Un Uomo/Albero in Valle Argentina

C’è un uomo in Valle Argentina davvero particolare… forse sta scappando o forse è timido. Oppure stanco e rincasa. Sì, è un uomo che sta per entrare nella sua dimora, suggestiva quanto lui. La sua casa è un albero e… anche lui è un albero.

Come un gigante buono e nudo, lo si vede accucciato a terra nell’intento di nascondersi.

Oppure ancora… che stia cercando qualcosa?

Cari Topi, anche oggi riesco a farvi vedere qualcosa di meraviglioso grazie alle foto dell’amico Renato.

Un regalo della mia bella Valle. Un regalo che potete vedere anche voi, a Passo Teglia, per la strada che da Drego (sopra a Andagna) va verso Rezzo.

Guardate questo tronco storto e ricurvo. Grosso, liscio. Ha proprio sembianze umane.

Un apparato radicale come se ne vedono davvero pochi.

E i boschi della mia Valle, fatati sicuramente, prendono ancora più vita davanti ai miei occhi.

Sono molte le forme strane e arcane che si notano nella Valle Argentina.

Ve lo avevo già mostrato attraverso Castagni e Faggi secolari. Attraverso i tronchi spezzati dei Larici antichi ma, ogni volta, queste bizzarre opere naturali, lasciano a bocca aperta.

Figure che la natura ha dipinto o ne ha preso le sembianze.

Ve le avevo mostrate anche attraverso le rocce e nelle luci del cielo… ma guardate qui… non è incredibile quest’albero? Non vi sentite immediatamente trasportati in un nuovo racconto di Tolkien, dove Druidi e alberi parlanti vivono in perfetta armonia?

Potrà salvarmi questo gigante di legno dall’attacco di Elfi bricconi o Trolls poco simpatici?

Un gigante nel quale scorre magica linfa. E, assieme a lei, scorre la mia fantasia. Dove il vero protagonista è lo stupore, il quale resta negli occhi a lungo.

Il bosco è vivo e non solo biochimicamente. Il bosco è vivo dentro a ogni corpo. In vibrazioni ancestrali.

Sono un animale, un piccolo roditore, viaggio in altre dimensioni, ma in queste dimensioni voglio portare anche voi.

Osservando certe bellezze si uniscono altri sensi a quelli fisiologici, verso i quali abbiamo fatto l’abitudine.

Si sviluppano nuove percezioni e si affinano ulteriori virtù.

Quanto è affascinante questa figura che mi accompagna. Antica e bellissima. Straordinaria e da rispettare.

Sappiamo tutti che un albero dona ossigeno, ombra, nutrimento, calore, riparo… è un meraviglioso essere vivente, ma quando regala anche la possibilità di dare vita ai nostri pensieri, trasformandoli in fantastici, beh… direi che davvero non possiamo chiedere di più.

Che altro dire Topi? Siete rimasti di stucco vero?

Vi vedo con i baffi a penzoloni. La Valle Argentina continua a stupire e non ha ancora finito, perciò seguitemi anche nella prossima avventura. Vi aspetto.

Vi mando un bacio dalle forme inusuali e ringrazio ancora una volta Topo Renato.

A presto!

I talenti sconosciuti del glorioso Scarabeo Stercorario

Eh. I talenti sconosciuti, e affascinanti aggiungerei, dello Scarabeo Stercorario non sono certo rivolti solo a quello al quale tutti state pensando. Chi conosce questo simpatico insetto ha già capito che sto parlando di uno Scarabeo che ha l’abitudine di creare palline di… cacca… con la quale si costruisce la tana.

Va in giro, in lungo e in largo per tutta la Valle, facendo rotolare questi escrementi tondi al fine di assicurarsi cibo e proteggere le proprie uova. Non per niente, da noi, viene chiamato Rebattabuse cioè rotola cacche.

Ma, come vi dicevo, non è di questa sua bizzarra abitudine che intendo parlare.

Andiamo con ordine, una cosa per volta. Innanzi tutto dobbiamo sapere che, il suo vero nome è Jacopus Sampietrus che sa un po’ di paradiso. In realtà con il paradiso c’entra poco ma ha a che fare con il cielo sicuramente.

Ebbene sì amici Topi, infatti, dovete sapere che questo simpatico e tondo animaletto, nero dai riflessi blu, si orienta attraverso la luce della Via Lattea per tornare alla sua tana. Ci pensate? E’ la nostra galassia! E’ così fissato e concentrato a seguire questa direzione che se per caso si trova un ostacolo davanti cerca qualsiasi sistema per scavalcarlo senza dover cambiare strada.

Tutto questo, e molto di più, ve lo avevo già spiegato qui https://latopinadellavalleargentina.wordpress.com/2018/08/27/la-via-lattea-nella-valle-argentina/ quando vi feci conoscere uno dei miei migliori amici del bosco. Il mio caro e pessimista Metuccu [diminutivo di Metuccuecuje (Mitoccoleballe) nel senso figurativo del “speriamo vada tutto bene”] visto il suo essere molto disfattista.

Di Scarabei come lui la Valle Argentina ne è piena, vivono ovunque sulle mie montagne, ma Metuccu è sicuramente quello al quale voglio più bene. E poi è simpaticissimo! E’ anche un po’ orbo, ma solo lui perché i suoi simili ci vedono benissimo, e spesso confonde tutto quello che vede di rotondo per una pallottola di escrementi come gli succede con le castagne!

Sembra un esserino qualunque ma invece vanta un noto significato simbolico fin dal suo passato più remoto. Già in antichità, infatti, lo Scarabeo Stercorario era conosciuto come protettore dal male ed emblema della luce divina nonché portatore di denaro, oro. Un oro che brilla come il sole.

Senza tener conto dello Scarabeo sacer, anche lui Stercorario, venerato persino da tutto il popolo egizio.

Il nostro Rebattabuse sembra una piccola creatura innocua e quasi insignificante, invece dovete sapere che quando ci si mette sfodera un carattere e una personalità invidiabili e gloriosi.

