaco o l’intestino? Avete voglia di rilassare quei muscoli e quegli organi contratti? O forse necessitate di un po’ di antiossidanti? Desiderate potervi distrarre ed evadere con la mente? Melissa, Melissa, Melissa!

Chiamata anche pianta limoncina, quest’erba aromatica assume in cucina una posizione di rilievo non solo nella preparazione di decotti e tisane. Con quel suo aroma fresco e un po’ agrumato, è ottima sia per la preparazione di piatti a base di pesce e frutti di mare che per mitigare l’aroma intenso, pungente e a volte sgradevole di agnello, pecora, capretto e cinghiale. Ha una punta di selvatico che noi usiamo chiamare bestin.

La Melissa, appartenente alla famiglia delle Labiateae e che nasce in Europa come in Asia, è utilizzata da migliaia di anni: era un fondamentale elemento delle cerimonie religiose e non, e, se trasformata in ottimo e delicato liquore, conquistava la gola e il palato di uomini e donne. Nella vecchia Turchia e dall’ormai famoso Plinio era usata come pianta medicinale su ferite e abrasioni. Mescolata ad altri intrugli, bruciava tantissimo a contatto della pelle, ma disinfettava come nient’altro. Ma non è finita qui: durante il Medio Evo, la Melissa venne molto utilizzata come erba officinale anche da streghe, stregoni e maghi e, inoltre, prese talmente piede da diventare tra le più famose “pozioni” salutari di tutto il Paese. Era la pianta che inebriava lasciandoti vigile, non ti tradiva. Tutti la volevano. Ci basti pensare che lo stesso Carlo Magno ne ordinò la coltivazione nel giardino di ogni monastero del regno. Non si poteva rimanere senza.

Melissa fa bene al corpo, ma anche alla psiche. L’alchimista Paracelso la definì “elisir di lunga vita” senza troppi preamboli. E gli arabi, così come tutti i popoli nordafricani, impararono a usarla addirittura contro la malinconia e la tristezza.

Melissa, oltre ad essere il nome di una pianta, è anche quello splendido di donna. Un nome che solo di recente ha conosciuto fama e bellezza per essere riscoperto dopo secoli di abbandono. Il nostro calendario festeggia raramente il 24 aprile una Santa Melissa, monaca greca, che avrebbe evangelizzato l’Inghilterra nel IV secolo. E’ anche il famoso nome che porta la protagonista dell’opera di Claude Debussy “Pellèas e Mèlisànde” così come la maga di Ludovico Ariosto, ma molteplici sono le opere letterarie che ne fanno uso. Chi porta questo nome possiede anche un fascino irresistibile per le sue innumerevoli doti e tra le più importanti troviamo curiosità, senso dell’umorismo, un cuore immenso, voglia di fare, di sapere, di avere tutto sotto controllo e poter correre ai ripari. Melissa è la ninfa che si tramutò in fonte e che per tutta la vita si mosse perpetua, colei che allevò Zeus in fasce, nascosto sul monte Ida dalla madre Rea, per sfuggire al padre Crono, il quale divorava tutti i suoi figli neonati per evitare di essere spodestato da uno di loro. Melissa tirò su colui che divenne il Dio di tutti gli Dei e, come si fa con l’Ape Regina, ella lo nutrì solo con il puro miele dei suoi fiori, mentre la capra Amaltea lo allattava. Melissa era amata da Apollo, Dio del Sole. Era colei che dà senza voler nulla in cambio. Accompagnata solitamente dal segno zodiacale del Capricorno, la Melissa ha come pietra vincente nella cura della cristalloterapia lo Smeraldo, verde come lei, che passa spesso inosservata. Guardatela, coglietela, usatela. Ve la regala la natura.

Un bacio.

M.

Upega – cugina di I° grado

I ricordi che ho sigillato qui, dietro la porta dell’albergo Edelweiss sono tantissimi.

La festa in maschera, il passaggio del motociclista, la fontana e il lavatoio, i colpi alla pentolaccia, i gerridi e i girini, i racconti dell’orrore. Provo a guardare attraverso la finestra come a ritrovarli palpabili, concreti.