Esopo racconta una leggenda che vede come protagonista un’Aquila, Regina degli animali, e uno Stercorario. Ebbene, in questa leggenda, lo Scarabeo prega l’Aquila di non uccidere una Lepre ma il rapace, senza neanche ascoltarlo, cattura e divora il povero animale. Per vendetta, lo Scarabeo, sale sul nido dell’Aquila e le rompe sei uova. A quel punto, il grosso uccello disperato, vola piangendo da Zeus con le ultime due uova che le erano rimaste intatte e chiede al Dio di proteggerle. Ma lo Stercorario, senza farsi intimidire nemmeno dal Capo dell’Olimpo, scagliò negli occhi di Zeus una grossa palla di sterco che accecò momentaneamente il Sovrano degli Dei. Quest’ultimo, colto di sorpresa, aprì le mani per pulirsi e fece cadere le due uova dell’Aquila che si frantumarono in mille pezzi. Sentendosi in parte responsabile, il Dio provò qualsiasi strategia per creare di nuovo la pace tra l’insetto e l’uccello ma, non riuscendoci, dovette per forza trovare una nuova soluzione e cioè quella di far deporre le uova all’Aquila in un periodo dell’anno in cui di Scarabei, in giro, non ce ne sono.

Avete capito Topi che tipetto? Non si lascia certo mettere i piedi in testa.

E’ piccolo, non supera i 25 mm ma è un genitore adorabile.

Sotto terra, papà Scarabeo costruisce un tunnel che può essere lungo anche mezzo metro dal quale mamma Scarabeo fa partire diverse ramificazioni, di venti centimetri circa, che ultimano tutte in camere aperte totalmente dentro agli escrementi. In questo modo, al dischiudersi delle uova, i figli avranno cibo a sufficienza per nutrirsi e saranno protetti da tutto.

Dovranno stare lì dentro per parecchio tempo perché, un Rebattabuse, prima di uscire sulla superficie terrestre impiega ben due anni per formarsi del tutto ed essere pronto alla nuova avventura chiamata “vita”.

Non è scaltro, non ha il senso della risoluzione del problema e pare essere anche poco intelligente (secondo la scienza) ma la sua natura resta un mistero affascinante per qualsiasi studioso.

Cosa ne dite Topi? Vi piace ora che lo avete conosciuto meglio? E non è tutto! Ho da dire ancora molte cose su di lui ma lo farò in altri post, ogni volta che vi presenterò Metuccu.

Per il momento quindi vi saluto e vi lascio qui a fare amicizia con lui.

Un bacio galattico e glorioso a voi!

Il torrone viaggiatore e l’arte della lentezza

Ma che ve lo dico a fare, topi? Le feste si avvicinano e in tana è tutto un affaccendarsi e uno spandersi di dolci profumi tipici di questo periodo dell’anno. E allora m’è venuto in mente che non vi ho mai parlato di un torrone molto speciale, dalla storia particolare.

Pare, infatti, che la ricetta sia originaria di Agaggio, ma che il “magico” e “segreto” procedimento per realizzarlo fosse in mano a una signora che vendeva questo dolce tipico della Valle fino a Badalucco. Tuttavia, visto che la frutta secca costava assai cara e, di conseguenza, anche il torrone aveva prezzi elevati per i poveri topi che un tempo abitavano in Valle Argentina, alla fine le donne dei paesi si ingegnarono e presero a fare in autonomia questo antico torrone, la cui ricetta è giunta nelle zampe della vostra adorata topina (chi altri, sennò?) e, guardate un po’… siccome non ho nessuna intenzione di vedermi recapitare dalla Befana un vagone di nero carbone (perché poi lo so che mugugnate se non v’accontento, e i mugugni li sente pure lei dall’alto della sua scopa volante), ho deciso di condividerla con voi.

Sono o non sono una brava topina? Bene, e allora cominciamo!

Il torrone in questione si produce oggi con noci e mandorle, che lasciano al piatto il tipico sapore dolce-amaro. Bisognerebbe prepararlo in una casseruola di terracotta, poiché questo contenitore trattiene meglio il calore degli ingredienti, permettendo poi di stenderli meglio tra i due strati di ostia, che bisogna procurarsi preventivamente.

Si prende allora un bel tagliere di legno e si cosparge con una spolverata di fecola di patate o di mais, sulla quale andrà adagiato il primo strato di ostia, cosicché non si attacchi alla superficie sottostante.

La frutta secca va sgusciata, pulita e tritata grossolanamente, poi la si mette da parte. Si prediligono le noci, ma nessuna vieta di sostituirle con le nocciole, insieme alle mandorle.

Questo è il momento anche di preparare le bucce dei mandarini (non trattati) che danno un tocco in più al torrone, dandogli un gusto d’agrumi tipicamente invernale e festivo. Le bucce vanno private della parte bianca, chiamata albedo, e si grattugia finemente.

A questo punto, nella casseruola bisognerà far andare il miele, portandolo a ebollizione, dopo di che si abbasserà la fiamma e lo si lascerà cuocere per 30-40 minuti, a seconda della densità del miele scelto, controllandolo spesso. Trascorso un po’ di tempo, bisogna procurarsi un piccolo recipiente d’acqua fredda e lasciarvi cadere una goccia di miele caldo: questa operazione andrà ripetuta con frequenza, fino a quando la goccia di miele non si rapprenderà all’istante all’interno dell’acqua fredda. Il procedimento che vi ho descritto, infatti, ci indica il momento giusto in cui il miele sarà pronto ad accogliere la frutta secca, che andrà amalgamata al composto.

Trascorso il tempo di cottura, si aggiungono le bucce di mandarino tritate e si mescola bene con un cucchiaio di legno, poi si stende tutto sulla sfoglia d’ostia il più velocemente possibile, altrimenti il miele e la frutta secca non aderiranno alla superficie dell’ostia e ne rimarranno slegati. Lo strato di miele e noci deve essere alto circa mezzo centimetro, e deve essere ben livellato, poi vi si pone sopra immediatamente l’altra sfoglia di ostia.

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E qui viene il bello, topi! No, perché io vi vedo, sapete? Sarete già lì con l’acquolina in bocca che rischierà di finire dritta dritta tra gli ingredienti del vostro capolavoro… ma non sarà ancora tempo di gustarlo, nossignori! Che tortura alle papille gustative, che supplizio! Bisognerà mettere un peso sopra il torrone e attendere finché il dolce non sarà completamente freddo, prima di rimuoverlo. Andrà fatto raffreddare per ben otto ore (sempre che resistiate al profumino che a quel punto avrà invaso tutta la vostra tana e, magari, anche quella dei vicini), poi potrà essere tagliato e gustato.