Edelweiss – Stella Alpina. Stella raggomitolata nel suo caldo burberry dalle tinte chiare. Stella di Upega. Dove, in inverno, la neve permette a tutti di riposare trasformando il paesino in un presepe.

Io invece, vivevo questo paese in estate, con gli amici, la topo zia, il pallone e il gioco del nascondino.

Mica si può andare sempre nei soliti posti. Cambiamo un po’. Andiamo a Upega.

Non c’è nulla a Upega; come potete pensare che una bambina possa divertirsi a Upega? Oltre la Gola, dopo Viozene, par non esserci più niente. Solo gli speleologi si sono avventurati e hanno scoperto Upega. Non appare nemmeno sulle vecchie cartine.

Vedi Pigmy, quei monti, davanti a te… lì è passato nonno, a piedi sai? -.

E quella mano tremante disegnava l’immaginabile profilo stagliato nel cielo tra le aspre falesie. Lì era passato suo fratello. Un pò di storia, di sentimento e poi via, a giocare, a rincorrere i cavalli selvatici.

Una bambina deve divertirsi a Upega. Può farlo, perchè in fondo c’è tutto quello che serve a Upega.

Upega, 1.300 metri sul livello del mare.

Upega, U con due punti sulla u. Pegau – Posizionato in alto. Questo il significato del suo nome. Oppure – Opaco -, dove non ci picchia il sole, chi può dirlo. Sono significati così anichi.

Upega, in provincia di Cuneo. Upega, terra brigasca. Ecco perchè cugina prima. La terra dei Brigaschi dove, anche la mia Valle, la Valle Argentina risiede, in su, verso la Francia, verso il Piemonte. La terra dei Brigaschi, la terra dell’Occitano, del Nizzardo, del Ligure, del Piemontese, insieme, a formare un’insolita tribù.

Con le sue tradizioni, il suo folklore, la sua cultura. Quel dialetto intemelio, particolarissimo.

Upega, pays brigasque, da poco riconosciuto come tale e d’inverno isolato dal mondo, con il suo Bosco Nero di Larici e Abeti e la sua Gola delle Fascette a preannunciarlo.

Con la – Sorgente della Salute -, della lunga vita, che sfocia da un tronco d’albero, fredda come i tre metri di neve che vengono a nascondersi dietro questi monti e danno il nome alla piccola Chiesa.

Upega, il Santuario della Madonna della Neve e i pascoli in fiore. Upega raccontata dalla rivista Ní d’áigura (Il nido dell’aquila). Rivista brigasca.

Upega, appoggiata nell’Alta Val Tanaro, ai piedi del massiccio del Marguareis, con le sue orchidee selvatiche e il profumo di Raschera che esce dalle baite montane. E le mucche e le pecore erano un’attrazione per noi bambini. E si giocava a fare i pastori credendo che obbidivano proprio a noi. E si portavano al di fuori del Bosco delle Navette, incuranti dei pericoli, della distanza da casa, delle voci che chiamavano, dell’abbaiar dei cani.

Arroccato alle pendici della lunga cresta del Ferà, godendo di tutti i piaceri della montagna, questo paese, appartenente al Comune di Briga Alta, è a soli 20 km dal mare e la strada che dall’Aurelia ci porta a lui è spettacolare; verde e tortuosa, panoramica e stupefacente.

E l’incontro dei suoi tre torrenti: il Negrone, il Corvo e il Znìge, che con le loro felci e le loro ninfee sono un palcoscenico da fiaba.

Upega, con il suo forno comune, il suo mulino comune, la sua grande Chiesa, la Chiesa di Sant’Anna, che risale presumibilmente alla seconda metà del XVIII secolo. Tutta in pietra e con un piccolo piazzale davanti a sè, essa ha sostituito una più antica cappella, ubicata dietro l’edificio del forno e adibita un tempo a cimitero, in comune anch’esso. Questo prima che venisse distrutta alla fine dell’ Ottocento.