Negli anni in cui ogni cosa è sempre più veloce e si ricerca la soluzione più pratica per non rinunciare ai dolci delle feste, io sono qui a proporvi una ricetta antica e che di antico ha anche i tempi lenti di preparazione, oltre che i sapori. Perché le tradizioni sono belle da tener vive, buone da condividere e perfette da tramandare.

torrone

Ringrazio di cuore Gianna per questa ricetta, insegnatale da suo papà, e a voi auguro delle feste all’insegna della dolcezza.

A presto!

Il Corvo Imperiale – sentinella intelligente

Un giorno mi trovavo in zone impervie della Valle Argentina. Passeggiavo quasi in mezzo alla nebbia che di tanto in tanto lasciava spazio a un sole tiepido che carezzava col suol calore il mio pelo. Me ne stavo lì a rimirare lo spettacolo di Madre Natura quando all’improvviso vidi un gran numero di Corvi Imperiali attraversare il cielo sopra la mia testa.

Di Corvi ne ho visti, nella mia vita di topina, ma così tanti e tutti assieme, per giunta, era una gran novità! Assieme a loro c’erano persino diversi Gracchi Alpini!

Mentre quei corvi gracchiavano dall’alto, io producevo una raffica di clic con la mia macchina fotografica per immortalare il momento imperdibile, quando da lontano mi giunse una voce a me conosciuta: «Plotoneeee aaaaalt!»

Odoben Malcisento urlava come un ossesso, il suo ululato riecheggiava da un monte all’altro e io attesi che il suo muso comparisse da dietro la collina sulla quale ero appostata, poi lo salutai: «Odoben! Odoben!» lo chiamai, sbracciandomi.

«Maiben? Maiben, dici?! Con tutto il fracasso che stanno facendo, non resterà manco un camoscio da mettere sotto i denti!» mi rispose irritato, fraintendendo le mie parole (“maiben” dalle mie parti ha un significato simile a “che bellezza”, “quanto bene!”).

«Ma no! Stavo solo chiamando il suo nome, Odoben. Ha visto quanti?»

Avvicinatosi a me, aveva finalmente compreso di aver udito male, ma non si scompose a chiedere scusa: Odoben è un generale, e come tale esige sempre rispetto. Non tardò a ricordarmelo: «Dimentichiamo sempre le buone maniere, vedo!» mi redarguì con sguardo tagliente.

Mi tirai una zampata in fronte, urlando: «Mi perdoni, Generale!».

«Così va meglio» disse, poi si rivolse al branco di giovani lupi suoi sottoposti: «Che fate lì con la lingua penzolante? Non siete mica dei cani! Voglio fierezza nel portamento, razza di smidollati! E non statevene lì a bocca asciutta, andate a cercare quei cornuti scala-rocce, non vorrete mica tornare alla tana coi crampi allo stomaco, dico bene? Non perdete tempo! Serrate i ranghi! Tornate vittoriosi, altrimenti ve la vedrete col vostro Generale!» ringhiò.

«Signorsìssignore!» risposero in coro, e si apprestarono a eseguire gli ordini mentre Odoben intonava: «Un-due! Un-due! Un-due!».

Quando i giovani lupi scomparvero alla vista, si rivolse infine a me: «Che hai da guardare, ricotta munita d’orecchie?»

Soffocai una risata per il suo artistico appellativo e dissi: «Mi chiedevo… Generale Malcisento… mi chiedevo se potesse darmi qualche notizia sul Corvo Imperiale, lei che sa tutto degli animali del cielo e della terra che popolano queste zone, signore.»

«Sul Corvo Imperiale? Ah, quello è proprio un gran vecchio volpone! Non s’è mai visto animale più furbo di lui… a parte il lupo, beninteso!»

«Ah, davvero?» dissi per spronarlo a proseguire nel suo racconto.

«Puoi esserne certa, mezza cartuccia vestita da topo! Se il lupo è uno stratega, il corvo è un grandissimo osservatore e studioso… e la sua intelligenza, unita allo studio meticoloso di quello che lo circonda, lo rende un anticipatore delle mosse del nemico, ma non solo! A volte sembra che conosca il futuro, talmente bravo è diventato a studiare la realtà.»

«Generale, vuole dirmi che sa prevedere anche le vostre mosse?»

L’anziano lupo sogghignò: «Ah, quel vecchio furbacchione… sa tutto, vede tutto! Manco fosse il demonio fatto uccello! Tante volte dall’alto del suo volo vede una carcassa… l’animale può essere morto per un incidente, per vecchiaia o per altri motivi, ma quando il corvo lo trova, viene a cercare noi lupi. Qualche volta, se non trova noi, si rivolge alle volpi… e coi suoi forti richiami ci attira fino al luogo in cui giace inerme il corpo dell’animale. Allora il corvo attende.»

Il Generale fece una pausa a effetto: gli piaceva raccontare storie come quella e saggiare l’attenzione dei suoi ascoltatori, e io l’accontentai: «Cosa attende, Generale?»

«Attende che noi lupi diamo inizio alle danze, sventrando la bestiola, cosicché anche lui possa cenare attingendo alle parti molli e nutrienti dell’animale… ma lascia fare il lavoro sporco a noi, mica scemo!»

«E voi glielo lasciate fare? Gli lasciate mangiare quella carcassa?»

«Certo che sì, razza di stracchino coi baffi! E’ la legge del bosco, ci si aiuta a vicenda! Il corvo fa un favore a noi, e noi lo ricambiamo.»

«Davvero interessante, Generale Odoben Malcisento, molto interessante!»

«Ma non ti ho ancora detto tutto. Tutti credono che il corvo sia in grado di emettere solo suoni striduli e gracchianti… in verità qualcuno nel bosco dice di averlo sentito cantare con voce melodiosa. Pare lo faccia solo quando sa di non essere osservato.»

«Veramente? Chi è stato a raccontarglielo?»

«Quel ficcanaso, beccolungo e trapana-timpani del picchio, chi altri, sennò? Ma sai, non penso abbia detto una bugia: in fondo il corvo è in grado di imitare il canto e i richiami di molti uccelli, spesso impara anche parole del linguaggio umano. Lo fa per allontanare e ingannare possibili rivali, oppure per attirarli in una trappola e affrontarli impreparati. Astuto, lui!»

«Generale Odoben, lei è sempre una garanzia!»

«Arriva la fanteria?!»