Upega, oggi meta turistica, passaggio nascosto di Alpini e Partigiani, dai balconi di legno e dalle case caratteristiche in pietra con fienili sovrastanti l’abitato.

Case con i tetti in ciappe e uniti tra loro in un lungo susseguirsi come in una processione a coprire 25 abitanti che, un tempo, erano più di 400.

E oggi vi ho fatto conoscere Upega topi, nostra parente, parente stretta. Paesaggio tipico di un’antica terra. E, nella speranza di avervi reso la lettura interessante, vi aspetto per la prossima passeggiata.

Ora mi rilasso, chiudo gli occhi e immagino, ricordo, la vita all’interno dell’albergo Edelweiss. Del suo simpatico proprietario con le sopracciglia un po’ all’insù e sua moglie, ben pasciuta, che cucinava divinamente.

Un albergo avvolto dal verde ora. Un albergo che oggi, non esiste più.

M.

Ninne Nanne tra una guerra e l’altra

Cari topi, avete mai potuto fare una differenza tra Ninne Nanne? Io ho potuto farla tra la ninna nanna che cantavano a me, e vi parlo della fine degli anni ’70, inizio anni ’80, e quella dei miei nonni ossia degli anni 1919-1920.

A parte il fatto che, con me spesso mamma, nonne e zie, le filastrocche della “buonanotte” se le inventavano, una o due erano però sicuramente le più gettonate. La ninna nanna di Brhams, ad esempio, chi non la conosce?

Ninna nanna mio bel, riposa sereno

dormi dormi così, fino al sorger del dì.

Quando l’alba verrà sorgerai dal lettin

se il Signor lo vorrà sorgerai o bambin.

Ninna nanna mio bel, riposa sereno

un angiol del ciel ti vegli fedel.

Una santa vision faccia il sole irradiar

Una dolce canzon possa i sogni cullar.

Buona notte piccin riposa carino

Riposa tranquil bambino gentil.

Quando l’alba verrà sorgerai dal lettin

se il Signor lo vorrà sorgerai o bambin“.

E poi la classica – Stella Stellina – che, ancora oggi, tutti ricordiamo e canticchiamo:

Stella stellina
la notte s’avvicina
la fiamma traballa
la mucca è nella stalla
la mucca e il vitello
la pecora e l’agnello
la chioccia coi pulcini
la gatta coi gattini
la capra ha il suo capretto
la mamma ha il suo bimbetto.
Ognuno ha la sua mamma
e tutti fan la nanna“.

Ninna Nanna, Ninna oh, questa bimba a chi la dò…” invece, non me la cantavano perchè quando arrivava il pezzo del “l’uomo nero che mi teneva un mese intero” iniziavo a piangere.

Da come potete vedere però, queste nenie sono comunque molto dolci, con belle parole, che portano al sorriso e fanno pensare al lieto evento del riposo. Un dolce dormir tra le braccia più avvolgenti che ci siano. La voce era lieve e il tono cordiale, gli occhi socchiusi e sorridenti.

Ma le ninne nanne del dopo guerra, e sto parlando della Prima Guerra Mondiale, erano forse diverse? Poteva forse la guerra essere uno spettacolo così forte da combinare anche parole che una mamma, in intimità, poteva dire a suo figlio prima del riposo? Sembra assurdo. Sembra un momento inviolabile quello. Eppure sì. La guerra è riuscita a penetrare ovunque, anche lì. E allora topi, oggi vorrei farvi leggere quello che la mia bisnonna cantava ai suoi sette figli (topo nonno compreso) per farli addormentare. Ovviamente la traduzione è quella che è. Non aspettatevi in italiano un piacevole scorrere delle parole come in dialetto ma ho cercato di fare del mio meglio per farvela leggere in modo lineare. E potete crederci se vi dico che viene ancora ricordata a memoria. Incredibile. Che impressione. E che ascoltarla, nel silenzio, da una voce quasi affaticata ma che non stenta a ricordar le strofe è davvero emozionante.

Quella nenia è ancora nel suo cuore come se fossero passati solo pochi giorni. E’ ancora nella sua testa, nella sua memoria e anche nel suo sguardo. Sempre, mentre la recita. Sono passati più di novant’anni.