«No! Ho detto lei-è-sempre-una-garanzia!»

«Ah! Potrei stare qui a raccontarti del corvo all’infinito! Per la sua intelligenza e il saper anticipare gli eventi, viene considerato un profeta con dono della preveggenza. E’ stato grazie all’osservazione del volo dei corvi che gli umani hanno scelto i luoghi in cui far sorgere antiche città, tale era l’importanza di questo uccello. E’ da sempre considerato un messaggero del cielo, il che nel mondo umano è sempre stato interpretato come tramite tra il divino e il terreno. Che dire, poi, delle sue piume nere? Paiono uscite dall’oscurità più cupa della notte, dall’assenza di luce, ma in verità non è un animale così oscuro come sembra. Ho sentito molti cacciatori chiamarlo “uccellaccio del malaugurio” per il fatto che si nutra di carcasse… ma in fondo, dico io, quale animale non si nutre di morte? Lo facciamo tutti, dico bene?»

Trovai quella riflessione assai profonda e non riuscii a proferire parola per qualche interminabile secondo. Non potevo che dare ragione a Odoben.

«E’ un ciclo, sorcina. Un ciclo infinito, dove il confine tra la vita e il suo opposto è assai labile. Qualcuno muore per consentire ad altri la vita, e quella stessa vita verrà restituita a qualcun altro a tempo debito. Non c’è nessun malaugurio in tutto questo, ma solo pura, semplice sopravvivenza.»

«Ha ragione, Generale Odoben. Ha ragione» conclusi.

Restammo ancora lì a guardare insieme lo spettacolo di Corvi Imperiali che volteggiavano sulle nostre teste, mente Odoben riposava le zampe stanche e io scattavo foto a più non posso.

E ora vi saluto, topi miei. Vado a scrivere un altro, gracchiante articolo per voi!

 

 

Quelle fessure chiamate “caruggi”

In Liguria, e quindi anche nella mia splendida Valle, le piccole vie che attraversano i borghi vengono chiamate “caruggi”. C’è anche chi li chiama “carrugi” o “carruggi” ma il significato è lo stesso.

Si tratta di stradine strette, a volte anguste, a volte splendide, dove i raggi del sole spesso faticano ad entrare e la gente, che vive in queste vie, è il cuore pulsante del borgo antico.

La parte più vecchia del paese. Quella costruita astutamente, come il guscio di una chiocciola, intorno a un dedalo di strade buie e socchiuse in modo che il nemico invasore potesse perdersi e rendersi così più vulnerabile.

La maggior parte di questi caruggi, che appaiono proprio come piccole fessure, sono dotati di contrafforti, strutture in grado di reggere e unire le abitazioni tra loro e attutire i vari spostamenti sismici di quegli edifici costruiti in altezza per rendere il borgo ancora più a chiuso come uno scudo umbone rovesciato.

Da alcuni di questi elementi architettonici veniva buttato olio bollente su chi si permetteva di invadere il paese. I caruggi infatti, sono pieni di nascondigli sia in basso che in alto e, ancora oggi, in alcuni di loro, si possono trovare gradini che scendono chissà dove o nicchie utili agli appostamenti.

Alcune di queste stradine hanno un aspetto tondo e dolce. Si passa sotto le case attraverso volte a semicerchio e le loro curve donano sinuosità. Possono mostrare il vermiglio arcaico dei mattoni pieni o pietre levigate che rendono il tutto più aggraziato.

Altre invece appaiono come affilate e taglienti, squadrate, e disegnano verso il cielo figure che sembrano geometriche.

Alcune sono davvero buie e molto fresche. L’umidità le rende come se fossero celle frigorifere all’aperto e non è difficile vedere del muschio nascere al suolo.

Altre ancora, un poco più aperte e magari più lunghe, sono solitamente addobbate con cura da chi le vive; i nomi dei caruggi vengono scritti in modo particolare, su lastre d’ardesia o dipinti di cerchi di legno.

Molti fiori abbelliscono le case, i numeri civici sono disegnati sul muro o su piastrelle decorate, e anche i panni stesi, appesi come un tempo, tra una finestra e l’altra in condivisione, donano un tocco di folklore e di colore.

Certi vicoletti sono così particolari che incantano. Statue, quadri, mosaici e roba appesa li rendono veri angoli artistici.

A proposito di ardesia, essa è sicuramente l’elemento più presente in questa ragnatela di viuzze. Naturale e resistente. Con essa si costruivano scale, portali, androni, lapidi, lastre e persino le tegole dei tetti delle case, chiamate “ciappe”, assolutamente tipiche nei miei luoghi.

La pavimentazione può variare. Ha solitamente righe a lisca di pesce intagliate nel cemento per poter frenare l’acqua e permettere di non scivolare a persone, carretti e animali come gli asini. Dovete sapere che alcuni caruggi sono molto in discesa e, se visti all’incontrario, molto in salita. Se si pensa ai nostri vecchi, che passavano di qui con pesi enormi sulla schiena, pare impossibile davvero immaginarli inerpicarsi per queste vie.

Venivano però usati anche i piccoli ciottoli di fiume e i sampietrini, mattoncini quadrati dalle sfumature rosse-violacee con i quali si potevano anche realizzare linee tonde che davano un senso di bellezza alla strada.

Il suolo doveva comunque essere ben praticabile dai carri, unici mezzi di trasporto assieme agli animali che potevano passare per questi vicoli e si pensa addirittura che, proprio la parola caruggio, derivi da “carro”.

C’è però chi afferma siano stati i Saraceni, i grandi nemici antichi dei Liguri, a dare questo nome nella loro lingua.

La parola “kharuj” significherebbe “di fronte al mare” o “sul mare” e potrebbe avere a che fare con la mia splendida regione.

Molti turisti amano passare sotto a questi portici e percorrere queste vie perché hanno davvero un fascino incredibile. Sono estremamente attraenti e raccontano di storia e passato.

Ancora oggi qualche vecchina resta per ore affacciata ad una finestra osservando la vita che passa o donando briciole ai piccioni che regnano indisturbati tra queste case. In realtà si vedono quasi ovunque dissuasori messi apposta per questi volatili ma hanno ben poco successo.

Le sigle di un tempo, scolpite nel marmo o incise nel ferro, e diverse Madonnine non mancano mai ma è facile vedere anche parecchie fontane per queste vie.

Ovviamente tutte una diversa dall’altra. Ognuna mostra il gusto di chi le ha realizzate.

Spero che questo articolo all’interno dei cuori dei paesi della Valle Argentina vi sia piaciuto, io vi lascio un bacio storico e vado a prepararvi un nuovo post.

Squit!

Un Natale incantato a Villa Boselli

Cari topi, topine, ratti e castagnole di tutta la Valle… io sono davvero fiera e molto contenta di far parte di una comunità così affiatata e volenterosa come quella che sto per descrivervi in questo mio nuovo articolo.

Magari non tutti lo sapranno (io, però, mi auguro di sì!), ma nei giorni scorsi si è svolto un evento davvero meraviglioso ad Arma, un evento di cui voglio proprio parlarvi perché è degno di nota e sta entrando ufficialmente a far parte delle nostre tradizioni.

Sto parlando di “Natale a Villa Boselli”, un’occasione d’oro tra le più grandi e belle della Valle Argentina, non esagero.

Dico che sta entrando a far parte delle manifestazioni caratteristiche di questo nostro bel territorio perché proprio quest’anno è giunto alla sua sesta edizione e, se è riuscito a tagliare questo bel traguardo, è grazie alle mamme e ai papà che hanno ideato tutto questo ormai sei anni fa.

Noi liguri siamo diventati famosi altrove perché siamo bravi a mugugnare. E mugugniamo che in Valle non ci sia niente. E mugugniamo che manchino opportunità. E mugugniamo perché ci si annoia…

Ma oggi io vi riporto una storia diversa, la storia di gente volenterosa che, con lo spirito laborioso tipico di questa terra, si è rimboccata le maniche per creare qualcosa di unico e diverso e per un fine davvero bello, a mio avviso: divertire e divertirsi in atmosfere familiari e giocose, proprio come una volta!

E così, per offrire ai propri figli uno svago e un’occasione di ritrovo, di gioco e di crescita durante le feste, è nato un comitato genitoriale che ha dato vita, sei anni fa, al primo evento a Villa Boselli a ridosso del Natale. Col tempo, la manifestazione è cresciuta e ha richiesto sempre più energie, e così mamme e papà si sono uniti mettendo ognuno a disposizione il proprio talento e le proprie capacità: chi costruiva giochi di legno, chi si occupava di contattare i professionisti (truccabimbi, animatori, ecc.), chi si premurava di procurare tutta la documentazione necessaria (assicurazioni, permessi e scartoffie d’ogni sorta)… insomma, tutti a darsi un gran daffare per far contenti i topini più piccoli e veder brillare i loro occhietti per la meraviglia… ma nessuno si aspettava, forse, che anche gli occhi dei più grandi si sarebbero accesi!

Io ho avuto l’opportunità di sbirciare dietro le quinte di questo evento meraviglioso, e ho visto tanta buona volontà, ho letto l’entusiasmo nelle parole di chi lo organizza con dedizione, credendo fermamente in ciò che fa.

E ora che questa sesta edizione è passata, resta il ricordo di due giornate trascorse all’insegna dell’allegria più pura. Quanti i palloncini gonfiati a colorare le atmosfere… quante le risate che hanno arricchito l’aria! E che bella festa!

Villa Boselli si è trasformata per due giorni in un villaggio natalizio e tutto è iniziato venerdì scorso, con la presenza ufficiale di tutte le autorità locali e i rappresentanti delle associazioni territoriali e la tradizionale accensione dell’albero. Potete immaginare l’emozione e la bellezza nel vedere le luci che si accendono sui rami, all’improvviso?

Le caldarroste e i dolciumi hanno riscosso il loro solito successo, dovreste sapere meglio di me come funziona… si passeggia spensierati e poi, all’improvviso… ZAC! Le narici vengono raggiunte da quel profumino invitante e… via… è fatta: ci ritroviamo col sacchettino colmo di leccornie senza neppure sapere bene come. La cioccolata calda è stata versata a fiumi, anche quella una tradizione irrinunciabile.

Per i bimbi è stato un gran piacere saltare su e giù dai gonfiabili, e che divertimento ascoltare la banda e i cori natalizi!

Un grande successo sono stati, come sempre, anche i laboratori creativi organizzati dalle mamme e poi gli spettacoli di magia, teatrali e quelli delle bolle. Ce n’era proprio per tutti i gusti!

Ma niente, e dico, niente, ha potuto superare in meraviglia l’arrivo di Babbo Natale e lo scambio dei doni. Una bellezza senza eguali, topi!

Per non parlare, poi, degli elfi aiutanti, che hanno raccolto con amore tutte le letterine dei topini indirizzate al Polo Nord. Io sono davvero incantata da tanta bellezza e da tutto l’entusiasmo scaturito da questo evento.

E ora, finito questo, si pensa già al prossimo, con l’augurio che sia più bello e scintillante che mai.

Queste sì che sono storie di topi che mi piace condividere. In alto i calici e… hip hip hurrà per il Comitato Natale di Villa Boselli!

E adesso vi saluto, vado a festeggiare scrivendo altri articoli per voi.

A presto!

Il profumo di un Natale antico

Topi, ma voi lo sapete com’era vissuto il Natale di un tempo in Valle Argentina? No?! Allora bisogna rimediare. Insomma, per un motivo o per l’altro mi fate sempre lavorare, Santa Ratta! Ah… ma è proprio per questo che vi voglio così bene, in fondo.

Dai, venite con me e non fate i musoni, che oggi vi faccio conoscere le feste così com’erano ai tempi dei nostri topononni. Andiamo indietro negli anni, ad annusare il profumo di un Natale del quale oggi sono rimasti i malinconici e nostalgici racconti dei più anziani.

I giorni di festa di allora non erano come quelli odierni: erano vissuti e attraversati nella  povertà, non c’erano sfarzi né abbondanza e tutto era più pacato, semplice e frugale… ma c’era una ricchezza diversa, quella calorosa che si esprimeva dal cuore e che era in grado di arricchire ogni cosa. Là dove oggi abbiamo la frenesia di regali, addobbi e acquisti sfrenati, anni fa c’era raccoglimento e pace nell’animo, uniti alla convivialità che in questi freddi giorni di fine anno diventava particolarmente generosa.