Questa ninna nanna s’intitola “Piccenin” e nonno inizia così:

Piccenin gh’è morta a mama, nu g’à ciu de che campà

reista sulu cu ina fiamma, d’in desertu foculà

mette u so ciu belu vestiu e p’andasene in sità.

Se presenta ad in furnà:-Bon furnà in tu vostru furnu, e piaime ascì garzun-

 ma u furnà cun so mujè rije e rije trasugnà

-Piccenin ti voi impastà? Piccinin in verità a te serve ina balia ti nu sei chelu cu ghe và!-.

E caminna tutu u giurnu, và da u Re in tu so palassu

se presenta ardiu e fe -Mi a sun piccenin e randaggiu Sire, feime guerrieru!-.

Ma u Re rie e ancua rie

-Umin! Ti voi avè a lansa e a maja? In guerrieru in verità? A te serve ina balia ti nu sei chelu cu ghe và!-.

Ariva a guerra e dopu in pocu, tuti i campi insaguinai

piccenin coerre au foegu tra e file di surdai

e e bale i u survolan, par che velle e n’an pietà

sulu ina, ina de velle au ciapa in mezu au visu

sciorte l’anima da u foru, vola vola in paadisu.

E San Pè alantù ghe dije:- Cu ti fai chi piccenin? Ti nu sei angelu, mancu santu, ti sei ancua piccenin, ti nu sei chelu cu ghe và!-.

Ma da u tronu Gesù Cristu ca u sente u cara intantu

e sensa proferì parola u su pia suttu au mantu

-Piccenin elu è mendiigu

sensa teitu e sensa amigu

elu u l’è chelu cu me và-.

Traduzione:

 PICCOLINO

Piccolino gli è morta la mamma, non ha più di che campare

resta solo con la fiamma, di un deserto focolare

mette l’abito più bello per andarsene in città.

Si presenta ad un fornaio: -Buon fornaio nel vostro forno accoglietemi garzone-.

Ma il fornaio con la moglie, ride, ride trasognato

-Piccolino vuoi impastare? Piccolino in verità, tu hai bisogno di una balia, non sei quello che ci và!-.

E cammina tutto il giorno, và dal Re nel suo palazzo

si presenta ardito e fiero: -Sono un piccolo randagio Sire, fatemi guerriero!-.

Ma il Re sorride e ancor sorride

-Omino! Vuoi portare lancia e maglia? Un guerriero in verità? Tu hai bisogno della balia, non sei quello che ci và!-.

Vien la guerra dopo un poco, tutti i campi insanguinati

piccolino corre al fuoco, tra le schiere dei soldati

e le palle lo sorvolan, par che n’abbiano pietà

solo una, una di loro, lo trafora in mezzo al viso

esce l’anima dal foro, vola, vola in paradiso.

E San Pietro allor gli disse: -Cosa fai qui piccolino? Non sei angelo nè arcangelo tu sei ancora piccolino, non sei quello che ci và-.

Ma dal trono Gesù Cristo che lo sente scende intanto

senza dire una parola lui lo accoglie sotto il manto

-Piccolino egli è mendicante,

senza tetto e senza amico

egli è quello che mi và-.

Avete letto?

Un bacio topi, alla prossima!

M.

 

Un’altra nascita nella mia Valle!

Benvenuta al mondo Capretta! Eh sì topi, io e Niky in questi giorni siamo in vena di regalarvi scoop mozzafiato. Sì, sì, potete farci tutti i complimenti che volete… siamo qui apposta!

Ma no! I complimenti dovete farli a mamma Capra e alla splendida creatura che ha messo al mondo e che, in prima visione, potete veder spuntare a conoscere quella che sarà la sua nuova vita. Uno spettacolare momento.

Queste foto, per me, hanno un grande valore. Non sappiamo ancora il nome del batuffolo (la mia socia deve ancora decidere) ma per notare che è meravigliosa non ci vuole molto. Eccola poi con la sua mamma Nuvola che, da subito, si è presa cura di lei pulendola e annusandola. Una mamma fenomenale e bellissima. Alta, grande, tutta bianca e con due corna affusolate sulla testa.