Per rispecchiare l’idea di quel Natale e quei festeggiamenti che furono, anche le immagini con le quali ho corredato l’articolo sono semplici, dai colori tenui e mai troppo appariscenti, con soggetti tutt’altro che sfarzosi. Perché, in fondo, anche se lo abbiamo dimenticato, un tempo il Natale era così (per lo meno nelle zone montane e nei paesi costieri): povero, essenziale e modesto.

I nostri topononni non accendevano festoni luminosi nelle loro tane, né per le strade dei loro topo-borghi esistevano le luminarie che oggi abbelliscono viali, corsi e edifici.

Ma non fraintendetemi: le luci c’erano, eccome! C’erano le candele, tante anche, a rendere calda e dorata l’atmosfera, un ambiente unico e magico, che poteva essere respirato e percepito solo in questo periodo dell’anno. Ad arricchire i borghi erano gli auguri che gente si scambiava tra sorrisi e aiuti reciproci.

Oggi abbiamo meno candore intorno, le temperature si sono alzate rispetto a quelle degli inverni vissuti dai nostri anziani. E così ecco che la neve viene a trovarci più di rado, ma un tempo non era così: a Natale le nostre Alpi Liguri erano innevate e il Saccarello, insieme alle altre cime che tiene per mano in un girotondo di roccia, pareva proprio lo sfondo perfetto per un Presepe.

La coltre nevosa rendeva tutto ovattato e quieto e così anche i ritmi di vita, inevitabilmente, rallentavano. Le lunghe ore di buio si trascorrevano tra le mura domestiche, raccontando storie antiche davanti alla stufa o al camino, mentre si mettevano a essiccare le bucce degli agrumi che spandevano così il loro profumo festoso per tutta la stanza.

Nel silenzio che subentrava al calar della notte, si udivano riecheggiare dolci filastrocche e mentre gli adulti non smettevano di preparare buon cibo, i topini chiedevano storie riguardanti il Natale.

E in quelle sere gelide si apprezzava assai lo stare in compagnia, la famiglia riunita nel cuore pulsante della tana. Chi filava, chi ricamava, chi intagliava, chi si riposava dalle fatiche del giorno e chi si metteva in ascolto dei racconti degli adulti con gli occhi adoranti e le orecchie attente. Stare insieme era la ricchezza più importante e apprezzata, in quei tempi in cui si possedeva poco, anche se le necessità erano tante, e si ringraziava di avere i membri della propria famiglia accanto, ricordando quelli che, invece, non c’erano più e avevano lasciato grandi assenze.

In questo contesto, topi miei, persino i piatti che si cucinavano avevano sapori semplici, non si faceva gli schizzinosi né si andava tanto per le lunghe per decidere quali piatti avrebbero reso più gustoso il giorno della nascita del Bambin Gesù. Le pietanze corroboravano e ritempravano già solo con i loro profumi, arricchiti da una terra aspra dall’aria salubre e salmastra.

E c’erano, poi, i cibi che erano portati in dono da Babbo Natale in persona! Eh sì, cari amici, i regali d’un tempo erano questi. Anche perché niente aveva più valore del cibo per le genti povere delle valli e delle montagne, quando la fame si pativa e sfiancava il fisico e il cuore. E allora quel signore dalla barba bianca vestito di pelliccia portava in dono castagne secche e mandarini a tutti i topini, forse non riuscite a immaginare la loro contentezza e i sorrisi che gli allargavano le boccucce, ma vi assicuro che c’erano!

In pochi sapranno il perché di questi doni, che si scambiavano – e si scambiano ancora – in questo periodo dell’anno. Le radici di tale usanza si perdono nel tempo, ma regalare ai più piccoli della famiglia cibarie e leccornie era un gesto simbolico assai significativo: protagonisti erano spesso semi e frutti, che simboleggiavano la nuova vita che sarebbe rinata a Primavera. I topini rappresentano da sempre la speranza nel futuro, le piantine nuove della famiglia che un giorno fruttificheranno… e allora donar loro un seme, la parte più nutriente di una pianta, significava riporre fiducia nella rinascita, ma anche offrire forza e nutrimento a coloro che più ne avevano bisogno per diventare grandi e portare avanti la discendenza.

I giorni che si avvicinavano al Natale erano anche giorni di intense preghiere, qui in Valle Argentina come altrove. Molto sentita è sempre stata la festa dell’Immacolata Concezione dell’8 dicembre, in cui si onorava in grande stile la Madonna con l’accensione di fuochi purificatori. Si sgranavano rosari, si partecipava alle funzioni religiose e si ricordava la Vergine Maria in ogni parola e in ogni gesto.

Che il culto mariano sia molto sentito  dalle mie parti ve l’ho già detto altre volte, e lo dimostrano gli omaggi dedicati a Maria nelle statue, nelle edicole e in tutte le rappresentazioni sparse qua e là per tutta la vallata.

La si correlava molto anche all’acqua come se fossero state due Madri benedette.

Quando poi giungeva la sera della Vigilia, si giocava e si chiacchierava sgranocchiando noci, fichi secchi e uva passa.

E poi? E poi, topi cari, si andava a dormire col cuore colmo di gioia che già assaporava i doni e le sorprese del giorno a venire… la stessa gioia che mi auguro proviate anche voi nell’attendere un altro mio nuovo articolo.

Un bacio di pan di zenzero a tutti voi!

Accanto al Zimun per il Sentiero dei Piumisti

Il sentiero che facciamo oggi, chiamato “Sentiero dei Piumisti” è un anello che tocca la zona oltre il Bosco del Pellegrino, chiamata “I Cubi”, attraversa il Passo della Guardia, arriva al Ciotto de e Giaie per il Colle del Garezzo e poi scende, permettendoci di toccare U Zimun, Cà Botexina, Cà Gianca e tornare ai Cubi.

Naturalmente lo si può percorrere anche all’inverso, essendo appunto un anello, ma ora cerchiamo di vedere bene, tappa per tappa, questi luoghi magnifici che regala la mia Valle e che forse non avete ancora visto.

Oltrepasseremo ruscelli, saremo circondati da monti importanti, passeremo sotto a conifere di varie specie e noteremo come, questo bel percorso, non è assolutamente difficile o impervio e quindi adatto a tutti nel suo dolce saliscendi.

Innanzi tutto serve sapere che, in Valle, si chiama “I Cubi” quel luogo che, poco prima Passo della Guardia, è dotato di tavoli, panchine e barbecue per una sosta rilassante in mezzo alle montagne. Naturalmente quando non sono ricoperti di neve.