E la nascita di una Capra cari topi è importante! E sì. Nella simbologia degli animali, ad esempio, la Capra è proprio il simbolo per eccellenza della prolificità e della potenza della stirpe. Non solo, ma viste le sue doti da arrampicatrice quale è, rappresenta anche facilmente la sicurezza in generale. Il potersi fidare di un qualcosa. In Oriente addirittura significa estetica, eleganza, bellezza.

Animo riservato, dignitoso e nobile, proprio come Nuvola che ha regalato amore alla sua creatura senza scomporsi. E la Capra si sa, può essere fedele proprio come il migliore amico dell’uomo! Insomma, mi sembra che la campagna della mia amica, in questo periodo, sia davvero ricca di belle sorprese ma anche di tanti significati. Ma puntiamo ancora i riflettori sul cucciolo.

Un cucciolo tutto luccicante avvolto in un liquido amniotico che brilla sotto il sole.

Potete crederci che dopo nemmeno un secondo già stava in piedi da solo? Quant’è incredibile la natura! E se vi dico che mentre barcollava e tentennava, seguito dalla mamma, il suo naso già sfiorava il terreno come a voler mettere alla prova il suo olfatto? Quelle zampette ancora così tenere riuscivano a reggere tutto il suo esile corpo. Così minuto da far sembrare il suo pelo molto più lungo di quello che in realtà è. Piccola, tenera e senza cornini. Bianca e nera e già tremendamente affettuosa! Ha capito subito come si fa per prendersi le coccole.

E quanti sorrisi da parte di Niky, mentre l’esserino cadeva per terra con un leggero tonfo. Con quelle sue unghiette perfettamente pulite che ancora devono formarsi del tutto e quel codino striminzito che sembra pesare una tonnellata. E quel muso. Quel muso ancora quadrato, ancora poco lungo, reso dolce da occhioni che sembrano enormi e scuri, profondi; sanno ancora più di buono.

Benvenuta al mondo Capretta! Benvenuta tra di noi. Che momento gioioso vederti spuntare e poi, a novembre, chi l’avrebbe mai detto?

E ora, che son passate solo poche ore, sembri già autonoma e indifferente anche se ti piace saltellare vicino a tua madre. E’ come se sapessi di essere bella e la più piccola della casa. E già ti nascondi. Ti avvicini solo se ti viene promessa una carezza. Che buffa sei!

Benvenuta al mondo Capretta.

Avete visto che bell’articolo questa sera topi? Spero tanto sia piaciuto anche a voi questo reportage. Io ora vi saluto e vi do appuntamento a domani e… ricordate, le nascite, non è detto che siano finite! Baci.

M.

Cosa sarà?

E per la categoria “Caro Squit” eccovi oggi, nuovamente, un indovinello facile ma molto carino e una filastrocca che tutti gli anni Topo Nonno racconta a noi familiari. Sono ovviamente parole dette in dialetto, una lingua che permette altre rime e suoni rispetto all’italiano. Io ve le tradurrò e vi regalerò un po’ di quel parlato che adoro.

INDOVINELLO N°1

Becca ribecca a nu beve cafè

porta corona e regina a nu a l’è

a gà tanti fioei e mariu nu n’à

chi ghe induvina meigu serà

 

TRADUZIONE:

Becca ribecca non beve caffè,

porta corona e regina non è,

ha tanti figli e marito non ha,

chi ci indovina dottore sarà.

Chi è? Bene, vi lascio pensare.

E poi una filastrocca.

FILASTROCCA

Sette cun sette

catorze cun disette

carantacattru e unze

i fan centu lire riunde.

TRADUZIONE:

7 con 7,

14 con 17,

44 e 11,

fanno 100 lire rotonde.

Cosine semplici ma piacevoli. Ebbene volete sapere chi è la protagonista dell’indovinello? E’ la GALLINA, però voi dovete far finta di non esserci arrivati, altrimenti, Topo Nonno non ci trova più gusto.

Un bacione.

M.