Da qui si parte verso il bivio Guardia/Collardente e, dalla Guardia, si prosegue per il Colle del Garezzo non senza prima lasciarci incantare dalla bellezza di Rocca Barbone, vestita di bianca bambagia, e che offre uno spettacolo meraviglioso.

All’incirca al di sotto del Monte Frontè, in un’apertura tra i monti chiamata Ciotto de e Giaie (Conca dei fiumi), si intravede un sentiero che scende lato mare e conduce a una montagnola tonda dal cocuzzolo fatto a fungo.

Si tratta di U Zimun (il Cimone) un piccolo monte che sovrasta il Poggio di Goina sotto di noi.

Prima di intraprendere questo cammino, che si srotola tra pascoli incontaminati, ora ricoperti di neve, è assolutamente doveroso fermarsi e osservare il panorama.

Dal Tunnel del Garezzo, che lo si distingue come un buco nero tra i monti, si possono riconoscere Cima dell’Ortica, Monte Bussana, Cima Donzella, il Passo della Mezzaluna e dietro di lui Pizzo Penna, Monte Arborea e Carmo dei Brocchi fino ad arrivare con lo sguardo al Monte Faudo che resta esattamente davanti al mare.

Spostandoci con gli occhi ancora un poco verso destra possiamo vedere anche Monte Bignone e il Monte Pellegrino del quale abbiamo toccato le pendici salendo.

Del secondo, possiamo distinguere chiaramente i molti alberi che lo ricoprono.

Dopo aver ammirato per bene quel panorama e aver goduto della presenza di Aquile, Camosci, Gracchi Alpini e Corvi Imperiali attorno a noi possiamo inoltrarci per il sentiero protagonista di questo articolo.

Intanto quei volatili e gli ungulati non si spostano.

Continuano a rimanerci attorno. E’ bellissimo.

Iniziamo a scendere quindi e giungiamo subito ad una piccola minuscola baita in pietra e legno, un rifugio privato con tanto di recinto in legno davvero caratteristico.

Lo sorpassiamo e continuiamo a scendere fino ad arrivare al Zimun che sembra un muffin ricoperto di zucchero a velo.

Svoltiamo a destra e proseguiamo per quella stradina ben delineata che, a tratti, taglia prati e radure per poi inserirsi tra rocce e radi boschetti di conifere.

Si toccano due Poggi ben conosciuti, prima Cà Botexina e poi Cà Gianca.

Durante il tragitto si passa nell’acqua fredda dei ruscelli e sotto ai grandi Abeti scuri che, di tanto in tanto, scrollano la neve dai loro rami aiutati dal vento.

Le loro fronde sono come affaticate.

Qui è tutto surreale. Verso i monti siamo protetti dalle pareti di terra e di roccia.

Par di essere dentro a un contenitore trasparente dall’atmosfera inimmaginabile.

La foschia tenta di abbassarsi con forza creando banchi spessi e, appoggiandosi alle creste che stiamo scavalcando, riesce bene nel suo intento.

Attorno, quindi, l’ambiente si fa bigio e affascinante, quasi mistico. Il silenzio è così assoluto da sembrare pesante.

Gli arbusti spogli sembrano scheletri che si stagliano tra le nubi basse, intenti in un’ascesa contemplativa verso il cielo.

In questo periodo dell’anno non ci sono fiori e nemmeno farfalle. Non ci sono colori e neanche rumori ma… quel mondo continua ad essere il mio mondo preferito. È assolutamente perfetto. È come deve essere. Sono in totale connessione con lui e mi sento io stessa natura.

Diverso gocce di neve sciolta si tuffano in picchiata verso il suolo.

Qualche secca spiga, colta di sorpresa da quei fiocchi di ghiaccio, è rimasta immobile come se per lei il tempo si fosse fermato e alcuni ciuffi d’erba sono gli unici a tingere, di un arancione bruciato, tutto quel perlato monotono.

Da qui si può vedere il sentiero del Garezzo sopra di noi.

Continuiamo accompagnati dal battito di quel cuore attutito da nebbia e ovatta. Tante le curve ma poche salite. Un sentiero semplice ma stupendo.

L’unico pezzo più a “rampa” è la fine, quando si giunge nuovamente ai Cubi e l’animo e pieno di gioia colta strada facendo.

Una passeggiata da fare e ricordare e che mi auguro vi sia piaciuta.

Vi mando un bacio tra la bruma ma vi giungerà.

Alla prossima Topi!

Il Biancone – la forza del Guerriero

Decisi di tornare dal mio amico Lupo, Odoben Malcisento, perché durante l’estate vidi diversi Bianconi volare nei cieli della Valle Argentina.

Ci sono sempre stati ma non ne avevo mai visti così tanti e così spesso.

Che rapace incredibile il Biancone! Fiero, nobile, dalla bellezza superba.

Come al solito, Odoben, vecchio Generale, stava cercando di far rigar dritto gli altri componenti del branco con i suoi ordini imperativi e militareschi. Potevo vederlo e sentirlo da uno dei pascoli del Garezzo nel quale mi trovavo ma, sapendo che è sordo, decisi di avvicinarmi.

<< Odoben!>> esclamai in sua prossimità. Si voltò di scatto con quel suo orecchio mozzo, teso verso il fluire del vento. Mi vide subito e, subito, mi rimproverò <<Generale Odoben! Generale! Piccolo sorcio, quante volte devo ripeterti che sono un Generale?>>

<<Chiedo scusa Odob… Generale! Mi auguro non la infastidisca la mia presenza… volevo chiederle qualcosa sul Biancone!>>

<<Di quale penosa ragione parli?>>

<<Penosa ragione??? No no no… Q-u-a-l-c-o-s-a s-u-l B-i-a-n-c-o-n-e!!!>> urlai.

<<Ah! Oh! Perbacco! Certo! Il Biancone! Uno spirito Guerriero! Un forte e valoroso soldato! Come si può non conoscere il Biancone?! Lui si che conosce il coraggio, non come questi citrulli mangia mollica che mi ritrovo ai ranghi>> mi si avvicinò, ma prima diede ancora un ordine alla Fanteria <<At-tenti! Ri-poso! Sciogliete le righe smidollati! Torno tra poco e cercate di essere pronti ai comandi!>>

<<Signorsissignore!>> risposero in coro gli altri giovani e pazienti Lupi per farlo contento.

<<Dimmi pure, soldo di cacio munito di coda, cosa vuoi sapore sul Biancone eroe?>>

<<Ecco, appunto, Generale Malcisento… perché il Biancone è un eroe?>>

La sua grassa risata gli schiarì la gola <<Tutti sanno che il Biancone è simbolo indiscusso della forza nobile dell’azione, cara la mia piccola ratta. Vedi, in tutte le battaglie, come anche quelle della vita, che ci possono capitare ogni giorno, si combatte sempre con la rabbia, con la voglia di vendetta, con la tristezza o la paura nel cuore, ma non è così per il Biancone. La sua è una giustizia pura, senza odio, una fierezza indomita che si staglia nei cieli>>

Ero totalmente rapita da quelle parole anche se, al momento, mi aveva detto pochissimo. Wow! Avevo già capito che si stava parlando di un animale davvero particolare e incredibile. Lo lasciai andare avanti. Anche lui sembrava estasiato dal suo stesso racconto <<E’ così regale! E con la sua giustizia, così pulita e onesta, non ci mise molto a diventare simbolo di purificazione e persino di luce, avvicinandosi all’Aquila come emblema e animale di potere. Sei stata fortunata a vederne molti, significa che probabilmente anche tu meriti di riconoscerti in queste qualità>>.

Quel Generale di Corpo d’Armata ora sembrava addirittura quasi malinconico e quindi decisi di continuare a farlo parlare <<Non per niente il suo vero nome, Circaetus gallicus, fa riferimento ad un Falco-Aquila protetto già in Gallia, nell’antica Francia, giusto?>> gli chiesi.

<<Proprio così sorcina, proprio così>>

<<Mangia prevalentemente i serpenti vero?>>

<<Ma non ha i denti! Cosa dici mai?! Il suo becco è già troppo possente!>>

<<Non denti! Serpenti Odoben! Ho chiesto se mangia i serpenti!>>

<<Ah! Si si certo! I serpenti sono il suo cibo preferito, è un uccello migratore e cerca le zone calde che gli offrono anche il cibo! Ma al contrario dell’Aquila che, molto grossa, afferra i rettili al volo, il Biancone prima li circonda sbattendo le ali così da disorientarli e stordirli. Non per niente è anche soprannominato – Il Cacciatore di Serpenti ->>

Che bello sapere tutte quelle cose su un rapace raro ma presente nella mia Valle. Immaginavo quel suo piumaggio chiaro e biancastro sul ventre ma più scuro sul dorso. Un marrone simile agli arbusti spogli che tingono i miei boschi in questa fredda stagione.

Quell’espressione austera che mostrava il temperamento impavido. Quella rara bellezza.

Pensate Topi che, il Biancone, depone un solo uovo all’anno e, in Valle Argentina, lo cova intorno ai mesi di aprile e maggio. Si tratta infatti di una specie protetta.

Odoben mi aveva detto abbastanza. Potevo rintanare soddisfatta e aspettare l’arrivo della prossima primavera che avrebbe portato con sé anche nuovo Bianconi da ammirare. Salutai quindi il mio strambo amico Lupo che tornò a governare il suo Corpo Militare e mi inoltrai nel bosco. Chissà dov’era ora il Biancone? Sicuramente in qualche paese dell’Africa.

Tutta quella neve attorno a me mi stava dicendo che mai, in questo periodo e in questi luoghi, il Biancone poteva sopravvivere e con il cuore leggero decisi di attenderlo immaginandolo sorvolare il Sahara con la sua maestosa apertura alare che può raggiungere i due metri.

Un bacio fiero quanto lui a tutti voi! Alla prossima!

Un altro “Grazie” ad Andrea Biondo per le immagini andreabiondo.wordpress.com

La Feijoa – scrigno di virtù

Topi, voglio farvi conoscere un frutto che non è autoctono della mia Valla ma la Valle Argentina gode di un clima talmente meraviglioso che può nascere e crescere in lei qualsiasi specie di flora. Anche quella tropicale.

Vi presento infatti una pianta dell’America Latina e si tratta di una pianta che dona frutti buonissimi dal gusto davvero particolare. Un sapore che sembra un misto tra fragola e ananas ma che dipende anche molto dal suo stato di maturazione. E’ comunque inferiore al profumo emesso che è invece dolce e intenso.

Si tratta della Feijoa o, scientificamente conosciuta con il nome di Acca Sellowiana capace di regalarci frutti, dal gusto fresco e estivo in pieno autunno e in inverno.

Ce ne sono diverse piante in Valle e fanno tutte dei fiori stupendi infatte vengono coltivate anche come piante da giardino.

I frutti maturano prevalentemente a inizio autunno e cadono da soli dalla pianta. Questo suggerisce che sono pronti per essere mangiati, altrimenti, la scorza spessa e verde che ricopre la Feijoa non permette di capire la maturazione del prodotto.

Una buccia in grado di difenderla.

Al suo interno, se tagliato a metà, il frutto grande come un Lime, presenta il disegno di una specie di stella e può quindi essere utilizzato anche per decorazioni di piatti in cucina.

La sua polpa è simile a quella della mela, anche se più pastosa, e stando all’aria si scurisce e diventa ancora più giallognola. Non matura però, come la mela, in un secondo momento una volta staccata dalla pianta madre.

Si tratta di un frutto ricco di proprietà benefiche. Contiene molto iodio e i suoi semini hanno una funzione antibatterica per noi. La polpa è un ottimo antiossidante e, in cosmetica, viene usata come tonificante ed emolliente.

Tanta la Vit. C e i Sali minerali che la contraddistinguono e che effettuano sulla pelle un incredibile effetto anti-age.

Ma le sue virtù non sono presenti solo nel frutto. Le sue foglie, molto adatte per calde tisane visto il periodo, rinfrescano, ammorbidiscono ed elasticizzano i tessuti.

La Feijoa è una bellissima visione che appare quando il mondo attorno a noi diventa grigio a causa dei temporali autunnali o bianco per via della neve. I suoi fiori rosa e i suoi frutti verde vivo, sembrano un toccasana per gli occhi e il cuore.

Si consiglia per questo di tenerne una sul terrazzo anche perché tanto è molto robusta e non patisce neanche il gelo.

Cosa ne dite Topi?

Ve l’ho fatta una bella sorpresa oggi vero? Un bacio ricco di virtù a voi!